Raptors, Pterodattile e....
C’è una fase della vita dei maschi in cui menar le mani diventa un modo per non toccarsi di continuo, di sfogare la rabbia che viene dalla ammonizione a “non far le femminucce” con cui improvvisamente veniamo circoncisi nel cuore dagli adulti. Impediti al pianto e alle emozioni che invece, proprio a quella età, sgorgano a fiotti. Senza la consolazione di un abbraccio cosa vuoi fare di fronte a una porta chiusa? Ci sbatti i pugni con tutta la forza che hai. Deve essere così che si sentì il Parotti quando mi caricò come un bufalo e mi riempì di pugni. Era viola in faccia ma aveva i lacrimoni mentre le sue mani grasse e pesanti, sembravano moltiplicarsi a multipli di due sulla mia faccia sgomenta. Si ma perché proprio io? Tutta la classe lo prendeva in giro per la sua ciccia tranne me che però, ero piuttosto risentito con lui perché mi rubava il pranzo di mano se ne aveva voglia.
Quel giorno, uscendo da scuola doveva aver fatto il pieno di umiliazioni e quella risata che io avevo prodotto, per una battuta della mia compagna di banco bisbigliata al suo passaggio, gli doveva essere arrivata come uno schiaffo. Le ragazze urlavano e i maschi scommettevano e io provai a difendermi più che a “dargliene altrettante”, come diceva papà, perché il ragazzo grasso e stufo piangeva come nessun maschio, da cui le avevo prese a scuola, aveva mai fatto. Le sue lacrime e il mio sangue dal naso, si erano mischiate a causa della vicinanza dei nostri visi e in quel brodo di dolore, finimmo per sentirci meno nemici. A casa dissi che mi ero fatto male con la bici di un amico, perché anche li da un po, si discuteva con aria preoccupata sul fatto che io le prendessi sempre.
Il giorno seguente, fu lui a fare il primo passo proprio mentre al suo solo avvicinarsi, mi ero già preparato al tonfo sordo delle sue mani paffute “ mi dispiace per ieri” disse allungandomi un panino di pacificazione che con un cenno della testa accettai senza replicare. Gli passai il compito di italiano e da quel giorno chiunque mi chiamasse “ricchione” sbatteva rovinosamente contro il corrimano delle scale nell’ora di ricreazione. Nella zuffa di quel pestaggio, io e lui ci eravamo trovati in un contatto fisico molto stretto e, vuoi per contenerlo, vuoi per l’aerodinamica goffa del nostro impaccio, ero finito per avercelo sopra in un modo che non mi lasciò altra scelta che cedere e, in quel cedimento abbracciato lo notai. Il Parotti aveva gli occhi azzurri più belli del mondo incastonati su fila di ciglia folte gialle e setose che bagnate erano diventate nere come quelle delle ragazze truccate. Lui, forse, aveva trovato l’abbraccio che gli era mancato.
Ecco una parte fondamentale della menomazione emotiva a cui sembrava non ci si potesse esimere per diventare uomini: mai mostrare le nostre emozioni, guai anche solo a provarne pubblicamente ,soprattutto tra noi ma se proprio fosse accaduto, mai farne parola, meglio una scazzotttata virile. Le ragazze tra loro però continuavano a raccontare che i maschi non gli dicevano mai “ti voglio bene”.
Sembrava che maschi e femmine fossero cresciuti in famiglie separate, tipo famiglia che fa maschi non parla, famiglia che fa femmine non ascolta. Eppure, molte di loro avevano fratelli o sorelle e gli stessi genitori. Perché dunque le emozioni venivano consentite alle femmine e non ai maschi?
Se il Parotti aveva risolto a manate la sua frustrazione emotiva e le ragazze trovavano sollievo alla stessa emozione confidandosi tra loro, io come avrei potuto sopravvivere fino alla quinta con la certezza di non poter dire a nessuno come mi sentivo nei confronti dei maschi?
Nonostante le classi fossero miste, la quotidianità delle relazioni era nettamente separata tra maschi e femmine, tanto più a questo punto della nostra crescita in cui, gli ormoni giocavano agli autoscontri con gli uomini e le donne che saremo diventati!
I maschi, meno individualisti delle femmine si aggregavano sulla base del modello “fico” del tempo e della quantità di ragazze con le quali aumentavano le loro quotazioni nell’istituto. Istituto nel quale non mi era dato saper se fossi l’unico del mio “genere”.
Nella terra di mezzo che già è l’adolescenza, i maschi vengono chiamati “ alle armi” e le femmine “alle arti” e sebbene il progresso abbia modificato l’approccio ai modelli emotivi si sa che ogni evoluzione reclama la fine dei suoi dinosauri, prima di poter attuare il suo cambiamento reale.
Più simili a Raptor incasinati voraci e violenti, i maschi non nascono così, piuttosto sono forzati a diventarlo per soddisfare i modelli preistorici dei propri genitori. Le femmine volteggiavano come pterodattile sul nostro casino, le zuffe e le corse costringendo quelli di noi attratti dal loro richiamo a guardarle per come erano: irraggiungibili e sospese sopra di noi in un mondo leggero e parallelo dal quale i miei compagni erano giustamente convinti di essere esclusi. Raptor e Pterodattile e in mezzo, c’ero io: una sorta di indefinito dinosauro opportunista e incapace di volare o correre, destinato ad una estinzione, o peggio la causa di questa, come intendeva mia madre quando mi diceva: se fossero tutti come te la razza umana si sarebbe già estinta.
Ad estinguersi in quel periodo fu la mia voglia di studiare. Mi vedevo in una teca con le mie ossa tutte infilate nel fil di ferro circondato da bambini venuti al museo per vedere l’unico esemplare di Omosauro trovato fossile e vergine al tempo stesso.
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