venerdì 22 gennaio 2010

Rosaria il piccolo, e il cuore delle Rondini

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C’era la neve in giardino quell’anno, un’insolita nevicata abbondante e ovattata nel
mese di aprile, e la finestra della mia stanza faceva da cornice a quel pezzetto di
mondo. Le corolle delle calle, colme di neve, piegavano lo stelo carnoso verso terra,
facendole sembrare gelati sciolti al sole di un’improbabile estate.
“Un bambino triste, distratto da fantasie contorte”. Questo dicevano di me i miei
familiari, perché spesso mi incantavo, davanti al vetro della finestra, o per strada,
quando mi chiamavano o quando ero semplicemente seduto sulla sedia, e con
l’immaginazione fuggivo da qualche parte.
Avete mai notato, dietro i vetri delle case, un bambino o un vecchio?Agli estremi
dell’età sembrano avere qualcosa in comune - come un’attesa - nello sguardo
apparentemente vacuo.
Per me, quell’attesa terminò con l’arrivo di Rosaria, che mi fece il dono più grande :
la LIBERTA’ di volare lontano! Lasciate che sia lei a raccontarvi tutto dall’inizio:
“Per alcuni l’inizio corrisponde alla propria nascita, ma per altri può essere un preciso
momento della propria vita, o un fatto accaduto che determina una svolta
fondamentale… ma che sia questo o quello, ciò che rimane è davvero sono le
emozioni che ne scaturiscono a fare la differenza”.
Tramite loro strutturiamo le nostre convinzioni profonde, e di conseguenza i nostri
comportamenti futuri.
Quindi non c’è da stupirsi se se all’inizio fu soltanto… EMOZIONE.
“A quel tempo stavo in campagna e facevo compagnia all’unica figlia di una
semplice famiglia laboriosa, una bambina un po’ triste. Perciò ero lì: perché, non
essendo bella veniva, lasciata da parte dal resto dei bambini del paese. Non c’era
nulla di sbagliato in lei, aveva solo un po’ di peluria sul viso, come le pesche mature,
ma deriderla per questo era l’occupazione preferita dei suoi coetanei, e a dire il vero
anche dei loro genitori.
La sua famiglia soffriva molto per questo, e lavorò sodo per mettere da parte le
risorse necessarie, per realizzare il suo sogno: di diventare disegnatrice di moda.
Il tempo passò e quando lasciò il paese, per andare in città a studiare, mi portò con
sé. Avevamo passato così tanto tempo insieme, e ora lei era pronta per entrare nel
suo Sogno e viverlo. Mi abbracciò per l’ultima volta un 23 di giugno. Le lacrime le
rigavano il viso, ma sapeva, come lo sapevo io, che c’era in gioco qualcosa di più
importante. Si trattava di condividere con persone nuove i nostri doni, e così
facemmo.”
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Uno dei modi migliori di condividere è quello di donarsi, e per me, era proprio con
un dono che ricominciavo il mio compito con un nuovo bambino.
Quando lo vidi per la prima volta, avevo un biglietto d’auguri tra le mani. Era un
biglietto semplice, con su scritto soltanto: “Abbiate cura l’uno dell’altro”. Era firmato
“Verena”.
Ci piacemmo al primo sguardo io e il piccolo. Un presupposto fondamentale ci univa,
un atteggiamento straordinario: la LIBERTA’!
Sì, eravamo liberi di conoscerci senza pregiudizi e paure, in parte a causa della mia
natura e in parte grazie al suo bisogno d’amore. Aveva un viso tondo e abbronzato
nel giorno del suo compleanno, e i capelli leggermente lunghi e lisci, incorniciavano
due occhi marroni e vivaci. Mi teneva tra le mani, mentre andavamo a casa,
accompagnati da sua madre.
Lei era una donna minuta, dalle belle mani. La pelle olivastra indicava una
provenienza mediterranea, ma era priva dello slancio e dell’allegria tipici di quei
luoghi,: tutto di lei trasmetteva rigore timidezza, anche la fragranza asciutta del suo
profumo. Persino i capelli trattenuti dal cerchietto, manifestavano la volontà di passare
inosservata:e dimessa, ma nonostante questo, il piccolo le teneva gli occhi incollati
addosso e per questo, inciampava spesso.
Per raggiungere la casa prendemmo un piccolo autobus pieno di ragazzini rumorosi,
che si inerpicava su per una salitina angusta e tutte curve. Sembrava che stessimo
lasciando la città, invece arrivammo a un quartiere immerso nel verde di una bella
pineta. Le palazzine, parevano aggrapparsi alla salita, sembravano signore malferme
su tacchi troppo alti, circondate da deliziose aiuole di bouganville e da salici
piangenti.
Lui stava fissando incantato i salici, quando chiese all’improvviso: “Mamma, come si
chiama quell’albero?” E lei rispose: “Salice piangente”, allora lui chiese: “ E perché
piange?” Ma la madre non rispose, come se la domanda non fosse pertinente. “Stai
seduto dritto!” sbottò invece la signora, rivolgendo lo sguardo altrove.
Già, perché i salici piangono?
PENSIERO MAGICO SUL PERCHE’!
“C’era una volta una fanciulla esile come un fuscello e dai lunghi capelli verdi, che
nutriva molti dubbi sulla propria forza fisica. Così, per paura di non farcela, non
azzardava neppure a muoversi, e si giustificava con se stessa ritenendosi molto
prudente. A volte invece trovava scuse raccontandosi storie di incauti esploratori finiti
male, e per calmarsi dondolava il capo e la chioma. Per un po’ andò bene, ma ad un
certo punto, i suoi piedi diventarono radici profonde, e lei, non potendo più muoversi,
pianse disperata. Finché un giorno passò di lì una rondine, che mossa a pietà le
consigliò di chiedere ai suoi piedi perché le avessero fatto questo scherzo. La ragazza
lo fece, ed essi risposero che volevano solo accontentarla, darle sicurezza. Qualche
volta, miei cari, pur desiderando la nostra felicità, anche chi ci ama può
sbagliare!”Una brusca frenata ci scosse mentre io e il bimbo ci sorridevamo a vicenda
Eravamo giunti al capolinea.
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Realtà e fantasia possono mischiarsi, nel mio mondo magico. Si mitigano a vicenda,
per insegnare a ridere più spesso, anziché ammalarsi di serietà. Per questo i bambini
mi adorano; perché lo fanno anche loro! Mescolano realtà e fantasia, e il loro mondo
si riempie di risate argentine.
I grandi invece… loro fanno fatica a divertirsi davvero, e si ammalano spesso di
serietà e di doveri. Inoltre passano gran parte del loro tempo prezioso a “essere
giusti o sbagliati”, a dividersi in categorie e a decidere per il “meglio”, A causa di ciò,
sono spinti a giudicare e giudicarsi in continuazione, rimanendo sempre fermi su loro
stessi e infelici.
Di certo tutti, da bambini, conoscono questo sistema: un “filtro per ridere”... solo che
dopo non se lo ricordano più.
In ogni caso, la mamma e il bambino erano liberi di usare i loro piedi senza radici, e
così ci dirigemmo tutti e tre verso l'abitazione in cima alla salita. Era la casa più alta,
e l'aria era satura del profumo degli aghi di pino bagnati dalla pioggia recente. Che
meraviglia un po' di campagna anche in città.
Appena entrati, fui avvolta da un altro odore: cera per pavimenti, altrettanto forte ma
molto meno poetico. In campagna di solito non si usa perché si entra e si esce di
continuo e i pavimenti non sono così delicati.
Una fila di pattine, perfettamente allineate nell'ingresso, intimavano il dovuto rispetto
per la fatica della signora nel tenere in ordine, tanto che persino la vicina, in tanti
anni di conoscenza, non aveva MAI varcato la soglia del pianerottolo.
La casa era ordinata e arredata con decorosa semplicità: c'erano tende bianche alle
finestre, e una grande consolle in legno dorato e un alto specchio, erano gli unici
eccessi consentiti.
“Un'altra piccola stanza”, pensai vedendo la camereta dei giochi del piccolo, ma c'era
una bella finestra che dava su una parte del giardino dalla quale si vedevano aiuole
di ortensie e calle bianche. Decisi che mi sarei trovata bene lì.
Vi avevo detto che dietro la casa c'era una pineta, vero?
Dall'alto del muro di cinta scendevano cespugli di rovi, che di lì a qualche mese
sarebbero stati carichi di more succose. Mi sentivo davvero fortunata a poter sentire
il cinguettio degli uccelli, alla mattina presto, quando stavo seduta su uno sgabello di
sughero e li vedevo passare festosi.
Questo era l'ambiente in cui cresceva il piccolo, e a vedersi era stupendo, ma
durante il pranzo mi resi conto che nessuno pareva notarlo.
La tavola potrebbe essere un'ottima occasione per dialogare, per conoscersi meglio e
per scambiarsi reciproche attenzioni, ma capii subito che non era così per loro. Il
piccolo Enrico, così si chiamava, mangiava in silenzio e lentamente,al contrario di suo
padre, e suo fratello maggiore, mentre la signora lo redarguiva, perché finisse alla
svelta.
Nessuno si faceva domande sul perché lui fosse il più lento, ma a mio parere non
era strano: infatti, quando ognuno aveva terminato il pranzo, sia il padre che il
fratello si alzavano e tornavano alle proprie occupazioni, e lui rimaneva solo con la
madre.
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PENSIERO MAGICO DEL FORSE
Forse mangiare più lentamente degli altri gli consentiva di restare da solo con lei,
oppure di distinguersi da loro per uno scopo.
Forse lei finalmente l'avrebbe visto, avrebbe notato il suo sguardo fiducioso e si
sarebbe seduta con lui, accarezzandolo. Allora si sarebbe sentito davvero sazio. O
magari avrebbero potuto sbrigare insieme le faccende.
Forse lui avrebbe continuato ad osservarla in silenzio, fotogramma per fotogramma,
fissando nel suo cuore quelle immagini, sperando che lei si sarebbe girata, e gli
avrebbe sorriso, riempiendo di luce il suo cuore fotografico.
Forse lui avrebbe trovato il coraggio di farle una domanda. Le avrebbe chiesto
“Mamma, mi vuoi bene?” con la fiducia di una pronta risposta positiva.
In quei pochi minuti ogni cosa, ogni situazione, ogni lieto fine diventava possibile,
perché il mondo del possibile era lì tra loro, e dentro di lui.
Forse lui avrebbe continuato ad essere l'unico dei due pronto a viverlo, forse lei non
lo avrebbe mai visto! Così, come tutti i bambini, desiderando approvazione, finì il
pasto in silenzio, proprio come l'aveva cominciato, mettendo le sue speranze da
qualche parte dentro di sé. Forse...
Realtà e fantasia, quasi si sovrappongono negli occhi dei piccoli, creando bolle di luce
fragili e leggere che volteggiano tra loro e i grandi, in attesa di diventare ricordi
bellissimi per mezzo di una scelta: quella di renderle REALI,
Quando questo non accade, esse scoppiano su viso, è così che nascono le lacrime! Forse
anche lei versava le proprie, magari in segreto, perché dietro quel comportamento inutile,
dietro quel velo di indifferenza doveva esserci la stessa innocenza di suo figlio, e
dovevano esserci bisogni simili, trascurati a causa di un bisogno ostinato, tanto intenso da
renderla cieca. Ma quale? Questo era un suo segreto.
A proposito di segreti, parenti prossimi delle bugie che occorre raccontare per
custodirli, perché si chiede a qualcuno di SAPERLI TENERE? Credo sia una questione
di dimensioni. Una volta una bambina andò a casa della nonna. Lì c'era un vasetto
dove teneva dei granetti digestivi. La piccola sapeva che la nonna non voleva che li
prendesse, così approfittò di un momento di distrazione, lo aprì e ne mise una
manciata in bocca. Nessuno l'aveva vista, ma quando la nonna tornò e le fece una
domanda, quei granetti erano diventati così grandi, che per rispondere dovette
sputarli fuori. La nonna la guardò con aria severa e poi scoppiando in una risata le
disse “Pensavi davvero che non si vedesse che nascondevi qualcosa?”
Ecco il punto: ciò che nascondiamo diventa sempre più grande, e finiamo per non
poterlo più contenere. Impauriti dal giudizio degli altri, ci comportiamo come se tutti
sapessero, mentiamo e facciamo cattive scelte. La madre di Enrico mise da parte i
bisogni di suo figlio.
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Nella mia stanzetta – che a dire la verità era più simile ad un corridoio - c'erano poche
cose: un mobile giallo pitturato molte volte e che per questo fatica a chiudersi, una
scrivania azzurra, un vecchio baule verde con le borchie dove tenevamo i giochi, e il mio
sgabello di sughero, vicino alla finestra. Infine, sulla mensola, c'era una bellissima scatola
di latta dorata, nella quale erano contenuti dei magnifici bottoni.
Enrico passava con me quasi tutti i pomeriggi, e io lo guardavo giocare con le cose più
semplici, ma nulla era paragonabile alla scatola dei bottoni: questa lo affascinava
completamente. In effetti erano molto belli, e forme e colori avevano una varietà infinita
Enrico li teneva in mano con garbo, facendoli ruotare alla luce, magari nella speranza che
un raggio di sole li attraversasse, creando un arcobaleno sul muro.
Si dice che alla fine dell'arcobaleno, uno gnomo nasconda il suo tesoro. Per noi il
tesoro era quello, ed Enrico giocava da solo per ore, finché un giorno non gli venne
in mente qualcosa.
Ora so perché li aveva fissati per così tante ore, in silenzio, accostandoli gli uni agli
altri, talvolta avvicinandomene qualcuno come se volesse provarne l'effetto... aveva
scoperto un modo per usarli!
Quel giorno infatti Enrico si alzò dalla sedia e andò in cucina, dove lo sentii parlare piano
alla sua mamma, chiedendole qualcosa con la voce bassa: tornò con alcuni abiti vecchi e
un paio di forbici in mano, dopodiché prese un foglio e dei colori, e si mise a disegnare.
Nacque quel giorno un laboratorio segreto, una fucina magica, dove noi avremmo
create magnifiche illusioni fatte di stoffa e bottoni!
Prima, il mio piccolo amico disegnava un piccolo abito, poi ritagliava un pezzetto di stoffa
e lo puntava vicino, insieme al bottone giusto, dopo lo colorava, ricreando sul disegno i
colori della stoffa scelta, poi, tutto entusiasta, lo metteva vicino a me.
La signora, da quel giorno avrebbe avuto molto tempo libero: la curiosità del figlio lo
aveva spinto a trovare il modo di esprimersi silenziosamente, come sua abitudine. Lei
probabilmente ne fu sollevata, per lo meno non avrebbe dovuto rispondere alle
domande del piccolo e del resto lui aveva trovato da solo le sue risposte.
La sera, prima della cena, mettemmo al sicuro il nostro “tesoro” in una scatola da
scarpe.
Stoffa e bottoni - continuavo a pensarci, quella notte! Due cose così semplici
avevano aperto una strada nuova, guarito un dolore, o, almeno in parte, dato un
conforto.
Nell'altra stanza, quella stessa notte, la signora cercava il proprio nella preghiera, ma
venne interrotta dalla tosse incessante di Enrico.
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Non ci volle molto prima che la mamma si alzasse per andare a vedere. Il sonno di
quella donna era leggero e vigile, forse a causa dell'ansietà, oppure per la propria
inquietudine; comunque, poco dopo, la luce della cucina si accese e la vidi seduta
sulla sedia, mentre dopo averlo avvolto in una coperta lo cullava per calmarlo. Si
sentiva profumo di camomilla nella stanza... e silenzio. A vederla, non sembrava più la
stessa persona: i suoi gesti, il dondolio del corpo, lo sguardo stesso comunicavano
tenerezza e premura.
Forse la notte con la sua oscurità la faceva sentire diversa, forse più libera di
mostrare i propri sentimenti senza vergognarsi, libera di essere semplicemente madre!
Non mi sorpresi dunque che quella scena meravigliosa si ripetesse per molte notti
ancora.
Entrambi i protagonisti ne ricavavano inconsapevolmente il proprio tornaconto; il piccolo
poteva averla solo per sé, e lei poteva manifestare senza timore l'amore che provava verso
una creatura così fuori dall'ordinario, lasciando da parte angosce e preoccupazioni circa il
giudizio degli altri, ed evitando la dolorosa sensazione di incomprensione che il giorno
portava tra di loro, con la sua luce abbagliante e indiscreta.
Una volta addormentato, lo riportava nel suo lettino, avendo cura di lasciare una
lucina accesa e velata da un foulard di seta, in modo da rassicurarlo sull'aspetto
della stanzetta al buio. Quello che lei non sapeva, era che ciò che lo spaventava non
era nell'aspetto della stanza!
Qualcosa lo spaventava realmente, e a causa di quella paura, il bambino cercava la
salvezza nell'arrivo della madre.
Per questo ci siamo noi nelle loro camere, e spesso siamo tra le loro braccia: per
proteggerli, per confortarli, perché il mondo dei loro sogni è vasto e talvolta popolato
da incubi, perché crescere non è facile... e per lui non lo era affatto.
Nella sua cameretta l'unica possibilità di conforto era rappresentata soltanto da un
lembo di stoffa su una lampada. Non mi era possibile stare lì con lui; potevo solo
vegliare su di lui di giorno.
Purtroppo i “grandi” avevano deciso che non aveva più l'età giusta per queste cose.
Gli adulti, impegnati a strutturare il tempo entro il quale è consentito essere piccoli -
senza rendersi conto dell'importanza di essere pronti a crescere - pensavano che
Enrico avesse superato certi timori, e ritenevano perciò fin troppo indulgente lasciare
accesa una luce di notte. Ma se i timori e le paure dei piccoli non vengono fugate in
tempo dalla luce dell'amore incondizionato, esse non svaniscono col passar del tempo,
ma crescono e trovano modi nuovi per esercitare il proprio potere. Così alcuni
bambini sono costretti a usare gli strumenti giusti nel tempo apparentemente
sbagliato, e per questo vengono giudicati strani persino dai propri genitori, e si
trovano soli a lottare contro la paura!
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Al mattino tutti uscivano presto, e i tempi erano stretti. Dopo una notte del genere, il
piccolo si muoveva lentamente, svogliato e stanco, ma la tabella di marcia non
consentiva deroghe: la signora accompagnava il bambino a scuola e poi sbrigava le
sue commissioni, mentre il padre andava al lavoro oppure, se aveva fatto la notte,
rimaneva a casa a dormire.
Di lui non si sapeva molto. Nel pomeriggio, quando non lavorava, spesso passava
molto tempo in garage, a fare piccoli lavoretti insieme al figlio più grande. Pareva ci
fosse molta intesa fra loro. Sembrava che i genitori si fossero divisi la cura dei figli.
Nel pomeriggio, mentre il padre era intento alle sue faccende, la madre e il piccolo
Enrico si recavano a far visita alla nonna materna, l’unica ancora in vita.
La signora Verdina - così si chiamava, in onore alla Madonna di Valverde - adorava
il piccolo ed era da lui ricambiata con lunghi abbracci e baci. Ogni volta, dopo queste
effusioni, era solita dirgli “Beata la donna che avrai in moglie!”. A differenza della
figlia, lei gradiva gli atteggiamenti affettuosi: forse perché, come tutte le nonne, era
libera dal “dovere educativo” e poteva farlo senza vergogna. Inoltre nessuno l’avrebbe
accusata di viziarlo: anche questo rientrava nei compiti delle nonne.
Ogni pomeriggio li aspettava nella sua bella casa, dove la moquette - allora di gran
moda - ammantava tutti i pavimenti, creando un magnifico prato su cui il piccolo
adorava giocare.
Era stata una bellissima donna, come testimoniavano le foto sparse un po’ovunque.
Da giovane portava i lunghi capelli raccolti in uno chignon o puntati in alto, e
indossava abiti ben confezionati. Tutto raccontava un passato di grande attenzione
all’estetica. All’età di ventuno anni, aveva avviato una piccola attività di sartoria con
alcune ragazze che lavoravano sotto di lei. Si teneva aggiornata sulle ultime tendenze
attraverso riviste di moda ed era capace di confezionare splendi modelli.
Avrebbe potuto essere una grande sarta. Purtroppo però non era stata solo la
passione a spronarla, ma anche la necessità di sopperire alle esigenze di una famiglia
numerosa. La nonna cuciva di notte, rivoltava i cappotti d’inverno e aggiustava gli
abiti migliori di figlio in figlio, a seconda della crescita. Forse, proprio a causa di tutte
le ore passate a cucire china, nelle foto ci teneva ad apparire eretta e fiera,
sfoggiando un sorriso discreto ma deciso, tipico di coloro che sanno di fare tutto ciò
che è in loro potere per affrontare le situazioni della vita.
La differenza tra lei e la figlia sembrava incolmabile. Mi chiedevo se in fondo ogni
figlio non fosse davvero un portatore di differenza., L’espressione di tale differenza
potrebbe essere semplicemente un tratto distintivo non necessariamente allarmante,
ma comunque un segno di diversità. Eppure: ogni genitore, continua a desiderare che
il proprio figlio lo ricalchi!
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Che accade, quando questo non accade? Talvolta un senso di diffidenza, si insinua
nelle pieghe familiari, una sottile sensazione di disagio nei confronti del portatore di
differenza, che può giungere fino al disprezzo aperto, passando per anni di sarcasmo
o disapprovazione voluta e costante. Sembrava questa la sostanza del rapporto tra le
due donne, speso in contrasto tra loro sotto gli occhi acuti del piccolo.
PENSIERO MAGICO DELLA DIFFERENZA
Nel mio mondo magico, gli amici dei piccoli nascono in continuazione; alcuni nascono
sotto un cavolo, altri sono ricoperti di morbido pelo colorato, altri ancora sono a
animati da fili e vestiti di mille colori. Io, per esempio, ho un cuore di sabbia e
trecce di lana blu,, ma una cosa ho in comune con tutti loro: sono reale e viva solo
grazie alla scelta di un piccolo umano, che nel mio aspetto buffo, tenero, allegro o
triste, trova il sorriso, un conforto, un gioco spensierato. Non conta essere uguali,
perché dove ci sono più possibilità, c'è solo una maggiore quantità di scelte, tutte
valide pur di sentirsi amati.
Enrico aveva occhi e orecchi che registravano tutto, che riconoscevano i cambiamenti
di tono nelle loro voci e nelle espressioni facciali, che mettevano da parte ogni
fotogramma in un album privato: il suo cuore. Talvolta, mentre le signore parlavano
fra loro, lui si aggirava curioso per le stanze della casa, attirato specialmente nella
camera della nonna, dove un oggetto particolare, lo attraeva. Si trattava del
portagioie: un carillon in radica che qualche volta aveva visto aprire dalla nonna,
quando per uscire si metteva i suoi orecchini preferiti, quelli con la perla bianca.
Quello che lo aveva colpito non erano i gioielli, ma le sottili ballerine che si
muovevano al suono della musica nei loro tutù di velluto colorato. La prima volta che
l’aprì di nascosto non sapeva della musica, e quando prese a suonare si spaventò. E
anche se il carillon aveva suonato per poco, era stato comunque abbastanza per
essere scoperto dalla mamma e guadagnarsi un bel castigo.
Umiliato e offeso, ma ancor più arrabbiato per non aver potuto gustarsi lo spettacolo
delle ballerine, decise che non l’avrebbe fatto mai più! Che cosa? Ma… farsi scoprire,
no!?
La nonna non se l’era presa affatto: lei conosceva la curiosità e il suo potere
positivo. E da quel giorno, per mitigare la punizione, ogni pomeriggio gli preparava il
the nelle tazze con bordo d’oro zecchino. esprimendo con quel privilegio tutto l’amore
che provava per lui. Un amore che lui non avrebbe mai dimenticato, e che sarebbe
durato per molti anni ancora.
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Al ritorno dalla visita quotidiana dalla nonna, ci restava un po’ di tempo per stare
insieme nella nostra stanzetta. Durante il tempo necessario alla signora per preparare
la cena, il piccolo tirava fuori la scatola da scarpe e il nostro atelier cartaceo, con il
quale mi comunicava la sua gioia e intelligenza, e a volte si riusciva anche a
disegnare un nuovo abito.
Lui si divertiva nel nostro atelier segreto ed era libero di realizzare i suoi desideri
attraverso i disegni, i colori, la stoffa e i bottoni.
Qualche volta invece giocava con altri pupazzi: riunendoli in gruppi familiari
immaginava per loro un percorso attraverso la stanza come se partissero per un
viaggio e tutti insieme si aiutassero a raggiungere la meta.
Di rado giocava in cucina dopo cena: si sentiva osservato dalla madre o comunque in
sua presenza non poteva dar voce ai suoi personaggi, come faceva con me nella
stanzetta.
Era verso quell’ora che il suo stato d’animo cambiava - lo percepivo – quando erano
seduti alla loro tavola rotonda per la cena. Ad esempio, cercava di non sedersi verso
l’esterno, preferiva rimanere seduto di fronte tra il fratello e la madre. Quando
mangiava non era più lento come durante il pranzo, anzi, sembrava avesse fretta di
terminare, e con lo sguardo teneva d’occhio l’ingresso della cucina che dava sul
corridoio buio.
Mi chiedevo se i componenti della sua famiglia notassero il suo nervosismo, ma
probabilmente non era possibile: il padre mangiava avidamente e in fretta,
costringendo la madre ad alzarsi spesso per servirlo, quindi era già abbastanza
impegnato, e il fratello maggiore non gli badava minimamente, figuriamoci se poteva
notare simili sottigliezze…
Enrico quindi, non potendo svelare i propri timori, faceva del suo meglio per tenerli
per sé.
Una spiegazione possibile per la paura del buio già c’era: ogni notte, quando le luci
si spegnevano per la notte, il fratello - che di giorno non lo degnava nemmeno di
uno sguardo - provava gusto a spaventarlo, gli raccontava che qualcuno uscendo dal
letto l’avrebbe preso e portato via, oppure falsava la voce e se il piccolo gli chiedeva
se fosse lui, rispondeva di non aver sentito nulla.
Potevano essere solo scherzi ingenui, è vero, ma la gelosia rende i cuori crudeli e
non tiene in nessun conto il fatto che l’altro ha raggiunto la soglia tra timore e
terrore.
Perché poi farlo quotidianamente?
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Così ebbe paura per molto tempo. Ogni notte si copriva fino al collo, avendo cura
che neanche uno spiffero potesse passare, poi si rannicchiava stringendo gli occhi,
nella speranza di non dover subire ancora. Per resistere teneva il pollice tra le prime
due dita della mano, imitando il gesto che sua madre faceva la notte per confortarlo.
Quando il gioco era finito per suo fratello e lui si addormentava, quel terrore lo
inseguiva nei sogni, violando l’unico luogo che il piccolo considerava sicuro: la propria
mente, ed Enrico potevaa solo tossire più forte possibile.
C’era però in quel bambino una volontà forte e incrollabile, una determinazione a
resistere maturata in qualche luogo lontano, dove resistere, aveva già contribuito alla
sua sopravvivenza.
PENSIERO MAGICO DELLA FORZA
Quando il piccolo era ancora un neonato, il suo cervello si spense per un attimo. I
medici avevano dato la loro spiegazione scientifica, ma nel mio mondo la scienza non
può bastare; non esiste solo un perché, esiste anche un come.
Nel mio mondo, la forza vitale che ci anima è legata alla vita emotiva dei piccoli
umani, senza la quale non saremmo altro che oggetti decorativi per l’intrattenimento.
La loro fantasia, i loro sentimenti di possesso e preferenza per noi, le immagini della
loro mente ci attribuiscono il potere di aiutarli, di essere loro compagni per un
periodo di tempo chiamato infanzia; dopodiché, una volta terminato il nostro compito,
rimaniamo vivi nel loro ricordo e nell’affetto.
La cosa davvero magica, fu che nonostante questo fatto terribile, il suo piccolo
spirito non si spense, ma si allontanò per un po’ dalla realtà fisica per trovarsi un
riparo e dopo tornò.
Gli esseri umani non sanno nulla del luogo da cui veniamo e al quale tutti torniamo,
sanno solo ciò che vivono coscientemente. Molto di ciò che non è cosciente viene
dimenticato. C’è solo un breve periodo della loro vita nel quale possono percepire il
mio mondo magico, e quello è l’infanzia, oppure, come nel caso del piccolo Enrico,
quando il loro spirito si allontana dal corpo.
A volte, per difendersi, lo spirito si rifugia in un luogo profondo e sicuro. Se il
pericolo resta, lo spirito rimane lì, ma altre volte, passato il pericolo, lo spirito fa
ritorno alla sua casa più forte di prima.
Questo è “come” lo spirito sceglie sempre la vita e la forza rinnovata diventa
incontrollabile attaccamento alla vita stessa, per consentire all’umana espressione di
rivelare il proprio meraviglioso potenziale, ricevere quindi “il proprio dono”, e
condividerlo.
Di solito questo accade in seno alla propria famiglia, nel calore e nella sicurezza
dell'amore dei propri genitori, oppure........,
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Qualche volta, quando un piccolo non arriva, i grandi si possono occupare di bambini
non nati da loro. In tal modo diventano una famiglia per la legge degli uomini e
alcuni bimbi, che per varie ragioni fossero rimasti soli, possono non esserlo più.
Questo era il modo in cui il piccolo Enrico era diventato figlio dei suoi
genitori:adottivi, un profondo gesto d’amore, basato sia sulla scelta di aiutare i piccoli
a diventare grandi in un ambiente sicuro, sia sul bisogno di realizzarsi in maniera
completa come padre e madre.
La stessa cosa valeva per suo fratello maggiore, arrivato in casa qualche anno prima
di lui. Naturalmente non era facile: entrambi una volta lì dovettero abituarsi al
cambiamento e conoscersi meglio, e in ogni caso, tutti e due avevano già avuto una
piccola vita da un’altra parte.
Non era facile nemmeno per i genitori: nonostante l’entusiasmo, la sfida di diventare
intimi con questi bambini e di imparare a conoscerli senza averli potuti osservare
prima era estremamente difficile, inoltre c’era il rischio di considerarsi troppo in fretta
come una famiglia normale.
In realtà, avevano l’opportunità di non essere nella norma e di poter diventare una
famiglia
“speciale”.
Potevano scegliere di considerare l’arrivo dei piccoli come la risoluzione di un
problema che li metteva a disagio con se stessi e con gli altri, oppure, scegliere di
sentirsi più responsabili del necessario, facendo diventare il loro compito talmente
serio da finire col diventare un peso insostenibile, o ancora,… avrebbero potuto
scegliere di assolvere al compito più importante di qualsiasi genitore naturale o
adottivo: fornire al piccolo un ambiente sicuro nel quale essere libero di esprimere la
sua personalità, di coltivare i propri doni, offrendogli un’incoraggiante visione del
mondo, e infine lasciarli liberi di andare lontano.
Sì, la LIBERTA’ è il dono più importante che i grandi dovrebbero fare ai loro piccoli,
aiutandoli a mantenerla e a usarla per ciò che è bene. La libertà di essere loro
stessi, nella fiducia che tutti apparteniamo a qualcosa di più grande di noi, che ci
contiene tutti, e nella fiducia che, per questo, non siamo mai soli!
Sono certa che all’inizio le intenzioni di tutti loro fossero delle migliori, ma il tempo
passa in fretta negli affari umani, le cose cambiano, le vecchie ferite si rimarginano e
nuovi problemi si pongono, le convinzioni cambiano e i comportamenti mutano con
esse. E così loro diventarono – ahimè - una famiglia “normale”.
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Una delle occupazioni delle famiglie normali, riguarda le visite dei parenti. Pur
essendo una persona educata, la signora non si poteva proprio definire una persona
ospitale: nessun amico dei propri figli, era mai stato invitato a giocare a casa,
neppure gli amici del figlio più grande.
Lo stesso poteva dirsi per quanto riguardava i parenti, che non venivano invitati a
casa, con l’eccezione del fratello minore della signora, e della sua famiglia, composta
da moglie e da due figli di qualche anno più piccoli di Enrico.
Un pomeriggio vennero in visita e quando arrivarono vidi due bellissimi bambini. La
ragazzina più grande, Samantha, aveva occhi verdi simili a gemme esotiche e lucidi
capelli castani e si muoveva timidamente, come aspettando il permesso di farlo,
mentre il più piccolo, Simone, era un frugolo biondo, che la precedeva ovunque, con
l’ostentata sicurezza dei preferiti, raccogliendo complimenti dagli adulti e lasciando le
raccomandazioni agli altri due.
Enrico e la cuginetta si capivano al volo ed erano solidali tra loro e, come se
condividessero la consapevolezza degli eterni secondi, erano soliti organizzare il gioco
in modo da non fare troppo rumore. Invece il piccolo principe, per esercitare potere
sugli atri due, strillava di continuo attirando l’attenzione dei genitori, i quali
sbrigativamente intimavano ai più grandi di accontentarlo.
Quando questo non accadeva… indovinate a chi toccava la punizione per aver
disturbato la tranquillità degli adulti?
Improvvisamente, Enrico e la cuginetta “diventavano” grandi e responsabili, mentre
invece, erano considerati troppo piccoli, quando manifestavano preferenze per
qualcosa.
Fortunatamente o meno, chi può dirlo, queste occasioni non capitavano spesso. Altre
volte alla domenica, andavano ai giardini pubblici, che erano lontani da casa, vicino a
una casa di riposo per anziani. C’era uno strano rapporto di vicinato tra vecchi e
bimbi: separati solo da alte siepi di alloro, i due mondi sembravano disturbarsi a
vicenda. Gli anziani subivano le strilla dei bambini e i bambini erano turbati dalla
presenza di persone malate. I genitori cambiavano strada se incontravano un vecchio,
oppure distraevano la vista dei piccoli in qualche modo, e gli accompagnatori degli
anziani, dal canto loro, li scacciavano malamente quando si avvicinavano.
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Cosa sarebbe potuto accadere senza questa “interferenza”? Forse l’anziano avrebbe
teso la mano per accarezzare la pelle morbida di un bambino, oppure, guardandolo
giocare, avrebbe potuto dimenticare le proprie afflizioni.
Forse il bambino avrebbe potuto avvicinarsi, per avere la propria palla persa di vista
e avrebbe sorriso al vecchio, scambiandolo per un “nonno”.
In entrambi i casi, nessuna sofferenza e nessuno spavento, solo contatto tra simili:
persone indifese per motivi diversi. In ogni caso in quei giardini il piccolo si divertiva
molto: c’erano scivoli, altalene, cavalli a dondolo e si poteva bere dalle fontanelle.
Mentre i grandi chiacchieravano, i piccoli vivevano fantastiche avventure tra
inseguimenti e nascondigli e davano fondo a tutte le proprie energie interpretando
ruoli eroici, di coraggiosi esploratori.
A Enrico piaceva tanto andarci, anche perché lì sua madre si distraeva e lui riusciva
a sgattaiolare in giro, curiosando tra i numerosi livelli di questo parco. Nonostante
fosse relativamente sicuro, quando si tratteneva troppo a lungo, magari rapito dalla
forma di una nuvola, o intento, nel trovare l’ingresso di un formicaio, sentendosi
chiamare si lanciava in una corsa frenetica a ritirare la giusta punizione.
Ma la punizione, in confronto alla certezza di aver attirato l’attenzione e al conforto
provato all’idea che qualcuno si preoccupasse di lui, era un prezzo accettabile.
Talvolta però sembrava lo facesse proprio di proposito, forse per suscitare in lei
un’emozione forte che lui conosceva bene:, il terrore di aver perso chi si ama
davvero!
Solitamente durante il viaggio di ritorno la macchina del papà era piena. Lui guidava,
la nonna sedeva di fianco a lui e dietro il fratello, la mamma e il piccolo Enrico
viaggiavano stretti. Punizione o no, lui si addormentava sempre vicino a lei.
Quando le domeniche erano piovose o fredde, si rimaneva a casa e poteva succedere
che la signora decidesse di preparare un dolce per la merenda. Di solito faceva una
torta, o meglio desiderava farla, perché immancabilmente quello che usciva da forno
ricordava qualunque cosa tranne una torta. Per un curioso dispetto il centro
dell’impasto si sollevava con orgoglio verso il cielo, creando una sorta di cratere. Sarà
un caso che i migliori pasticceri siano uomini? Forse perché non sono costretti a
doverlo fare, ma lo considerano una libera espressione della propria creatività?
Tornando a noi, può una casalinga farcita di doveri permettersi una riflessione sulla
libertà… in cucina? No! Perché nel tempo necessario a farlo è costretta a preparare
una copertura al cioccolato con cui ricoprire non solo la torta ma anche le proprie
aspirazioni. Enrico però la torta la mangiava con gioia, e se non era buona, non lo
diceva.
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PENSIERO MAGICO SULLA FELICITA'
Nelle favole la felicità è il lieto fine, un sogno che diventa realtà; nelle poesie è un
amore corrisposto; per il navigante è il raggiungimento della meta; per una bambola
è l'abito della festa.
Quanto dura? Una vita intera!
Nella realtà, o meglio nell'insieme dei fatti che gli esseri umani credono reali, la
felicità viene attribuita a molte cose (in genere materiali), e dura sempre troppo poco.
Pur desiderando di essere felici, le persone si comportano in modo da dimostrare che
la felicità non esista, se non per alcuni momenti fortuiti che loro chiamano casi o
destino. La convinzione che li porta a non agire potrebbe essere proprio quella di
pensare di non poterci fare nulla!
Credendo di non poter intervenire sulla realtà, decidono che non si sentono felici
abbastanza a lungo per esserlo davvero.
I bambini invece, quando sono felici, desiderano rimanere il più possibile a lungo in
quello stato, perché quello sembra essere il loro stato ideale. E quando capiscono
cosa li rende felici, non fanno altro che ripeterlo più e più volte, così imparano,
come fare per ritornare in quella condizione, ogni volta che ne hanno bisogno!
Non credono al caso né al destino; semplicemente provano una gran quantità di
esperienze e ripetono quelle più piacevoli.
Se questo fosse vero... gli adulti sarebbero creature di un mondo irreale, mentre i
bambini sarebbero solo piccole persone capaci di essere felici.
Quindi la domanda per i grandi è: quanta felicità sareste capaci di provare? E in
quanti modi diversi? E quanto a lungo?
Nessuno di loro poteva saperlo ma quella curiosità, quella capacità di catturare
immagini con gli occhi, di mettere alla prova le persone cogliendo le contraddizioni
tra le parole e i fatti, la grande riserva di tenacia e di coraggio… insomma tutte le
cose che allora ostacolavano Enrico nel rapporto con i grandi, sarebbero un giorno
divenute le cose più preziose da possedere!
Per il momento però non era prudente rivelarsi. Così, precocemente conscio
dell'opinione che gli altri si stavano formando di lui, decise di assumere un
atteggiamento che gli consentisse di rimanere al sicuro, cioè quello del bambino
“strano”.
Non era facile e qualche volta avrebbe voluto gridare tutto suo dolore, ma Enrico
rimaneva in silenzio nella stanzetta per ore intere. In quei momenti sentivo la sua
delusione, la rabbia e la paura di essere sbagliato e insieme a lui aspettavo che la
stanchezza lo portasse al sicuro, in un sonno profondo e confortante, che mettesse
fine all'assordante tumulto del suo cuore.
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Andò avanti così per molto tempo. Ogni giorno la sequenza era sempre la stessa:
scuola al mattino, compiti al pomeriggio, visita della nonna, ritorno a casa e qualche
ora per noi, pranzi e cene in silenzio (o al massimo con qualche litigio), camere in
ordine inviolabile e una stanzetta lunga e stretta per sognare. Ma per sognare che
cosa? Magari che qualcosa di nuovo irrompesse in quella routine: forse un miracolo
che frantumasse il muro che opprimeva il bambino e che lo intrappolava all’interno di
un’enorme bottiglia verde.
Ma nel frattempo, mentre tutto sembrava immobile, qualcosa non lo era affatto. Il
piccolo cresceva e cominciava a trovare nuovi modi per rompere la sequenza.
Fino ad allora si era accontentato di essere cullato qualche ora di notte e ignorato di
giorno; non faceva nient’altro che seguire lo schema che aveva imparato e dal quale
traeva una minima ricompensa. Ma a un certo punto l’insoddisfazione, unita al
naturale processo di crescita, lo spinse verso una sfida maggiore, per la quale era
pronto:, e cioè provare a compromettere l’intero sistema. Talvolta, per riuscirci, era
sufficiente rifiutarsi di fare qualcosa, o di prepararsi per uscire con tale lentezza da
far fare tardi alla mamma., o ancora sfuggirle di mano per strada, altre volte, la
stessa disobbedienza, sovvertiva l'ordine imposto della routine.
Del resto i giorni, per lui, non erano altro che sequenze di immagini fisse e immobili
e non fece altro che rallentarle o accelerarle, solo per cambiare qualcosa, per vivere
un film diverso. Inoltre, fare il bravo bambino ubbidiente non prevedeva una
gratificazione sufficiente, o perlomeno non più. Quando metteva in atto i suoi piani
(prima goffamente, poi più meticolosamente), neppure le persone intorno a lui
potevano più seguire il loro schema; dovevano improvvisare e lui di volta in volta
registrava le loro reazioni perfezionando il metodo.
Sua madre lo liquidava come un comportamento ribelle e in parte aveva ragione.
Solo che ignorava quanto tale ribellione fosse normale!
Proprio lei, che della normalità avrebbe fatto una bandiera negli anni futuri, non ne
coglieva l’essenza. Non si aspettava che suo figlio fosse normale? Al contrario, lo
desiderava a tal punto da non poterlo riconoscere.
Il gioco della sequenza interrotta sembrava dare buoni risultati, nel senso che lo
faceva sentire al centro dell’attenzione, ma purtroppo in senso negativo. C’è una
certa differenza tra l’attenzione che provoca preoccupazione, e la semplice attenzione.
Così, mentre lui valutava i risultati in termini di latte e biscotti (segno dell’avvenuto
perdono) o carezze e pacchetti di figurine, sua madre probabilmente faceva la stessa
cosa in termini di convinzioni e paure. Nel nostro caso, queste convinzioni
riguardavano la natura buona o meno del bambino.
Già, proprio quella qualità che lui non avrebbe mai rinnegato in sua madre, ora era
messa in dubbio da lei.
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Nella ricerca di una spiegazione accettabile circa la "stranezza" del proprio figlio, la
madre andò in cerca di buoni consigli. Non ci è dato sapere come o da chi, ma
naturalmente li trovò. Quella sera, le preghiere che sentivo mi fecero capire che le
cose non sarebbero migliorate. Infatti la signora cominciò a limitare il tempo che il
piccolo passava con me. Da quel giorno, al ritorno dalla visita alla nonna, lei cominciò
a leggergli dei piccoli racconti. Con un tono di voce insolitamente garbato e
controllato, leggeva accanto a lui. Durante quelle che sembravano essere delle vere e
proprie lezioni, notai che il bambino non parlava mai. Sentivo episodi in cui si parlava
del bene e del male, di un padre, e di figlioli che smarrivano la strada.
C'era, qualcosa di diverso dalle favole che conoscevo io. Mancava il lieto fine, o
meglio... finivano tutte allo stesso modo. MALE! Ormai la madre di Enrico dedicava
un'oretta circa tutte le settimane a questa lettura. Un altro fotogramma da
aggiungere al nostro film! Ora ero davvero spaventata. Durante quelle letture, quando
lo stress era troppo forte, una stanchezza profonda lo pervadeva. Il sonno era la sua
via d'uscita e dopo ogni lezione tornava da me in silenzio.
Nel tentativo di proteggerlo da qualche forma di "male", che riteneva l'avesse
influenzato, la madre gli leggeva dei racconti in cui non si parlava d'altro che di
tutto il male che poteva succedere a chi si comportava in maniera disubbidiente nei
confronti dei genitori o di qualche sacerdote. Quale altra sensazione avrebbe potuto
provare Enrico, se non la paura, lui che sapeva di essere considerato un
disobbediente?
Lui senza quelle letture non avrebbe mai pensato di aver fatto qualcosa di tanto
malvagio. Sebbene irritare la mamma non fosse una buona idea, non avrebbe certo
immaginato conseguenze tanto serie!
Perciò smise subito di interrompere la sequenza e accettò suo malgrado il nuovo
fotogramma.
La notte non fu più l'unico momento in cui provava angoscia. Ora la stessa angoscia
cominciò a provar la anche dopo cena: temeva infatti che qualcosa di maligno
l'avrebbe ghermito, portando lo via nel buio del corridoio.
E tutto, per una tazza di latte e biscotti!
Ora purtroppo la madre aveva reso inconsapevolmente reali le minacce notturne che
il piccolo riceveva dal fratello, con l'aggravante di farle sembrare “meritate” dalla
colpa della disobbedienza. La madre aveva dichiarato, mi auguro inconsapevolmente,
l'appartenenza del piccolo alla cerchia dei cattivi.
Per anni quella donna aveva cercato un modo per mettere le cose
a posto, come nel tentativo di nascondere qualche fatto che da un certo momento in
poi aveva cambiato la sua percezione del figlio, o forse per poter evitare le
conseguenze di una scelta non condivisa dal marito: quella dell'adozione dei figli, e al
contempo per nascondere a tutti la propria inadeguatezza di madre sotto una facciata
di normalità. Ma arriva sempre un momento in cui tutto converge: quello che
eravamo, quello che siamo, quello che non potremo più essere; e quel momento era
arrivato! Qualunque fosse il motivo, o il fatto che la signora intendeva custodire,
indipendentemente dalla scelta fatta, relativamente a tale segreto, le conseguenze da
quel giorno sarebbero maturate portandola prima o poi ad un punto di non ritorno!!!
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Io non avrei avuto più molto tempo per portare a termine il mio compito: fornire al
ragazzino, qualche strumento per poter contrastare gli avvenimenti futuri.
Enrico aveva già la curiosità, la capacità di rifiutare un ruolo prestabilito, di
recuperare le energie nel sonno, di osservare i comportamenti altrui per capirne le
intenzioni. Ora si trattava però di offrirgli un modello con cui valutare e sfruttare le
proprie esperienze, in modo da renderle non qualcosa da rinnegare, ma un
patrimonio spirituale che lo potesse aiutare nelle scelte future.
Fino a quel momento aveva imparato perfettamente come sopravvivere nel suo
ambiente ma aveva anche bisogno di una via d'uscita per non restarne intrappolato.
La finestra dalla quale guardavamo il mondo doveva aprirsi e permettergli di uscire.
In primavera la natura ci venne in aiuto: proprio lei, la madre a cui appartengono
tutti gli esseri viventi, ci mandò un messaggero.
Accadde in primavera, stagione propizia ai cambiamenti, quando le giornate si
allungano, le piante da frutto cominciano a germogliare, gli animali in letargo si
risvegliano dal lungo sonno invernale, e un simpatico animaletto, torna al proprio
nido: la rondine.
La rondine si annida normalmente sotto costruzioni dell'uomo come i tetti delle case
e i fienili, ma ancor prima che questi luoghi diventassero comuni si annidava sulle
scogliere o nelle caverne. Ma la sua più affascinante caratteristica è di certo l'agilità:
infatti vedendola volare ci si rende subito conto di quanto velocemente siano in;grado
di cambiare direzione.
Dalla finestra della stanzetta, Enrico le guardava pieno di meraviglia, e ogni tanto mi
sembrava di vederlo aprire la finestra e librarsi in volo con loro!
Questo grazioso e impavido volatile è stato oggetto di varie interpretazioni nel corso
della storia: per gli antichi Egizi, la divinità Iside si trasformava in rondine durante la
notte, volteggiando intorno al sarcofago di Osiride e lamentandosi fino al ritorno del
sole. Presso i Persiani, il cinguettare della rondine esprime solitudine, emigrazione e
separazione. Invece i marinai potevano tatuarsi una rondine sul petto ogni cinquemila
miglia di navigazione.
Sono convinta che lui seppe cogliere quell' arrivo come un incoraggiamento a
resistere fino al giorno in cui sarebbe partito per il proprio viaggio. Sarebbe andato
lontano, come loro, e avrebbe affrontato le correnti della vita, per poi fare ritorno al
nido. Ma cosa ci avrebbe trovato?
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Sebbene lo spirito d'iniziativa non cresca sui terreni aridi, esistono individui eccezionali
che ne sono quasi miracolosamente dotati e riescono a viver la propria vita a
dispetto di qualunque interferenza.
Il tempo che il piccolo passava da solo, pur suggerendogli l'idea di non essere per
nulla interessante, lo costringeva comunque a cercare modi nuovi per rendersi più
desiderabile. In questo modo, anche se lui non lo poteva sapere, sviluppava un
grande spirito d'iniziativa; una qualità scarsa nei bambini costretti a dipendere dagli
altri.
Proprio perché era lasciato molto solo a livello emotivo, era libero di costruirsi il suo
“atelier segreto”. Ma in seguito, quando la madre volle organizzare il suo tempo il più
possibile, lo privò dello strumento più prezioso finora posseduto.
Forse i genitori si erano resi conto di quanto Enrico fosse solo, forse temevano di
non essere all'altezza del proprio compito, o forse avevano scorto qualcosa che li
spaventava nei giochi d'immaginazione che lui faceva con me.
Molte volte i grandi, incapaci di vedere le cose dal punto di vista dei piccoli,
attribuiscono significati oscuri a gesti del tutto naturali. Per il bambino toccarmi e
pettinare i miei capelli di lana, erano gesti di cura e la delicatezza con cui li faceva
significava solo quanto ci tenesse alla mia compagnia e alla mia salute! Enrico
cominciò ad accorgersi che sua madre, pareva provare nel contatto fisico con lui, un
sentimento diverso dalla solita ritrosia caratteriale, un autentico fastidio. Fastidio che
seminò i semi dell'indegnità dentro di lui.
E così il tempestivo intervento, le letture intimidatorie, e tutto quello che accadde in
seguito, trovava la giusta spiegazione, e lui non potè che subirla.
Tutti i bambini tendono a rifugiarsi in un mondo fantastico quando la realtà diventa
troppo difficile da affrontare. Alcuni vi rimangono imprigionati anche da adulti, altri
invece, proprio dentro quel mondo sicuro, imparano a distinguere la fantasia dalla
realtà per meglio padroneggiare entrambi i mondi, arrivando da soli a chiarirsi la
propria esperienza.
L'avermi avuta in dono aveva aiutato Enrico a non sentirsi isolato e mi aveva
permesso di svolgere il mio compito: aiutarlo a "transitare" dall'atmosfera
contraddittoria della sua infanzia, all'ambivalente mondo della realtà!
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UN PENSIERO SULL'AMBIVALENZA E LA CONTRADDIZIONE.
Le persone fanno il meglio che possono e con le migliori intenzioni.
Sono intrinsecamente buone, ma dal momento che non sono perfette, possono
commettere gravi errori.
Se quando commettiamo un errore potessimo, ammetterlo senza vergognarcene, le
occasioni di imparare sarebbero ancora più numerose! La vergogna si impara
(purtroppo) perché si mira alla perfezione assoluta: ma se l'obiettivo invece fosse..
l'essere passabili, si imparerebbe l'umanità.
Chi si vergogna dei propri errori sa di averli commessi ma non è libero di
ammetterlo, quindi per recuperare la propria autostima inverte talvolta la rotta
repentinamente, creando la contraddizione.
Ad esempio, se coviamo rabbia per un torto subito ma non siamo liberi esprimere
quel sentimento, le nostre azioni saranno apparentemente contenute. Potremo dire
“non fa niente” e addirittura essere gentili, ma il nostro corpo, la nostra voce, ogni
fibra di noi stessi sarebbe tesa, perché in contraddizione. Forse nell'arrabbiarci
abbiamo ceduto a un impulso, ma nell'essere gentili e controllati lo abbiamo negato.
E la negazione porta alla menzogna, la menzogna alla colpa, la colpa al contrario non
spinge al pentimento(che è un'azione di cambiamento “attiva”,), ma all'esilio.
Poter riconoscere l'insorgenza di sentimenti contrastanti equivale a riconoscere la
nostra naturale ambivalenza e la capacità di provarli entrambi significa, poterli usare
quando servono, distinguere l'origine interiore reale di questi sentimenti opposti e
forti, significa essere onesti! I bambini sono onesti, sanno riconoscersi arrabbiati o
pieni d'amore e non se ne vergognano.
Con la serenità che deriva dal poter essere "passabili" e non perfetti, gli adulti non
sarebbero più obbligati a vergognarsi dinanzi ai loro bambini e non ravviserebbero
nessun oscuro risvolto nei giochi fantastici tra i loro figli e noi, loro “compagni
transitori”, talvolta oltretempo, anzi recupererebbero preziose informazioni, in quei
giochi, che li aiuterebbero a svolgere il loro compito di educatori. I genitori infatti in
questo modo educherebbero persone fisicamente sane, mentalmente aperte, capaci di
reggersi sulle proprie gambe, di amare profondamente e combattere le ambivalenze e
le contraddizioni della vita, o accettarle quando necessita!
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La mia presenza in quella casa ebbe influenza non solo sul bambino ma anche sulla
mamma, perché, nel suo intimo c'era ancora una parte “bambina”. Di fronte a me,
anche gli adulti ritrovano il proprio bambino interiore, e nel suo caso questo
ritrovamento rievocò ricordi inconsci, ricordi di una bambina senza una bambola, ma
soprattutto senza il tempo di giocare.
Essendo la maggiore, probabilmente non ebbe il tempo di crescere gradualmente:
obbligata dalle necessità quotidiane a occuparsi dei suoi fratelli più piccoli, a sentirsi
responsabile della durezza della vita della della propria madre, costantemente
occupata a lavorare per affrontare il duro periodo in cui vivevano.
Quella bambina crebbe costantemente occupata a non creare “problemi”, ad essere
una "brava ragazza" e a cercare di fare felice la propria madre, dimenticando se
stessa!
Il giorno in cui, la signora Maria, scoprì il tesoro chiuso nella scatola da scarpe, lessi
tutto questo nei suoi occhi, mentre mi guardava.
Enrico quella mattina era a scuola e la signora si accingeva a mettere a posto la
"nostra" stanzetta. Forse sperava di capire qualcosa che le sfuggiva o forse
semplicemente manteneva l'ordine secondo le proprie abitudini... in ogni caso,
aprendo il cassetto della scrivania, trovò il nostro atelier segreto. Con sorpresa sfogliò
i disegni, mentre io seduta sulla mensola, la osservavo, e a momenti volgeva lo
sguardo su di me. Sembrava capire che quelle immagini mi riguardavano e pareva
che la cosa la divertisse, perché sorrideva. Non c'era traccia della preoccupazione che
attanagliava la sua parte adulta perché, come per magia, a guardarmi in quel
momento era bambina!
Intravedeva una possibilità che non aveva potuto sfruttare in passato: quella di poter
giocare con me, con in più gli strumenti che il tempo e le abilità acquisite durante la
vita domestica le avevano conferito. Rapita dalla gioia che sentiva, colse
quell'occasione.
Il disegno che l'aveva colpita mi raffigurava con un abito a palloncino giallo limone,
ricavato dal polsino di una sua vecchia camicetta. Anche i miei capelli nel disegno
erano gialli e a caschetto.
In poco tempo ricavò della lana gialla da un vecchio maglione e con delicatezza disfò
le mie trecce blu e mi cucì sul capo la nuova acconciatura. Subito dopo prese la
vecchia camicetta e dopo aver tagliato la manica scelse pazientemente le misure e
confezionò con le sue mani l'abito disegnato dal figlio!
Sì, era fiera di se stessa alla fine, e si era anche divertita. Io non ero più la stessa:
seduta sul mio sgabello di sughero, ero elegante e nuova. Chissà che avrebbe detto
il piccolo vedendomi? Gli sarei piaciuta con la sua creazione indosso? In ogni caso
quel giorno era accaduto un miracolo: il sistema usato dal bambino per comunicare ,
non solo era stato utilizzato anche dalla madre, ma l'aveva affrancata dalle proprie
preoccupazioni, regalandole l'opportunità di far pace con una bambina di sua
conoscenza che tanto aveva atteso di essere felice, con la sua bambola!!!
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Finita la creazione del primo abito e della nuova acconciatura, la signora ripose tutti i
disegni nella scatola delle scarpe, con l'attenzione di chi non vuole farsi scoprire.
Poiché aveva tralasciato le faccende domestiche, si affrettò a terminarle in modo da
essere pronta per andare a prendere il figlio a scuola. Durante il tragitto verso casa
non fece parola con lui sull'accaduto, ma era di buon umore e il piccolo lo notò.
Mi chiedo se lo guardasse con altri occhi e se in fondo, nel proprio inconscio,
avrebbe voluto ringraziarlo per averle regalato una mattina felice. Di certo quella
mattina c'erano due bambini felici.
Durante il pranzo Enrico non si fece riprendere come al solito ma mangiò
serenamente, osservando i movimenti usuali della madre che apparivano più rilassati.
Diverse volte i loro sguardi si incontrarono dolcemente.
Fu proprio la mamma a invitarlo ad andare un po' a giocare mentre lei rassettava
la cucina e lui accettò di buon grado l'invito. Sentii i suoi passi nel corridoio e
l'emozione mi pervase quando aprì la porta della stanzetta. Fece qualche passo verso
di me, ma essendo abituato a vedere le cose nello stesso modo ogni giorno, non
notò subito il cambiamento, fino a quando non si sedette e alzò lo sguardo verso di
me. Allora i suoi occhi si spalancarono in un'espressione di stupore e gioia. Mi prese
tra le mani per vedermi da vicino e io sentii il suo cuore battere veloce. Calde
lacrime gli riempivano gli occhi, mentre diceva “che bello”. Si voltò in cerca di una
spiegazione e vide la sua mamma sulla soglia della porta, con indosso ancora il
grembiule, che stringeva commossa un fazzoletto. E lui le corse incontro stringendola
a sé.
In quel preciso momento vidi la più semplice e pura espressione d'amore tra una
mamma e il suo bambino. Nel loro abbraccio si vedeva un grande sollievo per
entrambi.
La madre gli promise di realizzare anche gli altri disegni e il piccolo, felice di avere
con lei una nuova occasione di intimità, accettò con un semplice "grazie, mamma!".
Nel pomeriggio, come d'abitudine, si recarono dalla nonna e il tempo passò
velocemente. Quel giorno le ballerine del carillon non fecero il loro spettacolo, non ce
ne era bisogno!
La sera, nel suo lettino, il piccolo Enrico ebbe un pensiero felice che l'avrebbe
protetto da ogni paura e nonostante il fratello non smettesse di tormentarlo, quella
notte non ebbe potere su di lui. La fiducia che le cose andavano meglio per lui gli
consentì di ignorarlo. Quella notte nessuno tossì!
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Quasi ogni sera madre e figlio si trovavano in cucina per realizzare insieme un nuovo
abito, mentre il padre guardava la televisione nel salotto in fondo al corridoio. Con
loro c'ero anch'io. Stavo seduta sul tavolo per le prove e avevo intorno a me stoffe
di vari colori, nastri e passamanerie, l'immancabile scatola dei bottoni, e naturalmente
i disegni.
La signora infilava il filo da cucito nella cruna dell'ago non senza qualche difficoltà,
passandone la cima tra le labbra per renderlo più facile da infilare, ma quando
riusciva al primo tentativo le sue mani eleganti, erano veloci e sicure.
Il piccolo era in ginocchio sulla sedia e si protendeva verso di lei poggiando i gomiti
sul tavolo, per meglio vedere la sinfonia dei movimenti materni. Era incantato da
quelle mani che si muovevano con la perizia di un direttore d'orchestra.
In quei momenti il buio del corridoio non faceva nessuna paura: sono certa che il
piccolo riuscisse a dimenticare ogni timore, felice com'era di assistere la sua mamma.
Molto spesso sedeva dando la schiena al corridoio e si girava di sorpresa quando il
padre passava e scherniva con innocenza i due chiamandoli “scemi"!
Forse notava l'atmosfera di complicità e divertimento che c'era in quella cucina
rispetto al silenzio del salotto e vergognandosi di parteciparvi, preferiva prenderli in
giro.
Molti anni più tardi, Enrico avrebbe ricordato con immensa tenerezza quello scherno
affettuoso e un po' invidioso del padre. Se solo l'abitudine e l'esitazione non
avessero dominato in quelle vite, grazie all'idea del piccolo, entrambi i genitori
avrebbero potuto ritrovare una vicinanza dimenticata. Uno scopo comune li avrebbe
legati con il proprio figlio, proprio come accadeva alla stoffa e ai bottoni: si sarebbero
uniti e avrebbero creato insieme qualcosa di nuovo e unico, come un abito con il
quale coprirsi d'amore l'un l'altro.
Purtroppo quella scena magica venne archiviata in uno scomparto segreto della
mente di ciascuno di loro, privata della necessaria attenzione: così ne andò perduto
il potenziale di guarigione emotiva che conteneva per loro.
Non fu però così per Enrico, il quale focalizzava invece la propria attenzione sul
profondo piacere che provava nel vedere la mamma rendere reali le sue fantasie.
Inconsapevolmente lei lo aiutava a guarire dalla sensazione di essere “sbagliato". “Se
la mamma crede nei miei sogni e li realizza per me, allora non possono essere
sbagliati”. Questo poteva essere il suo pensiero magico.
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In cuor mio ero sorpresa dalla piega presa dagli eventi e indugiai volentieri nella
speranza che le cose potessero mettersi a posto, anche se sapevo che la motivazione
che aveva portato la signora ad avvicinarsi al mondo magico del figlio aveva una
venatura di egoismo e serviva soprattutto a lei. Tuttavia speravo che quelle piacevoli
sensazioni provate con il piccolo l'avrebbero cambiata. In fondo in questo modo
poteva permettersi di mettere in discussione se stessa e il proprio livello di felicità..
Quello che mi sfuggiva allora, era che questo era già accaduto. Non solo l'aveva già
fatto ma aveva anche già scelto quello che era meglio per lei. Però aveva
dimenticato di rendere partecipi di questa sua nuova scelta gli altri componenti della
famiglia...
Era convinta che un cambiamento profondo delle proprie convinzioni riguardasse solo
lei, ed essendo già stata una "martire" durante l'infanzia le venne probabilmente
naturale credere di continuare ad esserlo, unitamente al bisogno di sentirsi speciale.
Per questo credette di ricevere un dono dalla propria conversione e di doverlo
ripagare con l'accettazione di essere la sola ad abbracciare una nuova vita, e una
nuova fede.
Non le sembrò strano ad esempio che il marito non si fosse entusiasmato quanto lei
al riguardo. Del resto forse, non lo aveva mai fatto prima, oppure era abituata
all'idea di non condividere con lui gli stessi punti di vista sulle cose. Ma di certo
trovò il coraggio di perseguire i suoi nuovi ideali da sola, anche contro l'aperta
opposizione del proprio compagno. Opposizione che per altro si limitò ad una
ulteriore ritirata da parte di lui nei propri limitati interessi, e a qualche debole
protesta.
Per quanto riguardava i figli, lei era convinta di aver individuato una prospettiva
migliore da offrire... ma dimenticò di dare loro una possibilità di scelta, e quindi lo
impose. Esattamente come accadeva per le letture settimanali al piccolo Enrico, che le
accettava solo per avere in cambio ben più appaganti attività serali con lei!
Ben presto però le due attività andarono in contraddizione. Da un lato l'istruzione
religiosa, richiedeva costanza e regolarità (come tutti gli indottrinamenti) e dall'altro la
madre iniziò a guardare in modo diverso l'attività sartoriale col figlio, in quanto
incoraggiava una visione frivola della vita. Inoltre quei momenti con il bambino
avevano ormai esaurito il loro potere magico. Non spetta a me, che sono solo una
bambola di stoffa e sabbia, giudicare la bontà o meno del cambiamento: posso solo
raccontarlo per gli effetti che ebbe sulle persone coinvolte, e quello che vidi da allora
fu un'ulteriore frammentazione della famiglia.
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Il cambiamento comunque, portò in casa una nuova energia. La signora leggeva,
studiava e dedicava qualche ora alla settimana ai suoi nuovi interessi e decise anche
di riprendere a guidare.
Questo argomento fu causa di accese discussioni, poiché il marito era ansioso e
temeva per la sua incolumità, visto che erano molti anni che non guidava più. Ma
alla fine ci riuscì, si fece coraggio e comprò una piccola automobile, una deliziosa 500
gialla col cofano nero. La prima volta che il piccolo la vide disse: “mamma è bella la
nuova macchina... sembra un'ape enorme".
Per fare pratica la signora accompagnava il figlio a scuola, e per farsi coraggio offrì
un passaggio per la scuola anche a una vicina e al figlio.
La vicina era così entusiasta di non dover fare a piedi il tragitto che coprì la signora
di incoraggiamenti e di lodi per tutto il tempo, mentre i due bambini facevano
conoscenza.
Enrico fu felice di dividere " la sua ape" con il nuovo amico. Il bambino si chiamava
Fabio e se possibile era anche più timido di lui. La prima volta non spiccicò una
parola per tutto il viaggio, ma questa sua caratteristica, preoccupante per i grandi, a
lui piacque.
Gli consentiva di fare il primo passo, di essere lui per una volta quello “più sveglio”.
Così decise che quel bambino silenzioso sarebbe stato suo amico.
Anche le due donne sembravano trovarsi bene insieme. Entrambe erano seriamente
(troppo) preoccupate per la normalità dei propri figli, anche se non se lo dissero mai
espressamente, e si rassicuravano a vicenda senza neanche rendersene conto.
Enrico guadagnò così il suo primo migliore amico, che altrimenti, se non ci fosse
stata la questione del passaggio a scuola, difficilmente avrebbe avuto, vista la scarsa
socievolezza della famiglia. Inoltre così lui poté allenare un po' le sue ali di rondine.
Ora che era cresciuto e che sua madre era molto indaffarata, lui poteva andare a
giocare a casa del nuovo amico fino all'ora di cena.
La famiglia di Fabio viveva proprio vicino a noi. Avevano un appartamento in una
palazzina a pochi passi dalla porta di casa nostra.
Fabio viveva con i genitori e con la nonna materna, contentissima che il nipote
avesse finalmente un amichetto. Faceva un sacco di complimenti al piccolo Enrico e
preparava deliziose merende per loro!
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Il piccolo Fabio, essendo figlio unico, godeva di alcuni privilegi. Aveva giocattoli molto
belli, abiti curati e di buona qualità, e molti regali per ricompensare i successi
scolastici. A dispetto delle sue scarse capacità sociali infatti, il bambino era un vero
genio nello studio.
Non so se questo lo rendesse felice, ma lo studio era anche il modo con cui poteva
soddisfare il proprio desiderio di rimanere tra le rassicuranti mura di casa il più a
lungo possibile. Siccome però il piccolo Enrico rappresentava il suo esatto opposto,
egli ne rimase attratto e accettò di condividere con lui il suo spazio e i suoi giochi,
anche perché, pur avendo giocattoli meravigliosi,non era capace di creare un legame
con loro né di immaginare un possibile mondo nel quale ambientare possibili
avventure e quindi finiva spesso col lasciarli da parte quasi intatti.
Enrico invece era abilissimo nel dare vita a fantastici compagni di gioco utilizzando, al
posto di giocattoli nuovi, qualunque oggetto con una forma. Quando non trovava gli
oggetti adatti, disegnava e ritagliava i personaggi mancanti al suo "film".
Parve chiaro fin da subito che i due possedevano in maniera scambievole tutti gli
strumenti per realizzare un mondo fantastico condivisibile e divertente. Il piccolo
Enrico inoltre poteva aggiungere a tutto ciò una qualità speciale: LA LIBERTA'!
Non fu così semplice per Enrico coinvolgere Fabio, ma era un'occasione, e lui lo
sapeva. Con pazienza accettò che le prime volte Fabio esitasse nel partecipare ai
dialoghi tra i personaggi e lo lasciò libero di osservare fino a che non si fosse
sentito di partecipare spontaneamente. Per Enrico, che era abituato a giocare da solo,
non era frustrante, anche perché grazie a Fabio aveva a disposizione magnifici robot
dalle armature scintillanti. Anzi, si divertiva moltissimo facendo parlare animali di
stoffa con moderni robot e piccoli pupazzi con grandi cuscini a forma di animale,
mostrando all'amico quanto poco contassero nel suo mondo fantastico le differenze di
forma, grandezza e colore rispetto alle infinite possibilità di comunicazione, tanto più
divertenti quanto improbabili.
Inoltre facendo questo offriva inconsapevolmente all'amichetto il permesso di restare
da parte e di farsi avanti con calma attraverso i personaggi. Che miracoli sono in
grado di fare i piccoli tramite la libertà dai condizionamenti dei grandi! Semplicemente
liberi di stare bene insieme, si sintonizzarono sul piacere di giocare e di conoscersi
attraverso i reciproci linguaggi.
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Di solito, verso la metà del pomeriggio, venivano piacevolmente interrotti dall'ora della
merenda, che profumava di torta, di pandolce fatto in casa e biscotti. Andavano in
cucina con la mamma del piccolo Fabio e la nonna, sempre profumata di bucato e
violetta, era pronta a distribuire carezze e sorrisi.
Grazie a tanta dolcezza, Enrico poté notare che c'erano altri modi di essere una
famiglia: modi più armoniosi, aperti e ospitali di vivere dentro ad una casa, modi di
essere pieni di speranza, bontà, e generosità.
Non accadde mai durante quegli anni che i giochi cambiassero di sede:,Fabio non
venne mai in casa nostra a giocare, né ricevette mai un regalo dalla famiglia di
Enrico, ma non per questo la sua mamma gli impedì mai di invitare Enrico da loro.
Anzi ne era felice ogni volta, forse arguendo le difficoltà della sua compagna di
viaggio mattutina, e non espresse mai aperte critiche al riguardo.
Sinceramente interessata al bene del proprio figlio e intuendo il valore positivo
dell'amicizia tra i bambini, si mostrò sempre piena di gioiosa accoglienza.
In quel periodo Enrico si sentiva più sicuro del proprio valore, avendo conquistato la
fiducia del suo amico, e le sue ali di rondine si rinforzarono man mano. Forse il
mondo poteva non essere soltanto un luogo pieno di pericoli e malvagità, forse lui
stesso non poteva essere malvagio se qualcuno era disposto ad amarlo e a
considerarlo prezioso così com'era! Soprattutto se a farlo era un adulto, o meglio
ancora un'intera famiglia.
Un altro fatto degno di nota fu che talvolta Enrico ebbe il permesso di scendere in
cortile per un'oretta a giocare con i bambini del vicinato, a condizione però che ciò
avvenisse sotto le finestre di casa, dove sua madre vigilava sulla faccenda.
Infatti al minimo cenno di tensione, o se il linguaggio dei bambini più grandi si
faceva volgare, Enrico veniva prontamente richiamato a casa e nonostante le sue
proteste, senza appello!
La convinzione della madre che il mondo fuori dalla porta di casa sua fosse
pericoloso, si arricchiva ora di nuove spiegazioni sul perché fosse tale.
Spiegava infatti a Enrico che uno spirito di disobbedienza di origine malvagia
permeava le persone inducendole a comportarsi in modo sbagliato, e che l'unica
maniera per non rimanerne permeati era quello di limitare il contatto con gli altri al
minimo indispensabile, come le ore di scuola o di lavoro.
Enrico pensava che non ci fosse granché di nuovo in questa prescrizione: aveva visto
la sua famiglia comportarsi così già da molto tempo. Tuttavia intuì che questo ora
riguardava anche lui e la sua libertà di conoscere il mondo!
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PENSIERO MAGICO SUGLI OCCHIALI
Il mondo è un luogo pieno di cose di cui meravigliarsi, di cose da conoscere, di cose
da cui difendersi, di cose alle quali aprirsi, ma più di tutto è un luogo vasto e
sconosciuto. Come tutti i luoghi sconosciuti, richiede curiosità e cautela per essere
visitato, così come un'attenzione mirata e una visione globale. Gli esseri umani spesso
lo vedono come un luogo oscuro e minaccioso: forse lo guardano con occhiali scuri e
ci vorrebbe una brusca caduta per far sì che si accorgessero di portarli da molto
tempo, così tanto da aver dimenticato il giorno in cui li indossarono la prima volta e
il motivo per cui lo fecero.
In ogni caso, qualunque sia la causa o il motivo per cui fu necessario, quel momento
è passato! Quel pericolo è scampato e non si ripresenterà mai più nella stessa forma,
e noi non siamo morti: siamo sopravvissuti e siamo qui. A che ci servono quindi
quelle lenti ora? Quante e di quanti tipi nuovi possiamo scegliere di indossarne?
Tutte quelle necessarie per ognuno, al fine di considerare l'esperienza come vita, e la
vita, come un 'innumerevole quantità di esperienze.
Come tutte le prescrizioni familiari, anche quella riguardante la libertà di frequentare
il "mondo", non sarebbe sfuggita alla condizione che regnava all'interno della famiglia
stessa: la contraddizione.
Infatti, pur essendo limitata la possibilità di "contaminazione" attraverso la scarsità o
la totale assenza di rapporti sociali con gli altri, alcuni contatti venivano favoriti, ome
la frequentazione tra Enrico e Fabio, con i compagni di classe, con i bambini della
piazzetta. Queste eccezioni rendevano la regola priva di valore e già inapplicata, per
fortuna.
Inoltre questa limitazione, per quanto rigida, non avrebbe mai potuto resistere alla
forza di uno spiccar d'ali come quello che si preparava!
Durante una delle uscite consentite, Enrico incontrò una giovane donna che abitava
tra la nostra casa e quella della famiglia di Fabio. Abitava lì da poco, da quando
aveva trovato lavoro in città come figurinista di moda. Enrico non ricordava di
conoscerla ma lei aveva l'abitudine di salutarlo ogni volta che passava, agitando la
mano dal balcone di casa, che dava sulla strada. E così, un po' per educazione e un
po' per curiosità, Enrico prese a ricambiare il saluto a sua volta.
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Un pomeriggio, mentre Enrico si recava da Fabio, la giovane gli fece un cenno
diverso dal solito saluto: con la mano lo invitò ad avvicinarsi alla ringhiera del
balcone e gli disse: "Ciao, ti vedo spesso passare. Ma tu hai per caso un fratello
maggiore con una moto nera?". Dopo un attimo di esitazione Enrico rispose: "Sì,
perché?". "Beh!" - fece lei - "L'ho notato passare spesso e siccome mi piacciono le
moto ... " non finì la frase, presa dall'imbarazzo, ma facendosi forza disse "E' carino!
Tutto qui!
Enrico guardò la ragazza senza aggiungere nulla ma rimase attratto dal colore della
sua maglia, così, per farsi coraggio, disse timidamente "La tua maglia ha un bel
colore!". La ragazza colse l'invito a cambiare discorso, e gli rispose "Davvero ti piace?
Sai, l'ho fatto io, e come questo diverse altre cose ... mi occupo di moda, sai cos'è?".
”Non ne sono sicuro - disse lui, arrossendo un po' - ma mi piacciono i colori e le
stoffe.
Lei scoppiò in una risata divertita e rispose: “Sì, si tratta di questo per lo più, di
metterli insieme, immaginando una forma e con un disegno crearne l'aspetto finale!
Sei un ragazzino simpatico e sveglio.” Poi aggiunse: "Forse potremo essere amici.
Quando passi chiamami, magari facciamo due chiacchiere se ti va!”
"Non so come ti chiami" ribatté Enrico. "Verena", rispose lei. Quell'incontro lasciò in
lui una piacevole sensazione. Non doveva essere poi così male se la ragazza dal
buffo maglione l'aveva chiamato per parlargli, nonostante la differenza di età.
Inoltre sembrava che il mondo finora guardato con me dalla finestra riservasse
interessanti sorprese, così e provò il desiderio di saperne di più!
Quando tornò a casa non fece parola con nessuno circa l'incontro fatto, ma quella
sera, mentre mi raccontava tutto, nella stanzetta disegnò un abito del colore del
maglione di Verena.
La produzione del nostro atelier era ormai stata completata dalla signora, ma per
goderne ancora un po' e per festeggiare segretamente l'incontro con la sua nuova
amica, Enrico continuò a disegnare.
Nonostante le forze avverse, la vita metteva davanti ai nostri passi la strada giusta
affinché Enrico, ormai cresciuto, cominciasse a sviluppare il giusto interesse per i suoi
simili. Questo a dimostrazione che il mio compito non solo volgeva al termine, ma
poteva anche dirsi riuscito, in quanto nel cuore del bambino cresceva il desiderio di
volare ed era stato superato il rischio di rimanere bloccato nell'isolamento in cui lo
avevo trovato.
C'era riuscito soprattutto perché aveva capito che alcune delle minacce che aveva
ritenuto reali (anche in quanto fatte da persone che credeva le migliori, e in seno al
suo ambiente familiare), non si erano mai concretizzate. Come faceva a saperlo? Era
ancora vivo! E questo aveva dimostrato che si trattava solo di parole cattive e
sbagliate, ma di certo non vere.
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Nessun potere umano o soprannaturale aveva eseguito la "sentenza", nessun uomo
nero era spuntato fuori dal buio, nessuna malvagità si era abbattuta su di lui. Anzi,
aveva persino trovato due nuovi amici che lo trovavano divertente e sveglio, e
chissà quanti altri ancora ne avrebbe potuti trovare!
Non sarebbe stato ingenuo nel suo percorso, poiché aveva già conosciuto l'inganno e
il suo potere e ora era in grado di riconoscerlo in tempo. Ma soprattutto cominciava
a non subire più la vita, ma a viverla appassionatamente con coraggio e spirito
d'investigazione!
La perdita di potere delle ingiunzioni lasciava trasparire la speranza come una breccia
sul muro.
Mentre la signora progrediva nel suo impegno, leggendo molto e frequentando il
nuovo gruppo d'appartenenza con assiduità, la sua famiglia stava cambiando. La
spaccatura tra lei e il marito si faceva sempre più profonda, il figlio maggiore aveva
distolto l'attenzione dall'onesta condotta di casa accumulando debiti per ignoti
passatempi ed Enrico, nonostante avesse ancora dentro il dolore di sentirsi respinto
dalla madre e odiato dal fratello, cominciava a non credere più alle storie terribili che
lei raccontava sul mondo e i suoi abitanti., avrebbe voluto molte volte, chiederle il
perchè del fastidio nei suoi confronti, ma non riusciva a pronunciare quelle parole,
temeva che dicendole a voce alta non avrebbe più potuto credere di sbagliarsi e non
lo fece. Lei ormai aveva una spiegazione per tutto: se le cose fossero andate male
avrebbe potuto scusarsi, magari dicendo di essere molto impegnata nel suo percorso
di rinascita. Un cammino che, non essendo stato condiviso dalla famiglia, aveva anche
il potere di renderla l'unica persona dotata di antidoto contro lo spirito malvagio del
mondo.
Non sarebbe stato perfetto per una martire avere una famiglia lontana dalla luce
della "giustizia"?
: “Faccio finta di non vedere che la mia famiglia è spaccata, che mio marito è stato
isolato (in quanto oppositore del nuovo regime da me instaurato con ricatti e
minacce silenti), che ho cresciuto un bambino con inclinazioni sadiche ed egocentriche
(che però sarà sempre il mio preferito), destinato a diventare probabilmente un
adulto mitomane e inconcludente, E faccio finta di non sapere che il mio figlio più
piccolo probabilmente dovrà odiarmi per tutte le menzogne che gli ho raccontato,
allontanandosi da me per sempre (in fondo non era mai stato "normale",
chissenefrega) col rischio di fidarsi del primo sconosciuto cordiale e malintenzionato o
di non fidarsi più di nessuno. Ma se proprio lo dovrò vedere, che altro poteva
accadere loro? Che Dio li perdoni! lo non posso farci niente!
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I semi dell'adolescenza, cominciavano a germogliare nel corpo e nella mente del
piccolo Enrico e questo lo rendeva meno incline alla cieca obbedienza, generando in
lui lo spirito di polemica ed insofferenza tipico dell'età, insieme ad una certa
goffaggine nella voce e nei movimenti.
Ogni mattina, prima della scuola, mi aiutava a indossare l'abito del giorno abbinando
gli orecchini che lui creava con fil di ferro e bottoni e mi acconciava i capelli di lana
gialla in modo sempre diverso. Mi guardava con approvazione e poi usciva.
La madre lo accompagnava ancora con la sua buffa macchina gialla e nera, insieme
alla vicina e al figlio, e tornava a prenderlo al termine delle lezioni. Nel pomeriggio,
se la signora usciva per le sue faccende Enrico andava dal suo amico Fabio o dalla
nonna. Qualche volta, nonostante l'apprensione dei genitori, poteva scendere in
piazzetta per giocare con gli altri bambini e in quell'occasione capitava che di
nascosto tutta la compagnia si addentrasse nella pineta a giocare. Lui spesso
esplorava alcuni sentieri per vedere dove portassero, isolandosi dal gruppo. Scoprì
così che uno di questi gli consentiva di arrivare tra i monti, nei pressi della casa
della nonna, e gli sembrò una magnifica sorpresa. Aveva una strada segreta tutta per
sé, una rotta magica, scoperta semplicemente affidandosi alla pineta. Un sentiero
dove nulla lo faceva sentire minacciato, dove alberi e pietre lo guidavano benevoli
verso la meta, dove cespugli di ginestre segnavano distanze e direzioni che lui aveva
imparato a memoria, per orientarsi con sicurezza, e alberi di fichi allietavano il
percorso "estivo" con i loro frutti maturi, mentre solide querce offrivano riparo per
l'inverno.
In quei luoghi sicuri Enrico si recava ogni volta che poteva, per gustare la pace e
calmare la rabbia, e non di rado capitava di imbattersi in nidiate di gatti, partoriti
dalle madri tra cespugli di rovi o sotto grandi massi di pietra. A volte alcuni cuccioli
si allontanavano o venivano abbandonati. In quei casi, attirato dai miagolii impauriti,
Enrico li raccoglieva, cercava per loro un luogo sicuro, e di corsa tornava a casa per
prendere qualcosa da mangiare, tornando con del cibo, un caldo pezzo di lana e una
scatola dove tenerli al riparo.
Non potendo contare sulla collaborazione della sua famiglia e non volendo condividere
con loro la sua "missione", cercava aiuto dagli altri. Più di tutti lo aiutava Verena, la
ragazza dal buffo maglione. Lei aveva una gatta in casa, aveva scorte di cibo in
quantità e certo non le mancavano le stoffe. Infatti teneva da parte per gli… orfanelli
felini gli scarti del suo lavoro di sarta.
Condivideva infatti con Enrico la passione per i piccoli animali e mantenne segreto il
loro impegno per aiutarli a vivere.
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Fu durante una "missione" che Enrico venne invitato dalla ragazza a salire in casa
per prendere le cose necessarie per l'ultimo arrivato da salvare. Il pacco era già
pronto e mentre la giovane andava a prenderlo, Enrico si diede un'occhiata intorno e
vide la gatta del la ragazza sonnecchiare su morbidi cuscini, vicino al calorifero, ben
pasciuta e rilassata. La micia alzò lo sguardo sul nuovo arrivato e lentamente si
avvicinò per annusarlo. Enrico, come d'abitudine, si accucciò a terra per non
spaventarla e lei lo ricambiò sfregandosi su di lui e facendo le fusa.
"Anche per lei, sei il benvenuto!" disse la ragazza, rientrando nella stanza. "Ecco le
cose di cui hai bisogno".
"Grazie! Sei gentile ad aiutarmi" rispose Enrico, accarezzando la gatta. "E' un onore,
sei un bambino buono e coraggioso, e poi sappi che nessun piccolo può diventare
grande da solo!" ribatté lei. "Sai – continuò - sto preparando nuovi abiti e alcune
maglie per una presentazione del mio lavoro, che avverrà nell'oratorio della chiesa.
Che ne dici di darmi una mano?". Poi aggiunse: "Inviterò anche la tua mamma e le
chiederò se te lo permette".
"Sì, mi piacerebbe, ma non so se accetterà", rispose Enrico con una nota di tristezza.
"Ci penso io! Non preoccuparti.”, lo tranquillizzò lei sorridendo.
PENSIERO MAGICO DELL'IMPREVISTO
Avete mai visto un filo d'erba spuntare dalla strada asfaltata? Con quale forza ha
potuto farsi strada? I passanti lo considerano inopportuno, imprevisto: un usurpatore
indebito.
Intere squadre di persone lavorano costantemente per impedirne la crescita e lo
sviluppo e ritengono di vincere su di lui, ma in realtà la vittoria è temporanea e
soprattutto inutile.
Se cesseranno di estirparlo, per un periodo sufficientemente lungo di tempo, il filo
d’erba si riprenderà il posto che gli spetta di diritto. Talvolta però può cedere e non
crescere più: allora il proprietario della strada festeggia la sua vittoria effimera, non
sapendo che un giorno quella proprietà non sarà più sua e ignorando inoltre che il
vento cambierà e porterà nuovi semi sulla strada……..
PAGINA 32
Verena conosceva la mamma del piccolo Enrico. Era stata la ragazza infatti a
permettermi di raggiungere il bambino per assolvere al mio compito, regalandomi a
lui nel giorno del suo compleanno.
Verena e la signora si erano conosciute perché il papà di Enrico aveva avuto bisogno
di fare delle iniezioni e la signora si rivolse a lei su indicazione di una vicina. Fu in
quell'occasione che Verena notò il piccolo e facendogli i complimenti per la sua
educazione ottenne subito la simpatia della signora. La mamma del bambino infatti
non solo le fu grata per l'aiuto ricevuto, ma si sentì anche lusingata come madre.
Verena aveva intuito nel bambino parte della sofferenza che lei stessa aveva provato
da piccola. e aveva subito provato per lui una grande tenerezza, così chiese alla
signora quando fosse il compleanno del piccolo, proponendosi di fargli un regalo col
suo permesso.
Quando fu il giorno designato, Verena e io eravamo pronte a lasciarci. La consegna
avvenne quasi per caso: madre e figlio si stavano recando a casa, di ritorno da una
delle visite alla nonna, mentre Verena tornava dalla spesa.
La ragazza vide i due dirigersi verso la fermata dell'autobus e così si avvicinò per
salutare la signora. Augurando buon compleanno al piccolo, mantenne la sua
promessa e diede il suo regalo.
Il fatto di trovarsi per strada facilitò la consegna di un dono così insolito per un
bambino, impedendo alla signora di rifiutarlo proprio a causa di quella stessa
educazione di cui andava fiera. Inoltre, permise a me, di stabilire il primo contatto
magico col piccolo, come la ragazza sapeva con certezza, che sarebbe accaduto.
Da quel giorno Verena vedeva passare di tanto in tanto la signora a piedi o in
macchina, ma tra loro non ci furono altri contatti fino a quando Enrico non fu più
grandicello e lei si offrì di aiutarlo nella sua missione di salvataggio dei piccoli animali
in difficoltà.
"Ci penso io!" - Aveva detto la ragazza dal buffo maglione, e nei giorni che
seguirono quella promessa, lei aveva pensato al modo migliore per ottenere dalla
mamma di Enrico il permesso di aiutarla nella preparazione dell'evento "mondano"
del quartiere. Aveva saputo della sua amicizia con Fabio, il figlio dei signori che
abitavano sopra di Lei, così pensò che avrebbe potuto cominciare con l'invitare
proprio la mamma dell'amico di Enrico.
“Buongiorno, signora!" esordì Verena quando la signora aprì la porta.
"Buongiorno, cara, cosa desidera?" rispose la donna sorridendo. "Vede, signora, vorrei
farle un invito, se me lo permette" disse la giovane, rispondendo con un sorriso
aperto.
La signora ne rimase colpita perché non erano molte le occasioni di ricevere un
invito, e questo la incuriosì. Allora, conoscendo la buona reputazione della ragazza, la
fece entrare per saperne di più.
Un'iniziativa del genere, in un quartiere fin troppo tranquillo, sarebbe stata accolta
con entusiasmo e avrebbe procurato anche abbondanza di chiacchiere per lungo
tempo. In ogni caso nessuno avrebbe rinunciato a presenziare…
"Se le fa piacere, potrebbe dirlo anche alla sua amica più cara, sarei davvero lieta di
riempire l'oratorio di squisite signore come voi!". Poi aggiunse, "Per esempio la
mamma di Enrico è una signora così distinta!". Il solo sentirsi annoverata tra le vere
signore procurò alla mamma di Fabio un piacere enorme e fornì sufficiente
motivazioni per farle capire che la definitiva
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consacrazione nella cerchia delle vere signore non sarebbe stata possibile se non
presentandosi accompagnata dalla signora più riservata del quartiere. "Ben fatto"
disse la ragazza tra sé e sé, mentre si congedava dalla vicina. "Pronti per la seconda
parte del piano".
Se la lusinga aveva pienamente funzionato, Verena sapeva però che non avrebbe
raggiunto il suo scopo con la mamma di Enrico usando lo stesso sistema. Sapeva
infatti che ogni pesce vuole la sua esca e comprese che per fare procedere le cose
nel verso giusto doveva affrontare anche la mamma di Enrico. Ma Verena sapeva
come fare.
PENSIERO MAGICO DELLA BUONA FEDE
“La fede, intesa come fiducia, è buona poiché si affida al bene ma è ben diversa
dalla credulità dall'indolenza e dal buonismo. Contiene infatti un valore "attivo", a
differenza degli atteggiamenti appena citati, che non richiedono azione alcuna! Esige
la più alta qualità morale, la bontà, per l'appunto, che si esprime compiendo qualcosa
di apparentemente non richiesto ma che sentiamo di poter fare andando oltre ciò
che è semplicemente dovuto. Chi agisce per bontà non ha alcun fine egoistico, né
tornaconto alcuno.
Si riconosce nelle persone, quando resistono alla tendenza a sbandierare la buona
azione, ottenendo così merito reale e vera soddisfazione. In questo si contribuisce alla
crescita di altri esseri umani, all'incolumità dei più deboli, alla cura di oggetti speciali,
rispettando e sottomettendosi a qualcosa di più grande di noi con armonia.
Liberando gli schiavi dalle loro catene, queste persone affrancano se stesse dal peso
dell'esitazione”.
Armata di buona fede, una mattina Verena si recò a casa della mamma di Enrico,
"armata" anche di coraggio, e una bella pianta verde.
Enrico era a scuola, il papà al lavoro, e il fratello maggiore non era in casa. In simili
condizioni Verena sperava di poter più facilmente instaurare un po’di complicità tra
donne.
Provò in un primo momento a stuzzicare la donna con l'invito, ma non si sorprese
nel vedere che educatamente la signora declinò l’invito. La mamma di Enrico infatti si
scusò, aggiungendo che simili frivolezze non le andavano a genio. Prontamente allora
Verena replicò: " Beh! Posso capire, ma vede, si tratterebbe di aiutarmi. In realtà
parte del ricavato della vendita eventuale andrebbe in favore dei gatti abbandonati,
che gente senza Dio lascia al loro destino nella nostra pineta. Inoltre – e qui la
ragazza esitò di proposito - la signora Burgio darebbe un gran contributo se solo
potesse venire a vedere i capi che ho preparato. Purtroppo,
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non avendo la macchina, forse non lo farà "
E la mamma di Enrico rispose: "Vedo la signora ogni mattina, le do un passaggio
fino a scuola .. forse se ne riparlerà ".
"Non si disturbi, ma sappia che sarei felice che il quartiere sapesse chi veramente ha
carità cristiana!" disse la ragazza, conoscendo lo zelo della signora. E poi aggiunse:
"Ah! Dimenticavo… come sta Enrico? Sa, lo vedo spesso da solo prendere il sentiero
della pineta, un ragazzino così ben educato, spero non si mischi con i ragazzacci
della collina... ". Finse di aver parlato troppo e si portò una mano sul cuore, dicendo:
"Non voglio turbarla, ma col da fare che ho nei preparativi, prenderei quei ragazzini
e li farei tutti lavorare sodo. Farebbe bene a tutti loro, non crede?"
La signora replicò: "Mi farebbe piacere se potessimo scambiarci una cortesia. In
effetti il ragazzo mi dà qualche pensiero ... ". La mamma di Enrico sembrava
improvvisamente interessata all'iniziativa, ma in realtà era irrigidita dalla rivelazione
appena udita. "Che ne dice se Enrico le desse una mano?" chiese la signora, e
subito dopo aggiunse: "Se mio marito non se ne dispiacerà, forse verrò a vedere se
avrà fatto un buon lavoro!"
"E' una madre esemplare!" disse Verena illuminandosi! "Grazie" disse la signora
aprendole l'uscio di casa.
Scendendo le scale, Verena si disse che una piccola bugia non poteva certo far male,
soprattutto se quest'ultima le permetteva di regalare a quel ragazzino un'esperienza
nuova e un po’ di libertà in più.
La mattina seguente le due donne si ritrovarono alla solita ora per accompagnare i
figli a scuola. La signora Burgio, chiese all’amica se l'avrebbe potuta accompagnare
all'evento del quartiere, specificando che si sarebbe sentita a suo agio in una simile
circostanza solo avendola al proprio fianco. La mamma di Enrico a sua volta si vantò
che il proprio figlio avrebbe anche aiutato quella brava ragazza nei preparativi e che
pur di farlo contento si sarebbe sacrificata volentieri.
Entrambe mentirono sapendo di farlo circa le proprie motivazioni, ma nessuna di loro
si sentiva minimamente in colpa, avendo entrambe il tornaconto che desideravano più
della verità stessa!
Lo stesso pomeriggio Enrico si recò dall'amico. Quando Verena lo vide scendere le
scale si affrettò a chiamarlo per spiegargli che la sua partecipazione all’evento
avrebbe avuto un prezzo da pagare.
"Probabilmente," disse Verena dopo averlo salutato, " ti beccherai una sonora
sgridata, ma almeno hai il permesso di aiutarmi. Vedrai, sarà divertente!" "Ci sono
abituato, per molto meno" commentò lui dopo aver ascoltato con aria divertita e
sorpresa il racconto della sua "complice". Poi aggiunse "Ora so che siamo amici".
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La sala dell'oratorio, non era molto grande e aveva la forma di una elle, così Verena
decise di utilizzare il percorso come passerella, sistemando le sedie intorno al
camminamento. Così facendo restava sufficiente spazio alle modelle (ragazzine che
desideravano farsi notare dai ragazzi del quartiere) per camminare nei due sensi.
Il parroco fornì una lunga passatoia per delimitare la passerella e lasciò una busta
bianca su ogni sedia.
Enrico aveva raccontato a Fabio della sua partecipazione perché per alcuni giorni non
si sarebbero potuti vedere per giocare come al solito. Nonostante gli dispiacesse,
Fabio era molto fiero del suo amico, visto che faceva qualcosa di estremamente
coraggioso: qualcosa che lui stesso avrebbe voluto fare, se la sola idea non l’avesse
terrorizzato.
Enrico ebbe l'idea di fare dei cappelli per completare l'aspetto finale delle modelle:
un simpatico escamotage per ovviare la fatto che né lui né Verena erano in grado di
pettinarle. Pensò di realizzare dei grandi cerchi di metallo da coprire di stoffa
colorata, in contrasto con il colore dell'abito, da fermare con una molletta alla coda
di cavallo. In questo modo avrebbero risolto un problema e avrebbero anche
aggiunto un insolito effetto futuristico alle creazioni di Verena. Alla ragazza l'idea
piacque molto ed era sicura delle capacità creative del ragazzo.
E così, arrivato il grande giorno, la signora accompagnò Enrico all'oratorio nel
pomeriggio e gli disse che sarebbe tornata a prenderlo un paio d'ore dopo.
Enrico e Verena addobbarono la sala, prepararono le liste dei capi e l'ordine d'uscita
delle modelle e convocarono tutte le ragazze per le prove generali. L'aria era densa
di eccitazione e ad Enrico non sembrava vero essere in mezzo al suo gioco preferito,
stoffe e bottoni. Questa volta poi era diverso: grazie all'aiuto di Verena e alla pratica
fatta con me nella stanzetta, poteva finalmente entrare dentro al sogno e viverlo!
Nessuna esperienza fino ad allora era stata minimamente paragonabile a questa. Gli
sembrò una scarica elettrica, un grandissimo balzo in avanti. Aveva di fronte a sé la
certezza che le cose sognate da piccoli possono avverarsi da grandi, fino a diventare
ispirazione e obiettivo: un vero fascio di luce che ci indica la direzione da seguire per
realizzare il nostro talento, approfondirlo, farlo diventare un lavoro e condividerlo con
coloro che amiamo, anche per tutta una vita!
Quando la signora tornò a prenderlo, Enrico era ancora colmo di entusiasmo e non
poté fare a meno di rifletterlo su di lei: appena la vide le andò incontro radioso e
non smetteva più di parlare di ciò che avevano fatto, delle trovate che avevano
avuto, di come le avevano realizzate insieme, ma soprattutto di quanto tutto questo
lo rendeva felice!
Notando lo scarso interesse di sua madre, Enrico estrasse dalla tasca un oggetto, un
limone con degli spilli infilati nella buccia, “Guarda mamma!” disse entusiasta, “Me lo
ha dato lei, mi ha detto che posso tenerlo!”. I suoi occhi brillavano fieri, mentre le
tendeva il braccio con orgoglio, per mostrarle il suo trofeo!
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La signora cercò di riportarlo immediatamente a un contegno più controllato perché
giudicava imbarazzante ed eccessiva quell'agitazione. “Sei il solito stanca cervelli!”
disse con espressione infastidita. “Ora andiamo che è tardi", aggiunse, salutando a
malapena la ragazza e intimando al piccolo di sbrigarsi.
Per tutto il viaggio verso casa Enrico non parlò più. Questa volta non era triste ma
irritato: chiuse temporaneamente le sue ali di rondine ma si ripromise di volare
lontano appena possibile! Una volta giunti a casa, venne da me nella stanzetta.
Conoscevo bene i suoi occhi: ora erano colmi di rabbia ma una luce in fondo ad essi
brillava come una fiamma ardente, decisa a non spegnersi più. Fissava la finestra ma
il suo sguardo ora la oltre trapassava. Ormai certo di poterla aprire, non temeva più
il mondo là fuori, ma lo desiderava e sapeva in cuor suo che un giorno lo avrebbe
conosciuto. Alla fine, addolcito, riportò lo sguardo su di me e mi prese tra le mani,
accarezzandomi.
Tirò fuori il limone sul quale erano puntati alcuni spilli. Glielo aveva regalato Verena
per ringraziar lo dell'idea dei cappelli. Era un piccolo trofeo, come la bacchetta
magica di un giovane apprendista mago. Lo nascose in fondo al cassetto della
scrivania.
La sera si avvicinava, e con essa l'ora di recarsi all’evento in programma. Enrico
mantenne la calma durante la cena perché non voleva rischiare che la mamma
cambiasse idea. Finì il suo cibo in fretta e andò a vestirsi.
La mamma di Fabio arrivò puntuale all'appuntamento, indossava l'abito migliore ed
era ben pettinata come sempre. Si avviarono verso la macchina e partirono. Durante
il viaggio la signora Burgio, chiacchierava eccitata ma la mamma di Enrico non era
dello stesso umore. Forse si era già pentita di aver accettato di mescolarsi a quelle
persone e preferiva non commentare, fingendo di essere concentrata nella guida.
Fabio non era venuto con la mamma, e questo dispiacque a Enrico: significava infatti
che l'amico non era riuscito a superare le proprie paure.
Di fronte all'oratorio c'era un gran numero di persone, segno che l’iniziativa era
diventata “famosa” nel quartiere e aveva stuzzicato sufficiente curiosità. Le due
signore si fecero largo tra la folla di vicini, salutando di fretta e senza fermarsi.
Verena aveva riservato alcuni posti con i nomi e stava facendo gli onori di casa
quando intravide le due donne avvicinarsi a braccetto, come per farsi coraggio.
"Benvenute!" disse consegnando il programma della serata, poi si rivolse a Enrico:
"Ciao! Se ti fa piacere puoi andare di là a vedere i preparativi" disse strizzandogli
l'occhio. "Intanto faccio accomodare la tua mamma"!
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Ben felice di potersi sottrarre alla funesta compagnia, Enrico si diresse verso la porta
del retro, dove la mamma di Verena finiva di dare gli ultimi tocchi di cucito agli abiti
delle ragazze. Era una donna semplice, che gli anni di lavoro in campagna avevano
reso un po’ dura in apparenza, ma portava ancora un tocco di gentile femminilità,
come si vedeva dal rossetto rosso che portava. I bianchissimi i denti scintillavano in
contrasto con le belle labbra rosse e illuminavano un sorriso materno. Rivolgeva agli
altri uno sguardo fiero e benevolo che diventava umido alla vista dei bambini e dei
gatti. "Tu devi essere Enrico" disse, alzandosi dalla sedia. "Verena mi ha parlato
tanto di te! Grazie per l'aiuto, sei proprio bravo!" aggiunse accarezzandolo. Il ragazzo,
provò un senso di felicità rinfrescante a sentirsi lodare e timidamente rispose “Mi
sono divertito come mai prima!".
Madre natura ha le sue carte da giocare, e procura ai cuccioli rimasti soli delle tate
che li confortano come madri. Alcune, infatti nascono così, magicamente in grado di
nutrire infinite schiere di figli. La mamma di Verena era una di loro: possedeva il
dono più generoso che la natura offre alle donne, l’amore incondizionato.
Lo distribuiva a tutte le creature viventi in egual misura, fossero animali, esseri umani
o piante…
Quel giorno la sua unica figlia realizzava un grande desiderio e inconsapevolmente
anche quello di un piccolo uomo. Lei lo viveva con loro: con la stessa fiducia, con lo
stesso amore, con la certezza che indifferentemente dall'esito della serata i loro cuori
battevano all'unisono.
Niente poteva oscurare una forza simile. Neppure la signora Maria,, pur con tutto il
suo riserbo, la sua disapprovazione, il suo giudizio e le sue limitanti convinzioni
sarebbe riuscita a far smettere di battere quei cuori raggianti.
Quando Enrico tornò al suo posto a sedere, non si accorse nemmeno della madre né
di come lei tenesse le mani furiosamente serrate tra loro. Spente le luci della sala, fu
solo EMOZIONE!
Nel suo cuore Enrico sapeva di essere libero. L'ultima catena che lo imprigionava si spezzò
quella sera stessa: una madre vera lo aveva dichiarato appartenente al bene, alla bontà,
all'unica verità possibile, nel nome della condivisione.
Era giunto per me il momento di fare ritorno al mondo magico dal quale provengo.
Avevo esaurito il mio compito e il mio tempo. La rondine era nata nell’anima di
Enrico, aveva tratto nutrimento dall'esperienza e adesso le sue ali erano in grado di
volare, di affrontare il freddo del distacco e il calore di un futuro ritorno. La natura
avrebbe provveduto al sostentamento e al conforto nel viaggio, tramite le tante
“madri” che avrebbe incontrato. La finestra della stanzetta da cui guardavamo il
mondo si era aperta e un tepore primaverile invitava il cucciolo a lasciare il nido, che
sarebbe rimasto ad aspettare il suo ritorno.
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La mattina seguente la signora si svegliò agitata. Con il viso cupo e si aggirava per
casa come cercando qualcosa che le spiegasse come avesse potuto cedere all'invito
della sera prima. Si era sentita fuori posto per tutto il tempo, infastidita
dall'entusiasmo generale per uno spettacolo che lei riteneva ridicolo e a tratti osceno:
un'inutile manifestazione di frivolezza e vanità, uno stupido delirio a cui aveva
permesso di esercitare potere sulla mente del figlio, mentre lei stessa cercava
disperatamente di ottenerne il controllo.
Continuava a ripetersi che lo faceva per il bene di Enrico, per salvarlo.
Questa consapevolezza l'aveva resa debole in un primo momento, ma poi aveva
trovato nelle nuove convinzioni, la risposta che cercava e questo le aveva ridato la
speranza di poter cambiare le cose, di poter lavare le proprie colpe e quelle dei suoi
cari. Di poter riparare, seppur tardivamente alle angherie e agli abusi subiti dal
piccolo per mano del fratello, avvenuti proprio sotto i suoi occhi, e così ottenere il
perdono per averli tacitamente accettati, forse nel tentativo di proteggere il più
debole. L’immagine di quel limone si fissò nella sua mente, quell’oggetto,
probabilmente scambiato per un malefico talismano, era l’unica cosa che poteva
eliminare fisicamente in modo da placare i propri rimorsi. Ma quel ragazzino le
resisteva, si opponeva silenziosamente a tutti gli espedienti trovati per plasmarlo e
per fargli dimenticare ciò che era accaduto persino sotto i suoi occhi. A nulla erano
valsi i castighi, le ricompense, le ingiunzioni sotto forma di racconti, e persino
l'intervento di autorità spirituali. Ci doveva essere una ragione per una simile forza:
che lei non era in grado di concepire una simile tenacia, poiché era debole e andava
cercando essa stessa protezione. E poiché era debole, non poté fare a meno di
dichiarare “cattivo” ciò che si differenziava così tanto da lei.
Se il bambino non era cresciuto “integro”, lei avrebbe comunque potuto continuare ad
amarlo senza disprezzare se stessa tenendo dentro di sé la verità. Avrebbe potuto
essere peccatore e redentore al tempo stesso, ma solo a patto che il figlio si
convincesse di essere sbagliato e cercasse perdono per il resto della sua vita al
posto loro. Queste erano le condizioni per continuare a vivere, questo il prezzo da
pagare per poterlo sopportare.
Così andò cercando nella scrivania di suo figlio un segno che dimostrasse la sua
teoria. Trovò il limone che altro non era che un puntaspilli artigianale, magari fatto
sul momento e custodito come un segreto per semplice pudore adolescenziale, ma
chi custodisce a sua volta un segreto ben più oscuro può attribuire oscuri significati
persino a un semplice manufatto.
Il collegamento con la ragazza fu fulmineo nella mente della povera donna, la quale
non appena il figlio tornò a casa recitò la scena che aveva in mente, chiedendo
dapprima spiegazioni per poi ignorarle del tutto. Spiegò con serietà al ragazzo la
"vera" natura dell'oggetto maligno e lo guardò in faccia fingendo dispiacere, mentre
gli ordinava di buttare via la bambola, che lei, nonostante lui l'avesse dimenticato, gli
aveva regalato tanto tempo prima alla fermata dell'autobus, il giorno del suo
compleanno, e di pregare per ottenere perdono e non dover subire chissà quali
conseguenze.
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La velata minaccia, il sottile ricatto, erano una dura prova da sopportare per il
ragazzo, ma egli cercò comunque di opporsi. Come poteva chiedergli di separarsi
dalla sua “amica”, la stessa che avevano condiviso con gioia per tante sere?”lei non
c’entra!” implorò, “Non è giusto!” disse sentendosi venire meno le forze…..ma poi mi
guardò, con gli occhi inondati di lacrime, e io gli sorrisi rassicurandolo. Lui capì che
il mio cuore di sabbia batteva col suo, e che ero pronta, quando chiuse la scatola,
stremato, per gettarla via sotto lo sguardo implacabile e soddisfatto della
madre………………… Dentro c'era solo una bambola di pezza con le trecce
blu………………………………………. Qualcosa si ruppe dentro di lui, e tra loro e da quel
giorno……………………………………
Molti altri segreti apparenti furono trovati nella stanzetta di Enrico, ormai vuota di
giochi e di luce.
Non avendo ancora le risorse necessarie per uscire di casa, dovette restare, i tempi
dei giochi erano finiti, così come la scuola dell’obbligo, e per dovere si iscrisse alle
scuole superiori, ma non c’era niente che lo interessasse in quei luoghi, come tutti
gli adolescenti, non provava interesse per i doveri, e l’apatia tipica dell’età, unita al
disprezzo che parzialmente erano riusciti a instillargli, lo spingevano a passare nella
stanzetta molte delle ore libere, guardando con nostalgia la mensola sulla quale mi
aveva trovato ad aspettarlo per tanto tempo.
Di tanto in tanto l’amarezza lo spingeva a scrivere poesie, come una principessa
chiusa nella torre, poesie tristi, che sua madre leggeva volentieri, e che raccolse in
una cartellina, forse nel tentativo di compiacerlo, perché non poteva negare il velo
sceso, sul cuore del ragazzo.
Ma lui, che non voleva che lei gioisse di alcunché che lo riguardasse, proprio lei che
lo aveva obbligato a fare scelte non sue e che con lui aveva chiuso, per questo,
non meritava soddisfazione e un giorno le poesie finirono nella stessa spazzatura
dove tanto tempo prima era finita anche Rosaria. L’attaccamento di sua madre alle
poesie gli era insopportabile ma utile, gli permise di pareggiare in apparenza i conti.
Sì fu crudele anch’egli, con lei, e vendicativo, come gli amanti respinti, dette sfogo ai
sentimenti negativi che lo pervadevano, nutrì sua madre delle peggiori paure,
comportandosi in modo sbagliato ed esponendosi a grossi rischi, e facendo in modo
di venire scoperto.
Pur avendo buone capacità nello studio grazie alla sua fulgida memoria, si fece
bocciare più volte, provocando vergogna e ulteriori spese alla sua famiglia, solo per
dimostrare che non lo avrebbero più manipolato!
E una parte del suo potenziale andò sprecata anche per questo.
Sapeva che non gli avrebbero potuto permettere di rimanere a scuola,
infruttuosamente, e questo costituiva una via d’uscita!!!
Trovò prima un lavoretto, nel forno di una parente paterna, poi approdò grazie alla
sua capacità di farsi apprezzare dagli” altri”, in un negozio di articoli vari, un piccolo
emporio gestito da un rubicondo signore panciuto, e dalla madre anziana.
Fu proprio quella donna, un’altra “tata della natura” a dargli ancora una volta la
fiducia di cui aveva bisogno, lo seppe valorizzare e in un’occasione lo difese a spada
tratta da un torto fattogli dall’ignobile commesso, che lo accusò ingiustamente del
deterioramento di una merce, confermandogli la sua fiducia nonostante le apparenze
non deponessero a suo favore.
Iniziò così un periodo migliore per Enrico, il quale, cominciò a guadagnarsi una
piccola indipendenza economica, e dottor Tempo fece il suo lavoro, le ore e gli anni
si susseguirono senza più scossoni apparenti.
L’atmosfera familiare rimase invariata, ma le ore da passare in casa erano poche a
quel punto, e questo lo reso sopportabile probabilmente a tutti.
I suoi genitori, misero da parte per lui il suo guadagno, un giorno, si sarebbe trovato
una brava ragazza, si sarebbe sposato, e quelle risorse sarebbero servite per
cominciare una nuova vita “normale”………….che avrebbe consentito a tutti di sentirsi
a posto….e…………………………………………………………….proprio quello era il sentimento
generale, il passato era passato, e il peggio era passato.
Aveva ventiquattro anni, una mattina, quando una luce lo destò dal sonno
conquistato a fatica, nel suo letto, nella sua casa nuova, nella sua nuova vita
“normale”, e voltandosi Enrico non vide la moglie al suo fianco, ma una stella, non
una donna, ma una morbida bambola dai lunghi capelli biondi, si sentì soffocare da
un’emozione antica , quasi dimenticata, abbagliato dalla purezza di quella luce vide
sgretolarsi dall’interno la pesante corazza di “normalità” nel quale si era imprigionato
alla quale sfinito dall'esilio della madre, e provato dalla morte del padre, si era arreso
nella speranza di essere amato, ma che rendendosi conto di non poter ricambiare
con onestà, lo spinse a piangere calde lacrime pensando ”Cosa ho fatto?”!
I muri di quella casa divennero trasparenti, permettendogli di vedersi come
dall’esterno di sé stesso, e vedeva un giovane uomo, sconfitto e colpevole della
propria resa, trascinare incatenata, una fanciulla senza parole ma con enormi occhi
celesti supplichevoli e feroci, per un deserto assolato e vuoto, dove all’ orizzonte
svettava un castello, dal quale provenivano suoni di festa nuziale ….in un cammino
di prigionia, vittima entrambi di un inganno chiamato amore,
Il giovane uomo sfoderò ciò che rimaneva di una spada, logorata dal combattimento,
e sferrando un colpo con l’ultima energia vitale rimasta, recise la catena e si accasciò
vicino a lei dicendole “Sei LIBERA, lo siamo tutti, perdonami”.
Tutto cessò in un batter d’occhio, niente più rumori di festa, niente sole
accecante, niente fanciulla, niente giovane, solo un silenzio pacato e una
brezza leggera.
Entrava aria dalla finestra, quando Enrico uscì di casa per non tornare mai più!
Dopo qualche mese, passato da solo, Enrico comprese che per vivere davvero
avrebbe dovuto cambiare città, accettare un rischio, e ritrovare il rispetto di sé,
scegliendo di essere felice fino in fondo, con la semplicità delle persone libere, cioè,
la consapevolezza che noi siamo quel che siamo, non quello che hanno fatto di noi!
Cosa le altre persone di questa storia, abbiano fatto con la propria, dipende da ciò
che nel mio mondo magico si chiama scelta, la stessa con cui tutto è cominciato.
La fanciulla, col tempo scelse di farsi una vera famiglia, e provare ad essere felice,
ma che ne fu della mamma di Enrico? Quale fu la sua scelta, una volta libera?
Si dice, che un'anziana donna guardi ancora la finestra, scrutando il cielo. E’ sola, in
una casa priva d'amore, in compagnia di ombre senz’anima.
Qualcuno dice che sia solita mettere delle briciole del suo pane secco, sul davanzale,
durante l'inverno del suo cuore.
Ed io,……………….beh! semplice, io non esito!
Forse,

1 commento:

  1. Io ho già commentato la prima stesura. Semplicemente....coraggioso e fantastico!
    Marzia

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