La mimosa cresceva spontanea nella pineta dietro la casa dov'ero cresciuto, insieme alle ginestre, anch'esse gialle ma profumatissime..Le decisioni in merito alla partenza erano prese. Io dovevo lasciare l'appartamento, e comunicai la disdetta del contratto di affitto. Non ricordo come lo dissi a mia madre, forse seguii il metodo claudiano dell'imposizione di realtà! La tanto odiata cucina, finì in un magazzino se ben ricordo,o dissi che non potevo portarla dietro, la camera da letto rimase lì, in quanto mi era stata regalata dalla vicina dei miei, che di certo non la voleva indietro, l'attaccapanni in foglia d'argento lo diedi a mio fratello per sdebitarmi almeno in parte del suo aiuto.
L'idea di non avere nulla, non mi deprimeva, anzi mi dava un senso di leggerezza. Forse non c'è molto che puoi avere se non sei nel posto giusto per te, quindi sarebbe stato ragionevole aspettarsi di meglio dal futuro e viaggiare “leggeri”. A casa di Claudio, le cose erano meno facili, in quanto lui dovette chiudere l'attività per trasferirsi e ciò addolorò non poco i suoi, che l'avevano tanto aiutato ad aprirla. Inoltre, nonostante la sua turbolenza, la vita di quelle persone non aveva conosciuto allegria più grande che vederlo crescere. Lui lasciava quella casa in un silenzio angosciante, mentre io lasciavo il silenzio angosciante “a casa.”.
Ogni tanto andavo a casa dei miei, e comprendevo il frastuono del silenzio che vi si era insediato dopo la scomparsa di mio padre e la mia uscita. La stanzetta dove avevo giocato da bambino, era ormai vuota, il giardino aveva meno voglia di fiorire, e nei corridoi, l'eco dei litigi sibilava a bassa voce, la mia stessa mamma, sembrava piccola lì dentro da sola. La sua preoccupazione per la nonna cresceva di giorno in giorno, e credo fosse diventata una necessità. un pensiero necessario alla sua sopravvivenza, forse, o il modo per rendere la sopravvivenza stessa più accettabile. La morte di papà mi aveva colto quasi di sorpresa, mentre ero al lavoro. Venni avvisato dell'accaduto al telefono, e mi precipitai a casa dove regnava il caos. Se n'era andato nella sua camera, la stessa, dove lei continuava a sentirlo respirare, e rimase in casa per tre giorni, per un problema di ”orario del decesso”. Qualche giorno prima sembrava stare meglio, e si fece tagliare i capelli, in giardino. Mentre glieli tagliavo, gli vedevo gli “undici”( i nervi posteriori al collo resi evidenti dalla magrezza). E mi ricordai di un film, che sosteneva che, la visibilità degli undici, era un segno di prossimità alla morte. Tagliavo i suoi capelli ricci, e speravo che fosse stato solo un film idiota, ma mi sbagliavo. La cosa veramente idiota, era la pantomima che si era creata, cioè, il fingere che nessuno sapesse la verità, circa le sue condizioni. Non so chi la cominciò per primo, ma ci finimmo dentro tutti! Tutti perdemmo la possibilità di dire ciò che valeva la pena di esser detto: “ ti voglio bene, scusami, per favore perdonami, e grazie.
Compresi che mio padre, era come quella piccola pietra a cuneo che sostiene i ponti o le navate, “la chiave di volta”! Apparentemente sembra solo una decorazione, ma in realtà i pesanti archivolti, contano su di lei per “scaricare” il proprio peso, ed essa da sola, garantisce la funzionalità strutturale dell'intero edificio. Vincenzo, era un uomo retto, e onesto con un senso della famiglia molto sviluppato. Da ragazzo i suoi occhi verde bottiglia facevano strage di cuori femminili, ma solo una donna divenne sua moglie, la Maria Luisa. Lei era talmente timida e inibita, che non si fece lusingare dalle attenzioni del “maliardo” e forse per questa sua coriacea rigidità, suscito in lui il desiderio di conquista! Le due famiglie non conciliavano, e la mia nonna materna, non vedeva di buon occhio quell'unione o così mi aveva raccontato mia madre, ma la Maria Luisa non si fece condizionare, evidentemente, e lo sposò all'età di 21 anni. Non ebbero la gioia di generare figli propri, e questo cambiò la maria luisa, per sempre, la fece sentire “anormale”, e questo, divenne poi un grosso ostacolo. Convinse il Vincenzo ad avviare le pratiche per l'adozione, e dico convinse, perché mio padre era perplesso circa l'avere figli “non suoi”. La sua onestà lo spingeva a chiedersi se fosse capace di amarli come se lo fossero, mentre l'ansia della maria di essere “normalizzata”, la spingeva a non desiderare altro. Il suo amore per lei, lo spinse a sopportare umilianti esami, per verificare le cause della sterilità, che però li condussero ad altre domande ancora. Apparentemente nessuno dei due pareva, secondo le conoscenze mediche di allora, incapace a livello fisico, ma la natura ha un bizzarro modo di esprimersi, e dovettero rassegnarsi a non avere risposte certe.
Gli orfanotrofi allora dichiaravano adottabili molti bambini italiani e piccoli d'età, forse a causa dell'amore libero degli anni settanta, e loro si recavano in questo Istituto con cadenze regolari.
I bambini nelle corsie, chiamavano “mamma” ogni signora in visita, e la Maria, non dimenticò mai quelle voci. Il sistema prevedeva che i genitori adottivi si recassero all'istituto con dei giochi, e che stessero qualche ora con tutti i bambini, mentre le operatrici cercavano di intuire quale bambino fosse più incline ad avvicinarglisi. L'iniquo metodo impediva ai piccoli più traumatizzati di avere una chance, ma la giustizia aveva la bilancia rotta, se qualcuno li aveva abbandonati, e questo era il meglio possibile per allora. Finita la visita, seguivano i colloqui, e veniva fissata la visita successiva.
Non so dopo quanto tempo, i miei, furono considerati “pronti” per il primo figlio, ma so che, mio fratello aveva tre anni quando tornò a casa con loro. Io, dovetti aspettare altri tre anni.
Che i miei genitori fossero buoni ero certo, poiché io in una delle loro visite, mi addormentai in braccio alla maria luisa, e così divenni suo figlio.
Mio padre litigò bruscamente con la direttrice dell'orfanotrofio, la quale tergiversava sulle mie condizioni di salute. Avevo i bronchi conciatelli, e uno dei miei piedi voleva indossare le scarpette con la punta di gesso. Piede equino, fu la diagnosi dell'ortopedico, risolvibile con un intervento verso gli otto anni. Io speravo che mi avrebbero fatto a punta anche l'altro e che sarei diventato una ballerina famosa, ma invece mi toccarono le scarpette ortopediche basse.
Diventammo così una famiglia “normale”!
Nel salotto di casa, il divano di mio padre, era occupato da Lillo, il gatto siamese, che mio padre adorava. “sta lì tutto il giorno” mi diceva mia madre, “se lo prendo lui miagola e torna lì ad aspettare...”. Presi ciò che dovevo prendere abbastanza in fretta, in modo da non scoppiare a piangere, mentre mia madre con i gesti di un automa, metteva tutto in una borsa. La baciai e le dissi di non preoccuparsi, che mi sarei fermato a Novara solo per un po', ma mentii e lei lo sapeva.
Quando chiusi lo sportello della macchina di Claudio, che mi aveva aspettato giù , lei era alla finestra, come quando mi fischiava per tornare a casa, ma non fischiò, anzi, sventolò una mano senza forza e io feci altrettanto.
La scomparsa della nostra chiave di volta, fece crollare le architravi della finzione e oguno di noi, a modo suo, mostrò di che qualità fosse fatto davvero.
Mio fratello, era sposato, e prese per primo la distanza da noi, cercò di dimenticarsi da dove veniva, e ci riuscì perfettamente. Mia madre, cominciava a realizzare le sue colpe, e l'inutilità di una scelta, che al tempo in cui venne fatta, dovette sembrarle la migliore possibile. Io, cosciente del rischio di “riscrittura” della propria storia, la congelai dentro di me, e girai la pagina non senza un pizzico di egoismo.
Portai con me la gratitudine e il perdono, ma non pensai un solo minuto di tornare indietro, mentre Claudio sensibile com'era mi prese la mano e la poggiò sulla sua gamba, ricoprendola con la sua. In silenzio. Le persone lasciano o vengono lasciate in continuazione, alcune guardano avanti altre si voltano, e comeracconta la Bibbia sulla moglie di Lot, diventano statue di sale. Quella leggenda, ci dimostra che voltarsi indietro, è più dannoso che andare avanti, e che non possiamo andare avanti davvero, se non ci lasciamo alle spalle un po' di cenere.
Non posso dirmi certo che lì non ci fosse ancora qualcosa per me, ma ero certo di non volerlo, ricordai le parole di Mann, che disse:
“Quando l'uomo è portato a trascendere sé stesso ha solo due scelte, può costruire o distruggere, amare o odiare”. Una scelta sola non è una scelta ma due sono un vero dilemma...
.to be continued