venerdì 10 dicembre 2010

"Il certificato" Ge-mi storia banale di un gay speciale, ultimo capitolo




Le case di ringhiera, sono grossi palazzi di solito di pianta quadrata che hanno un cortile in comune, e le cui scale e pianerottoli sono esposti; quindi, per andare da chi sta per ultimo sul pianerottolo devi passare davanti a casa di tutti gli altri. Anticamente in fondo a ciascun ballatoio c'era un solo bagno in comune. Pur non essendo più così, la vita in queste case, ha ancora un che di “comune”, come per esempio la mancanza di privacy.

Andai ad abitare in uno di questi piccoli appartamenti in zona Darsena, con la mia dispotica compagna pelosa, la mia prima casa da “single”!

Essere singolo non mi è mai sembrato particolarmente fico, perché l'indipendenza più vera ce l'avevo già a livello interiore, non mi sembrava quindi una gran conquista viverla, ma solo una logica conseguenza, e continuavo a desiderare un percorso a due.

La casa era piccola ma con un bellissimo pavimento a scacchi bianco e nero e il parquet in camera, certo, se appoggiavo una mano sul lavandino con la lavatrice in funzione, prendevo la scossa, nel cesso non c'era la finestra, e il letto era accostato al muro più freddo della camera, ma a parte questo avevo tutto, anche un armadio!

I miei vicini erano una coppia sposata, di “alternativi”, e una coppia di ragazzi grossi e barbuti, con i quali feci subito amicizia. A casa loro vidi le padelle più grandi mai viste, e compresi che il concetto di dimensioni è davvero relativo, in quanto per loro ero io ad avere i “pentolini” come una bambina che gioca a cucinare.

Per loro divenni “la parrucchiera secca del vano scale” e loro i miei “orsetti del cuore”.

Temendo per la mia salute, mi invitavano spesso a cena e a piccole feste con i loro grossi amici, dove generalmente venivo guardato come un grissino, e cioè stuzzicante ma non abbastanza nutriente, -vedi come si diventa a voler fare le modelle?- mi canzonavano con i loro amici, - quella non è buona neanche per il brodo- ma in qualche modo avevano affetto per me, erano come due fratelloni premurosi.

Se mi vedevano arrivare con qualcuno, dopo un po' suonavano con una scusa, per farmi capire che se ci fossero stati problemi, sarebbero intervenuti, così ci accordammo per un segnale alla porta quando ero “occupato”.

La loro presenza rese le mie avventure più sicure, e mi fece vivere una piacevole sicurezza.

Io, la mercy, e loro eravamo una sorta di famigliola allargata che si sosteneva a vicenda, anche se il mio contributo era decisamente esiguo.

Questa città continuava a mettermi davanti persone carine, a cui potermi rivolgere, mentre mi offriva anche innocenti “evasioni”, e un anonimato leggero, che amavo profondamente. Prendere un caffè al bar Zucca, in fondo a Corso Genova (ironia della sorte), era il mio rito domenicale, insieme al mercato del sabato, e ai fusti del mio locale preferito.

In Associazione, avevo ormai stretto amicizia con una ragazza, che nonostante i suoi modi maschili, aveva un gran cuore, e una collezione di intimo da paura. Lei era la prima donna elettricista che avessi mai conosciuto, ed era buffissimo sentirla parlare dei suoi colleghi maschi, i quali, avevano per lei profondo rispetto. La solitudine che tanto mi aveva angosciato, dopo la mia storia con Claudio, non trovava spazio in agenda, e i momenti di relax che avevo in casa da solo, dovevo quasi lottare per mantenerli.

L'occasione di far coppia fissa, mi capitò più volte in quel periodo, perché ero così felice, che ogni mio gesto risuonava nello spazio intorno a me, come un invito ad una festa, ma declinai gli inviti.

Non ero di certo un amante occasionale “seriale”, perchè anche le mie avventure, conservavano un sapore romantico, che però non andava più in là di una cena, o al massimo di una gita fuori porta, ma ciò nonostante, i miei amanti, non sentendosi pressati dal mio velo nuziale erano di gran lunga più generosi di quelli dei miei amici.

Imparai che l'amore sapeva stupire chi non desidera dargli alcun nome, né addomesticarlo, chi lo persegue con generosità, chi non chiede all'amore di guarirlo, imparai che di amore si muore solo se già malati di dipendenza, e che anche chi si delizia del nostro corpo, celebra in quel momento la perfezione dell'amore fisico, ed in questo compie il suo volere, e cioè quello di dimostrarci che siamo amabili in ogni modo, purché liberi da inutili limitazioni, o sensi di colpa.

Ripensai all'amore ricevuto in cambio di un ruolo da recitare, all' illusione di essere puri tramite la paura di conoscersi davvero, e mi sentii davvero fortunato a poter godere di ogni istante di quella libertà.

La libertà, è il primo dei nostri diritti, ma anche quello a cui più facilmente siamo pronti a rinunciare, in cambio di quella poca cosa che è l'approvazione di coloro che dicono di volere il nostro bene, ma operano per il proprio, a nostra insaputa. Non importa che lo facciano in buona fede, o in completa mancanza di fiducia, ciò che importa è che la paura di restare soli, li spinge a mentire sulle reali condizioni del mondo al di fuori dei confini nei quali desiderano relegarci, e che troppo spesso finiamo per accettare più o meno consapevolmente.

Provate ad immaginare che mondo abitereste, se l'eretico Galileo avesse ubbidito al potere della Chiesa, o se la Maddalena, non avesse fatto la prostituta, se lo stesso Colombo si fosse accontentato di essere un “genovese” come tanti.

No, non è un apologia dei sovvertitori di un ordine, ma una banale considerazione sulla scoperta del “fuori percorso”, un invito a crearsi una mappa più grande di quella già tracciata dalla propria educazione, o dai propri timori.

Cogliere questo invito non comporta più forza di quanta non ce ne metta chiunque a restare infelice, ed immobile, ma di certo nessuna libertà è mai stata conquistata senza prezzo.

Gli anni che seguirono all'ombra del Duomo, mi avrebbero chiarito alcuni di questi costi, per esempio, quello di accorgersi che una volta trovato il proprio equilibrio, nulla è trasgressivo come lo si riteneva, ma solo più creativo, e che la vera “normalità” da cui sembravo escluso, altro non era che la storia banale di un uomo come tanti, che lavora, ama, si prende cura di altri esseri viventi, e non è obbligato ad essere perfetto, un uomo che non ha un passato irreprensibile, ma che smette di sentirsi colpevole di avere voluto di più del “suo bene”, come lo chiamava sua madre.

Togliersi la maschera del bravo figlio, del buon marito, del lavoratore senza aspirazioni, fu doloroso, ma dovevo pur sapere chi ero, dove fosse il mio posto, ma più ancora, quale tra tanti modi di dirsi felice mi rendesse libero di non dimostrarlo a nessun'altro che a me stesso.

Venni al mondo da solo, e sapevo che lo avrei lasciato nello stesso modo, potevo soffrire del fatto che i miei traguardi rendevano mia madre sempre più aspra con me, ma avrei imparato a lasciare anche lei, non con rabbia ma per amore della mia vita.

Con questo sentimento di inestimabile pienezza, che per me profumava di caffé, e di cera da pavimenti, che aveva la morbidezza del pelo felino e il colore acceso dello zafferano, il calore di un corpo come il mio, ritirai il mio primo certificato di residenza, e uscendo dal Comune di via Larga, festeggiai il primo giorno della mia vita, con due panzerotti fumanti dello storico forno Luini.

Uno era per me, e l'altro per l'uomo col quale avrei potuto essere banalmente felice, e dato che ancora non ne conoscevo il nome, li mangiai entrambi.


FINE


domenica 5 dicembre 2010

" La mercy" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 29



Non mi meravigliai del fatto che le mie seguenti relazioni, non durassero, sebbene mi sembrava di crederci ogni volta. I grandi palazzi di Milano, mi guardavano passare sui loro marciapiedi, e sembravano prendersi gioco di me, erano lì da decine di anni e guardando le luci delle loro finestre, scorgevo sprazzi di vita familiare, una vita, che mi faceva sentire ancor più solo, nonostante mi fosse chiaro, che la mia solitudine andava di pari passo col l'eccesso di un qualche bisogno.

Certo, la grande città, poteva inghiottirmi in un sol boccone, dando ragione alle peggiori paure di mia madre, che la considerava la capitale del peccato mortale, ma sapeva anche mostrarmi il suo lato buono, per esempio, la quantità di creatività che vedevo mostrata nelle vetrine di Ticinese, mi incoraggiava a crescere nella mia professione, e l'atmosfera nostalgica dei mercatini sul Naviglio Grande, con i suoi oggetti vecchi, mi spingeva a sorridere e a ricordare le tazze in cui mia nonna mi faceva bere il thè caldo, nei pomeriggi invernali.

Anche il fatto di lavorare in una zona ricca della città, orientava la mia mente a raggiungere degli obbiettivi, a sviluppare il senso delle cose belle, a dare corpo ai miei sogni, cosa che Genova non mi aveva fatto nemmeno supporre di poter ottenere. Come non esserne grato?

Compresi anche che il silenzio del mio appartamento, era un privilegio, ma il letto vuoto, quello non era nemmeno lontanamente sopportabile!

Un giorno, la signora Augusta venne in negozio, per farsi i capelli come ogni settimana, ma tardò di circa mezz'ora, entrando affannata si scusò per un quarto d'ora con la mia titolare, e mentre le facevo lo shampoo, cominciò a spiegarmi il motivo di tale defezione, dicendomi:

“Ero già pronta per uscire e nell'atrio del palazzo, sento un miagolìo, mica vero che c'era una gatta siamese sotto la casella della posta. La custode cercava di cacciarla fuori, e ci sarebbe riuscita se solo non ci fossi stata io, dovevi vederla era così buona, che si è lasciata prendere in braccio e ora è in casa, ma non posso tenerla”, fece una pausa durante la quale seppi dire solo se l'acqua non fosse troppo calda.

Io, di animali ne avevo salvati così tanti, quand'ero un ragazzino, andavo sulla pineta dietro casa nostra, e anche con la pioggia portavo ai piccoli gattini, che la madre aveva abbandonato, del cibo e vecchie pezze di lana, che sistemavo di nascosto nelle baracche abusive dei proprietari degli orti, altrettanto illegali, e a sentire di quella creatura mi vennero le lacrime.

La furba signora Augusta comprese la mia propensione verso di lei, e quindi mi chiese se volevo anche solo vederla, e mezz' ora dopo essere uscita con i suoi capelli a caschetto, pettinati a modino, entrò con un traspotino in negozio.

Credevo che avrei scelto se tenerla o no, ma guardando quella micia stringermi gli occhi, mi resi conto che ero in suo potere, che la parola no, non sarebbe uscita dalla gola, e dissi solo sì.

Rimase, dal mattino ,chiusa nel trasportino in una stanza ripostiglio del negozio, immobile e silenziosa, chissà come doveva essere stanca, pensai, e ogni qualvolta potevo andavo a vederla per farle una carezza, uscendo dalla stanza con il cuore sempre più colmo.

Non sporcò e non mangiò niente per cui, finito il lavoro, corsi con il mio fardello peloso, ad acquistare il necessario per lei, e la portai con me a casa. Di lì a poco avrei dovuto cambiare casa, e temevo di traumatizzarla, ma non potei sopportare che il suo destino non fosse unito al mio.

La gioia di tenerla in braccio quella sera, mi spinse alle lacrime, mentre lei recitava il mantra felino delle fusa, i segno dell'avvenuto accordo fra le nostre anime. Il letto era pieno di pelo, ma caldo di un amore incondizionato, che nessun essere umano mi aveva mai dato prima, scelsi di credere che lei fosse la risposta che poteva esaurire la domanda:

chi mi amerà ora? Chi avrà bisogno di me?

Mercy vuol dire misericordia, e quello divenne il suo nome, perchè mi ricordasse di non esserle ingrato nei giorni avvenire.

La sua coda dritta diede senso alla sveglia del mattino, e al ritorno verso casa, la sera. Come vedete non sempre un altro essere umano, può essere ciò di cui abbiamo davvero bisogno, né oggetti, ma può diventarlo un essere vivente che ci impegniamo a proteggere.

Mi chiesi se forse quell'amare senza riserve non fosse proprio ciò che valesse la pena di provare per qualcun'altro che non fossi io!

venerdì 19 novembre 2010

"il bersaglio mancato" ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 28


Faceva una strana impressione udire il rumore dei miei passi echeggiare per casa, ma non mi faceva sentire triste. In passato, avevo imparato ad abbassare il volume con cui le mie paure, cantavano i loro ritornelli.

Le voci di un dialogo interiore che mi dicevano, non vali niente, o non sarai mai felice, non potevo ancora zittirle, ma ne potevo ridurre i toni, fino ad avvertirle come un brusio, e riuscivo persino a canticchiarci sopra.

Ci sono avvenimenti che terrorizzano alcune persone, ne lasciano indifferenti altre, o sconvolgono irrimediabilmente altri ancora. Possiamo davvero scegliere l'effetto che queste cose ci faranno? Non lo so, ma ricordo bene, che in quanto a sopravvivenza, io avevo un primato.

Riflettevo su questo mentre mi vestivo per andare a lavorare, e ancora su questo continuavo a riflettere, notando le reazioni delle mie amiche e colleghe, una volta raccontato loro l'accaduto.

-quanto mi dispiace!- dicevano, più o meno sinceramente, oppure, - che stronzo in fondo tu non l'avevi tradito, se glielo avessi detto magari- e non finivano la frase. Sì è vero che non l'avevo fatto, ma mi riferivo a me quando gli dissi, che avevo un altro, a quel me che fino a quel giorno era abituato a considerarsi “fortunato”, se qualcuno lo trovava amabile.

Nell'accettare che quella storia finisse, avevo fatto un passo avanti verso una maggiore consapevolezza, quella cioé che la prima persona di cui avrei dovuto innamorarmi fossi proprio io!

Mi regalarono in quei giorni molti libri sull'autostima o sul guarire ma io non ero ammalato, quello che era accaduto, era solo una logica conseguenza di una impreparazione, seppure questo non diminuiva il peso derivante dalla responsabilità di un fallimento.

Mia madre e gran parte del mondo da cui provenivo mi consideravano un “peccatore”, perciò decisi di imprimere a quella parola, che dopo altri epiteti meno virtuosi, molto spesso viene appiccicata a noi omosessuali, un significato costruttivo.

Mi ricordai che peccare significa mancare un bersaglio, ed io il bersaglio dell'unione durevole l'avevo mancato eccome, sia con gli uomini che con l'unica donna che avevo avuto, e dato che i generi disponibili con cui provarci ancora finivano lì, cercai la maniera di migliorare la mira.

Per prima cosa, misi “il mio velo da sposa” in un cassetto del mio cuore e lo chiusi con un lucchetto, poi decisi che il fatto che una persona fosse carina con me, non includesse per forza il sesso, ed in ultimo ogni mattina mi mettevo uno spruzzo di profumo.

-Sai che non sei niente male oggi- mi dicevo a voce alta, mentre mi lavavo i denti, e continuavo con ,-posso offriti un caffè?, Certo, ma non farti strane idee.

Dopo circa un paio di settimane, le voci denigranti del mio dialogo interiore, non trovavano più, lo stesso me ad aspettarle, e non potendo unirsi al coro benevolo, sparirono dalla mia mente.

Nonostante le mie contraddizioni, un'altra cosa in cui avevo successo, erano le relazioni con le persone molto più grandi di me, le quali, erano spesso bendisposte nei miei confronti, a tal punto che dovetti far attenzione a non precisare troppo i miei bisogni, perché venivo inondato di generosità.

Niente male per un peccatore non credete? Scoprii così, che la mancare il bersaglio, e saperlo ammettere, rendeva le persone più disposte ad aiutarti, mentre nel mondo da cui venivo, l'aiuto oltre che condizionato dall'aderenza alle regole, veniva comunque offerto allo scopo di “sentirsi giusti”.

Ricevetti aiuto materiale e morale da madri che non avevano potuto avere un figlio, o da quelle che l'avrebbero voluto come me, da anziane signore con tre giri perle e un passato non sempre irreprensibile, da uomini che forse potevano desiderarmi ma che mi aiutavano proprio dopo che declinavo l'invito, da bambini che mi disegnavano magro, sorridente, e con le forbici in mano!

Si dice che i milanesi hanno il cuore in mano e potei constatarlo di persona.

Uno degli aiuti più importanti che ricevetti fu l'indirizzo di un luogo dove poter seguire un corso di dizione. Lo so che con la crescita personale non sembri averci molto a che fare, né mi ero messo in testa di recitare, ma compresi che la cantilena genovese, non mi rendeva idoneo al futuro che volevo. Il mio desiderio era quello di acquistare la maggior credibilità professionale possibile, e dal momento che la nostra clientela era tutta di altisssimo profilo, ci voleva una vocalità neutra.

Questo percorso mi fece capire che potevo controllare più cose di quante non credessi, e che potevo farlo senza snaturarmi, che nessun destino era impresso nelle mie corde vocali, e mi rese chiaro che il diaframma non era solo un metodo anticoncezionale.

C'è solo un modo per provare a non ripetere gli stessi errori, e cioé, farne di nuovi!

La corsa verso il sentirsi a posto, o peggio ancora verso il considerarsi vittime della malvagità di qualcuno, sono due atti di irresponsabilità, che portano spesso le persone a voler dimenticare chi siano state, o con chi abbiano avuto la banalità di incontrarsi, piacersi ed unirsi infruttuosamente.

Se quelle storie non finissero per mano di uno dei due o degli eventi, quelle stesse persone probabilmente mentirebbero a sé stesse, o accetterebbero menzogne dall'altro, pur di non rimetterci, pur di non vedere sul volto degli altri pena o riprovazione. Ma l'impostura che si crea quando la realtà viene negata in favore di una accettabile "apparenza" non può durare a lungo e si giunge così a rifarsi una vita comunque, odiando tutti coloro che ne abbiano fatto parte, inclusi noi stessi. Alcuni scelgono di "lavare le proprie vesti", tramite conversioni, pentimenti, o sostituzioni dei personaggi ma non della partitura, e per questo passano il tempo, nel timore che gli “aloni”di ciò che erano, ritornino visibili.

Personalmente, pur avendo cambiato città, per favorire il mio cambiamento, e lasciare le ombre passate non dimenticai mai ciò che ero stato, nè custodii gelosamente qualche segreto. Non feci fatica a raccontare chi ero e da dove venivo alle persone che me lo chiedevano, perché la mia "veste" non era bianca per forza, piuttosto era patchwork, ma se non sbaglio, non fu dopo il primo mancato bersaglio della storia dell'uomo, dopo il primo “peccato” che le persone, al di fuori ormai della protezione delle regole, si scoprirono umane, e dovettero cominciare a perdonare e a perdonarsi?



lunedì 15 novembre 2010

La pallonata Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 27


L'insofferenza nei rapporti critici, logora ogni gesto quotidiano o ne rivela soltanto la banalità?

Il senso di unicità delle cose fatte insieme, lo avevamo smarrito insieme?

Ma alla fine che importanza poteva avere?

Seduto su una panchina del Parco delle Basiliche, mi ponevo tutti questi interrogativi, col solo risultato di procurarmi un mal di testa, il vento soffiava leggero, e mi portava il vaggito di un neonato che evidentemente aveva fame.

Pensai, che anche gli amanti hanno piena fiducia che i loro bisogni vengano soddisfatti da una persona che sappia quanto vitale sia quel nutrimento. Bene, come madre ero un disastro, e come amante negavo il nutrimento all'uomo che dicevo di amare. Un colpo di pallone mi scosse dalla mia allucinazione.

  • dannati ragazzini- esclamai, -ma stare un po' attenti no?-.

Eppure avrei dovuto alzarmi e andare a ringraziarli, quei ragazzi, mi avevano reso chiaro quale fosse il vero problema nel mio rapporto.

In realtà, io amavo chi diceva di amarmi. Ecco quindi che, se anche il modo in cui venivo amato fosse stato malsano, io non potevo più non corrisponderlo. Un interruttore nella mia mente, si attivava dopo aver udito la frase “Ti amo”, imponendomi di non gettare via quell'occasione.

Il mio cuore poppante e affamato non si poneva interrogativi sui “propri” sentimenti, ma assolveva alla necessita primaria di “nutrirsi e ringraziare”.

Ma un simile pensiero illuminante avrei mai potuto concepirlo, ai giardini della Doria( giardinetti genovesi attigui al ricovero per anziani)?

Mi alzai e andai al mitico bar Rattazzo, per bere un caffè e brindare frugalmente alla scoperta del mio ennesimo “refuso educativo”.

Non sentii Claudio, per tutto il fine settimana, ma la domenica fu lui a spezzare la cortina gelida che si era instaurata in casa, dicendomi:

  • Hai un'altro?-

  • Sì – risposi, ben sapendo che marco non c'entrava nulla.

  • Cazzo, lo sapevo – rispose saltando dalla sedia, e cominciò ad infilare una serie di domande

sul come, sul quando, ma niente sul perché.

Le reazioni emotive violente non erano una novità per me, a casa dei miei ne avevo viste a bizzeffe, e sapevo mantenermi calmo, sapevo anche, che l'altro non intende ragioni in quel momento sequestrato com'è dalle proprie paure, ma mi chiedevo dove saremo andati a parare. L'atteggiamento minaccioso di quell'uomo non mi spaventava pur non essendo del tutto prevedibile, avevo fiducia che non mi avrebbe fatto del male, ma per non correre rischi gli dissi che sarei uscito.

Scendendo le scale, l'ineffabile Teresa illumino l'occhiolino della porta, e capii che ero pronto per un trasloco.

Quando tornai c'era silenzio, quel silenzio, le ante dell'armadio erano aperte ed una camicia di seta, giaceva afflosciata sul pavimento, come se avesse cercato disperatamente di non essere abbandonata, ma alla fine si fosse arresa. La tirai su, e l'avvicinai al naso, il suo profumo era accennato ma intenso. Strisi quella camicia come avrei dovuto fare col suo proprietario ormai già lontano in autostrada. Un biglietto in cucina diceva “non aspettarmi non tornerò”.

Erano le undici, ma la casa vuota si riempì dell'aroma di un caffè, quando suonò il campanello.

-Sono teresa!- disse una vocina insolitamente garbata.

_ Venga, ho appena fatto il caffé- risposi aprendo la porta come se fosse normale.

To be continued



domenica 7 novembre 2010

c'era una volta la verità! Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 26


E vissero insieme felici e contenti. Così finiscono le favole, perché a nessuno interessa cosa biancaneve pensasse delle uscite del principe, o perchè La Bella avesse bisogno di dormire così tanto.

Immaginare di vivere, con lui, era stato lo sforzo di immaginazione maggiore che avessi mai fatto, figuriamoci se ero in grado anche di immaginare il dopo. Io non avevo nessuna fiducia che sarei stato amato e scelto per un percorso di lunga durata, quindi il massimo punto che sapevo immaginare, era quello dove ero già arrivato!

E dopo?

Mi ero fatto l'idea, che fossimo una coppia, qualcosa di durevole per definizione. Ma “definire” qualcosa non significa forse renderla somigliante a un modello?

Senza neanche accorgermene, io mi trovavo a perseguire i miei interessi, a disporre del tempo per farlo liberamente, e a considerare le proteste del mio uomo, come “limitazioni”. A rendere quella coppia, sempre più simile a quella dei miei genitori, che proseguivano paralleli i propri percorsi, incrociandoli sempre meno.

-Ma se non capisce il tuo impegno allora, non ti ama abbastanza- dicevano le mie amiche, chissà se anche quelle di mia madre, glielo dicevano?

La reazione del mio uomo, alla nuova realtà, mi era meno sopportabile di giorno in giorno. Se tardavo, mi riempiva di chiamate, e una volta a casa mi teneva il muso.

Cosa mi impediva di abbracciarlo e comprendere la sua paura? Semplice, la mia paura me lo impediva, la paura che mi chiedesse di rinunciare a qualcosa per lui, in sostanza, l'egoismo.

Lo stesso forse, che mi aveva spinto a trovarlo, per relizzare il mio desiderio di fuga da Genova.

E' doloroso notare come quei gesti, quelle quotidianità, che abbiamo tanto amato, diventino intollerabili , quando ci dividiamo emotivamente da colui o colei che abbiamo amato.

Voltati ognuno verso il proprio lato della stanza, i pensieri diventavano macigni, gli spostamenti reciproci, nel letto, scossoni, e il solo sfiorarsi, una violazione di campo.

Quanto a lungo può durare un simile stillicidio? Dipende solo dall'onestà dei diretti interessati, ma nel nostro caso, forse il più classico, andò avanti un mese circa.

Non presi mai, l'iniziativa nel mettermi in discussione, occupato com'ero, a schiacciare lui nelle sue evidenti colpe, con la crudeltà di chi è amato troppo. Né lui riusciva a chiedermi aiuto, occupato com'era a dichiarare i suoi diritti, con la disperazione di chi è messo da parte.

Ma negli occhi di Marco, seduto vicino a me in associazione, non c'era paura, ma desiderio, ed io ridevo troppo, senza nemmeno rendermene conto!

Sì la più banale delle verità umane si preparava ad entrare in scena un'altra volta! Come una vedette consumata, si affacciava sul palcoscenico del mio cuore, riempiendomi di lusinghe ammiccanti, e promettendomi felicità impensabili, mi vendeva la sua misera merce a “peso d'oro”.

Lei, la menzogna, spazzò via i resti della mia dignità, quando accettai che Marco mi accompagnasse a casa.

- com'è andata?- mi chiese Claudio appena entrato in casa.

Ironia della sorte o sesto senso?

- come al solito, niente di speciale- fu la mia risposta.

- Questo fine settimana vado giù dai miei, vieni anche tu?- mi chiese Claudio, e nonostante una vocina mi dicesse di seguirlo, di accettare quella mano tesa, le mie labbra si chiusero in una smorfia.

- No, non mi va-

La mattina dopo mi svegliai perché l'altro lato del letto era vuoto, erano le otto e mezzo, e Claudio era già partito, senza svegliarmi come faceva di solito. Nonostante il mio cuore sapesse che era finita, non potevo non provare una certa amarezza, ma la vita mi aveva insegnato a non voltarmi indietro, e così mi preparai per uscire.

La città dei miei sogni mi sorrideva, e capii che quello era il mio vero grande amore!

to be continued.




To be continued.



giovedì 28 ottobre 2010

"nuvole scure" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 25




Non diedi mai per scontata l'assunzione, ma mi impegnai affinchè non avessero scelta e mi assumessero. Intanto Claudio aveva finito la scuola di trucco ed effetti speciali, e pur preparandosi per l'esame, si cercò un lavoro.

Al contrario di me, lui si sentiva fiero di lavorare per uno dei Jean francesi che invadevano Milano, parole come “ovalage”, ed “effilage” divennero subito parte del suo nuovo vocbolario, e forse soddisfò così il suo bisogno di elitè.

Ci rendemmo conto che la condizione di stabilità raggiunta con il lavoro, ci imponeva di non approfittare più dell'appoggio della Mari, e della sua casa, quindi, decidemmo di cercarci un appartamento in città e nonostante la casa della mari, fosse già arredata, era molto comoda e grande e mi dispiaque molto lasciarla.

Avevo sparso la voce tra le clienti, e una di loro ci propose un suo appartamento, che sebbene fosse impegnativo a livello economico, ci convinse.

Se a Novara, i vicini erano schivi e sospettosi, a Milano, ne incontrammo subito una di tutt'altra pasta. Lei, abitava sotto il nostro appartamento, e una sera, mentre ero lì a pulire suonò alla porta!

- chi è?- chiesi, - Sono la Teresa rispose. La voce non era giovane, ed appariva enorme vista dallo spioncino. Aprii la porta ma non del tutto, e la signora teneva in mano un piatto di pasta, ed era proprio come l'avevo vista!

- Hai mangiato?- disse, intronducendo la testa in casa, e aggiunse, - Guarda che sono pulita- .

Non potei impedirle di entrare, data la gentilezza, e compresi che aveva una gran voglia di vedere la casa.

-Sto pulendo, prima di traslocare, e non ho molto da offrirle, ma prego si accomodi!-.

Teresa non era di milano, non più di me diciamo, e in un quarto d'ora mi aggiornò su molte cose che non avrei dovuto sapere sui proprietari, inoltre mi chiese della mia “ragazza”, - Si chiama Claudio, e lo conoscerà presto- annunciai convinto di vederla saltare dalla sedia in cerca dell'uscita, macchè! La Teresa mi confessò che quelli come me, gli uomini-sessuali, lei li aveva già conosciuti in calabria, e che a parte le malattie non aveva “pregiudizi”.

Quali malattie?

- Ai miei tempi, ci si chiaffava su la spirina(spirale), ma oggi c'è quella malattia, come si chiama? Ah sì l'AGS!-.

- Ah, capisco”, le dissi, “L'AIDS, beh! Diciamo che mi basta l'influenza di tanto in tanto-, e lei versai il secondo bicchiere di rosso, bella rubiconda e felice mi lasciò ai miei pensieri.

Era chiaro, che avrebbe tenuto un diario dei nostri orari, della posta ricevuta, e probabilmente della nostra attività sessuale, e data la rumorosità di Claudio, avrei dovuto informarlo o mettergli un silenziatore, comunque, la scelta di quella casa era giusta, e lo capii dagli avvenimenti che si susseguirono. La mia assunzione fu confermata, e alcune clienti cominciarono a chiedere di me!

Claudio, trasformò la nostra camera in un officina, il bagno in un laboratorio, e il soggiorno in uno studio fotografico, per affrontare l'esame, mentre io ero di nuovo alle prese con le tende da cambiare, la teresa, cominciò a farci visita con “regolarità” e decisi che data l'ora che sceglieva, era arrivato il momento di passare dal rosso alla grappa.

- Dobbiamo fare qualcosa amore, questa non molla, e io ho paura che un giorno dormiremo in tre!- osservai col mio fidanzato, - In effetti, una notte a tre, potrebbe starci- disse lui.

- Non puoi scherzare su tutto Claudio, quello che ci vuole è darle un compito, qualcosa che la tenga occupata, ma cosa?-

- Perché non proviamo a fare un figlio.....così farà la nonna!- sussurrò avvicinandosi.

Il sesso, e le manie di grandezza, completavano l'orizzonte del mio uomo, e mi chiedevo se quello, non fosse un cielo troppo piccolo per volare davvero, certo, data la stabilità raggiunta, avremmo dovuto considerare completo il quadretto che avevamo sognato sotto la vigna di casa sua in Liguria, eppure ora io ero “a Milano”, non vicino, ma proprio lì, e questo quadretto mi andava già stretto. Mi resi conto, ad esempio, che non avevamo amici, e che era l'ora di farsene alcuni. “Farsi “nuovi amici nel mondo gay non è difficile, e non per la nostra disposizione all'amicizia. Ma io cercavo amici con cui fare una cena, vedere un film, o andare a ballare, e Claudio non sembrava averne bisogno. Considerai questa differenza tra noi, un'impurità virile nella sua attitudine gay, ma non volli darci peso, certo potevo invitare le colleghe, ma erano tutte fidanzate, come me, cosa potevamo scambiarci, le ricette?

Decisi, quindi di fare volontariato. Mi dissi “Se trovo un associazione che mi piace troverò persone con cui fare delle cose, e da cosa nasce cosa”,e quando annuciai al mio compagno, la mia decisione di attività sociale, speravo ne fosse entusiasta, ma invece si rabbuiò. Avevo imparato da lui la tecnica della decisione imposta, e quindi ero convinto che avrebbe capito. Quella sera non fu carino con me, per la prima volta, e anche a questo non diedi peso.

In associazione si parlava di cose serie, come sieropositività, terapie, sensibilizzazione dell'opinione pubblica, e prospettive di vita, sebbene la mia preparazione in materia fosse pressoché nulla, le ragazze e i ragazzi presenti, seppero mettermi a mio agio, e la prima sorpresa, fu comprendere che le persone sieropositive erano come le altre. Alte, magre o basse non avevano segni visibili della propria condizione, e invece di mettermi ansietà, questo fatto, mi rassicurò. Non ero preoccupato di averci a che fare, come lo erano in molti, solo mi preoccupavo di avere una faccia stupida, pietosa, o comnque inadeguata, nel caso ne avessi incontrato una persona malata. Collaborai da subito con una ragazza decisamente sovrappeso, che era responsabile dei banchetti informativi, con la quale fu facile diventare amici, e una sera, durante un aperitivo mi disse:

- il tuo impegno in associazione è molto incoraggiante, parli con tutti, stringi le nostre mani, e ci hai abbracciato in silenzio, quando alcuni di noi se ne sono andati, voglio dirti grazie-.

Rimasi sbalordito e piangendo compresi che il momento tanto temuto, il confronto al quale, non mi sentivo pronto, era già accaduto, ed era stato facile come un abbraccio. Quella ragazza nonostante il suo aspetto florido, morì l'inverno dopo di polmonite. La stessa polmonite che io avevo superato tante volte.

Ero felice, di conoscere nuove persone, e di avere un lavoro ed un compagno, ma non sono mai stato bravo con l'equilibrio. In questa cosa ci avevo messo tutto me stesso, e spesso le sere c'erano da fare i banchetti informativi, e ora che lei non c'era più, la responsabilità fu affidata a me, quindi spesso non tornavo per cena, ma una volta a casa, ero allegro, e con molte cose da raccontare, ad un uomo che invece, diventava ogni giorno più triste...

Il cielo della mia relazione, si annuvolava.


To be continued


martedì 12 ottobre 2010

"l'ora x" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap24


Il treno di ritorno da Genova, era sempre affollato, ma scorgere la pesante struttura metallica della Stazione Centrale era un vero sollievo per me! Le visite alla mia genitrice, mi lasciavano sempre spossato, a causa della finzione a cui, mio malgrado mi assoggettavo!

Arrivavo lì con una pianta o con qualcosa di nuovo, per rallegrarla un po'. Aveva cominciato a collezionare bambole, e gliene comprai di molto belle, con graziosi vestitini bucolici, o retrò. Ripensavo sempre a Rosaria, quando le compravo, e al nostro atelier segreto, l'unico momento in cui avessi avvertito di esserle “intimo”. Sorrideva nel vederle seppure poco, mentre la nonna Verdina, le chiedeva per la centesima volta che giorno fosse!

Già, perché la “samaritana seriale” aveva portato a termine il suo piano, trasferendosi a casa di mia nonna, con la scusa della necessità di non lasciarla “sola”. La Verdina era vedova da anni, e da sola ci stava benone, ma lo stesso non poteva dirsi della Maria Luisa!

Ogni tanto mia mamma, che per trasferirsi lì aveva disfatto mezza casa alla nonna, la beccava al telefono con una delle sue sorelle, “La Maria, ...mi tratta male, mi ha buttato via la credenza...” bisbigliava come una sequestrata, cambiando subito in “Ahhhh se non ci fosse lei!!” non appena mia mamma la sorprendeva!

In questo polpettone emotivo, arrivavo io in visita, con i miei regali inutili infiocchettati di sensi di colpa. Non avevo rimpianti, poiché è impagabile vivere davvero, tuttavia, sapevo di non fare molto per loro, e sentivo la disapprovazione tra i denti insieme alle pietanze.

Vedere mia madre cucinare, nella cucina del mio matrimonio, era la cosa più triste da sopportare, non tanto perché finisse di pagarla, ma per come lo faceva. Piccole pentole senza amore contenevano improbabili perizie gastronomiche, che nel piatto, cadevano affrante come noi, quasi senza profumo, e venivano consumate sbrigativamente insieme alla nostra scarsa confidenza.

“come và il lavoro?” mi chiedeva,

“bene” rispondevo, da disoccupato.

Seguiva qualche racconto che la Maria, faceva per riportarmi al passato. “Sai che ho visto la Miriam qualche giorno fa, era così triste...” Ingoiavo l'involtino chiedendomi “ E cosa posso farci?”.

Dopo pranzo, si guardava la televisione, per non parlare fino all'ora X.

L'ora X era quella che scattava, quando la pantomima aveva raggiunto un qualche livello di guardia per mia madre, forse, dopo aver appurato che stavo bene, le saliva anche un po' di rabbia, o un senso di impotenza che esprimeva dicendomi:

“ Vabbè, ti conviene andare che se no perdi il treno!”

“ma ce l'ho tra due ore, mamma”- replicavo debolmente.

“Eh, magari prendi quello prima, così non arrivi tardi”- suggeriva, io mi alzavo, staccavo il caricatore del cellulare, che mi ero finalmente comprato, salutavo, e una volta nell'ascensore, tiravo giù il pacchetto di sigarette, che avevo nascosto nel cornicione della plafoniera, e girata la curva che le nascondeva la visuale (il saluto dal balcone era d'obbligo), me ne accendevo una.

Nel recarmi alla stazione guardavo i miei concittadini, sui mezzi pubblici, e li trovavo così sciatti e rassegnati, che mi meravigliavo di non essermene mai accorto prima. La città, mostrava al mare la sua faccia più bella, e a me le schifezze del sottopassaggio S.Agata!

E' incredibile come una realtà non più condivisa, fatta di persone e cose, mostri in quel momento la sua sgradevolezza “reale”. Come un abito, che hai sempre indossato con noncuranza, o abitudine, improvvisamente divenga obsoleto persino a te stesso, e ti spinga a chiederti “ma come ho potuto indossarlo per così tanto tempo?” Certo anche a Milano, c'erano persone sciatte, ma non erano la maggior parte. All'ombra del Duomo, le persone sentivano il dovere di mostrare la propria appartenenza alla città della moda italiana, mentre sotto la Lanterna, sentivano di doverne fare a meno.

Povera Agata, santa di un sottopassaggio sudicio, dove i tossici ti chiedevano cento lire! Forse, era la santa delle cause perse, ma quello non era Giuda? No, lui è il santo degli spiccioli! Allora forse sant'Agata è la santa dei pertugi, mah!

Il treno strideva le sue ruote di metallo sui consunti binari, mentre le facce dei milanesi indaffarati riempivano la banchina, e io ripensavo al mio fortuito colloquio.

Il negozio era in una piccola traversa del grande viale D'Este, a fianco ad un salumiere, l'ultimo baluardo contro la grande distribuzione, dove un rubicondo signore francese e la moglie vendevano puzzolenti formaggi alle ricche signore di zona.

Il negozio era piccolo, tutto sommato, ma arredato con sfarzi di radica e mogano laccato. Una grande torre esagonale dominava la stanza, e grandi specchi e vetri a mosaico, ne ampliavano la grandezza. Oltre la titolare altre due ragazze si muovevano indaffarate, e io, le osservavo in attesa di parlare con lei. Mi sorridevano, e i loro modi erano più rilassati di quelli dei lavoranti dei Jean francesi

Anche la clientela era piacevole e di tutte le età, bambini, signore anziane elegantissime, giovani mogli e professionisti/e. Ero eccitatissimo e pregavo il cielo che mi prendessero, infatti dopo poche parole con la signora Grazia, ottenni la mia settimana di prova!

Col mio cellulare chiamai subito mia madre, perché finalmente avevo una bella notizia da darle.

“Pronto mamma, ho un vero lavoro!” esclamai affannato dall'emozione.

“Beh, ti è sempre andata bene”.

To be continued

domenica 10 ottobre 2010

"una mela al giorno, te la toglie, l'anima gemella di torno?" - Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 23


L'anima gemella, si dice debba essere cercata, dando per scontato che ve ne sia una disponibile per tutti, ma sarà vero? Con quali strumenti la riconosceremo?

Questa leggenda, viene tramandata insieme alle malattie genetiche, di eguale pericolosità, di madre in figlia, di madre in figlio gay! Nel primo caso, la figlia sogna il principe azzurro, nel secondo il figlio sogna il principe palestrato. Ecco perché gli eterosessuali maschi, di solito, non sviluppano interesse nell'aspetto fisico. Essi infatti, sanno sin da piccoli che una stupida principessa bionda, tenuta a dieta da una grassa madre, aspetta che si dichiari come azzurro, per concedersi a lui in moglie! Capite? Lui non ha bisogno di essere bello e in forma, in quanto azzurro per nascita.

Una volta trovata la sua anima gemella, la principessa diventa serva e l'azzurro diventa polvere. Lei rimarrà legata a lui, e alla prole, lui rimarrà legato a chiunque ma di nascosto.


Nel secondo caso, invece, il figlio magro, sogna un corpo da favola come il suo, ma con una faccia e delle mani che non siano le sue! Non avendo recuperato dalle favole un ruolo preciso, il modello di appartenenza, risulta difficilmente ricalcabile. Potrebbe diventare principessa, principe, rospo, o fatina, e nel dubbio diventa drag queen, che incorpora tutte le favole in un unico corpo altrettanto favoloso! Non potendo aspettare che un azzurro si dichiari, lo cerca ben prima delle stupide principesse bionde, ed in alcuni casi, continua a farlo per il resto della vita. Non che non ne trovi uno, ma pazza di gioia, e con un certo amore per le feste, adora rimettere il film indietro, alla prima scena. Quella in cui una principessa chiusa in una torre a forma di UOMO, lancia bigliettini allo stalliere con su scritto “ ti adoro quando sudi”...ruba la chiave del mio cuore e aprimi!

La Porta!!!! che avete capito????

Una certa promiscuità, ci viene riconosciuta da sempre, anche se io ricordo benissimo l'andirivieni eterosessuale nel vano scale degli uffici della Regione Liguria. Mi chiedevo infatti, quale fosse la necessità di una coppia sposata, nel fare sesso sulle scale del posto di lavoro.

Comunque, il “nostro” bisogno ostinato di convolare a giuste nozze, temo abbia più a che vedere con la sfida, che con la necessità. Desideriamo profondamente, ottenere l'oggetto del nostro desiderio, come dimostrazione della nostra desiderabilità. E una volta ottenuta conferma, la passione bruciante riduce in cenere Bacco Venere, e aggiungerei anche Cupido al romantico falò!

Se ci penso bene, non ce la vedo tutta questa differenza tra noi e le coppie cosiddette normali, e se ho ragione, se attraverso strade diverse si può giungere al medesimo risultato, eccetto per i figli, non è che c'è qualcosa che non va nell'assunto iniziale di “anima gemella”?

Forse, il fatto che sia gemella indica una certa familiarità, la facilità con cui riconoscerla attraverso la sensazione di averla già vista o conosciuta., ma la psicologia moderna ci ha reso noto che proprio quella familiarità, può essere un campanello d'allarme, a seconda del proprio vissuto, o quantomeno, il meccanismo attraverso il quale evitiamo di confrontarci con l'altro, con ciò che è davvero diverso da noi o dai nostri familiari. Pur credendo di dare inizio ad un nuovo percorso, molto più facilmente, con la logica dell'anima gemella, finiamo per replicare una scena della nostra vita dalla quale non siamo usciti sufficientemente vincenti, per modificarne il finale!

Io personalmente, ero uscito sconfitto dalla lotta per essere “riconosciuto” amabile, e non desideravo consciamente un altra possibilità, cionondimeno era possibile che corressi il rischio.

Era possibile che ...pur non volendolo rimanessi attratto da qualcuno che compensasse la mia mancanza, magari fin troppo!

L'esagerazione è un'altra caratteristica che ci viene associata, ma che condividiamo con l'universo femminile. Avrei potuto rimanere attratto da uno che fingeva di volermi, come anche, da uno che mi voleva senza deroghe, nello stesso modo?

Lo avrei di certo scoperto, come tutte le principesse, che diventano serve indesiderate o desiderate “da morire”, quando invece di sentirsi attratte da un uomo del tutto nuovo, si attaccano al più azzurro dei principi rospi.

Da quando Eva mangiò la mela gli uomini e le donne vanno in cerca dell'altra metà, per ricongiungere il frutto. Ma la prima coppia, ci hanno insegnato essere non proprio ben riuscita, non credete? Eppure che siate principesse o gay , tutti noi non ci esimiamo dal lieto fine. Leggevo il giornale mentre riflettevo su questo argomento e l'occhio mi cadde su un inserzione: “cercasi Apprendista parrucchiere o lavorante finito per assunzione immediata”. Mi parve un miracolo, e chiamai subito “New Fashion buongiorno!” rispose una voce femminile, “buongiorno, ho letto il vostro annuncio e vorrei conoscerla prima possibile, posso venire subito?”- “Certo” e mi diede l'indirizzo.

La linea gialla era affollata, forse di anime gemelle, che invece di cercarsi, si scontravano facendo cadere mezze mele ovunque, e sapete che c'è? Nessuno si affannava a raccoglierle!

To be continued!

giovedì 7 ottobre 2010

"Il piumone" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 22


I traslochi sono iscritti al secondo posto, nella lista degli eventi più stressanti della vita, subito dopo la perdita di una persona cara. E a mio avviso giustamente! Per nostra fortuna la casa della mari nei pressi di Novara, era completamente arredata, quindi la macchina era colma solo dei nostri vestiti e piccoli oggetti personali.

Ci andammo d'inverno, lasciando il vento per la nebbia. Avrei preferito avere un cane con quel nome, come Heidi, ma Claudio non era proprio Peter, e le caprette non ci fecero ciao, forse qualche cinghiale grugnì ma non lo sentimmo!

Cosa fa un gay “perbene” quando entra in una nuova casa?

Semplice, compra delle tendine nuove e sposta i mobili esattamente come fanno le donne!

La rigidità di quell'inverno non sembrava di buon auspicio, ma come tutte le coppie fresche di storia, sapevamo prendere i suoi lati positivi, come quello di dormire nudi sotto un caldissimo piumone. Dopo qualche anno, sapevamo che le cose si sarebbero invertite, avremo quindi dormito ben coperti da orrendi pigiami felpati, lamentandoci “Non fanno più i piumoni di una volta!” - “Ti ricordi come tenevano caldo?”-” ma no! Ma cosa dici? Non ce l'avevamo il piumone” - “si vabbè, ricordati la pastiglia della pressione”!- “ anch'io ti voglio bene!”

La vita domestica era un po' noiosa, perché Claudio si recava a Milano in macchina ed io restavo a casa, dato che un lavoro non ce l'avevo ancora. Eppure per qualche assurdo motivo, mi sentivo felice nell'andare a fare la spesa nel preparargli la cena, o pulire la casa, nel fare quelle cose che dopo molti anni, avrei lietamente pagato qualcun altro perché se ne occupasse al posto mio.

La sindrome della “mogliettina anni 50” mi rendeva così. La mia casa aveva molte stanze, e organizzammo persino una stanzetta come guardaroba con uno stand con le ruote come quello dei negozi. La mari sarebbe venuta a trovarci nel fine settimana, per controllare come ci eravamo sistemati, ed anche per rendere noto ai vicini, che non eravamo occupanti “abusivi”.

Talvolta però, accompagnavo il mio “moglio” a Milano, per cercarmi un lavoro. Avevo diviso la città per zone e fermate della metro, e setacciavo tutti i negozi di parrucchieri, del rione vicino alla fermata. I negozi erano moltissimi, e pensai che i milanesi avevano coi capelli, il rapporto che noi genovesi avevamo con la focaccia, e cioè di “irrinunciabilità”. Cappuccino, piega e brioches?

Le persone nella metro correvano come fossero un sol uomo, e la mattina potevo capirlo, ma alle due del pomeriggio, dove diavolo dovevano andare così in fretta? Nella mia Genova la gente correva per non perdere l'autobus, o per lo sconto del formaggiaio, ma a Milano la gente correva per spendere cifre astronomiche nei negozi, o per raggiungere dei tappeti nelle palestre, dove continuare a correre a pagamento, o per fare una piega “al volo”.

Non avevo mai sentito, questo termine, perché le genovesi, dal parrucchiere, di volare non avevano voglia, visto che pagavano, e la piega doveva “durare”, ma la sentii mentre aspettavo di parlare al titolare di una catena di negozi presenti in tutta la città. I lavoranti avevano divise uguali e molto simili a quelle dei camerieri, e non volava una mosca. Mi lanciavano occhiate furtive, forse innervositi dalla mia concorrenza? O l'arancione non mi donava? Io sorridevo come una ragazza sorride ad una cena di affari( l'avevo visto in un film), di cui non sa nulla, ma a furia di sorridere cominciavo a sentirmi come una annunciatrice a cui non parte il servizio!

In quegli anni, l'avanzata delle catene francesi di parrucchieri era inarrestabile, altisonanti nomi lunghissimi preceduti tutti da un Jean. Jean questo, jean quello, spuntavano come funghi o come baguettes, e proponevano linee realizzate con le macchinette al posto delle forbici. Povera Maria Luisa, con tutti i soldi che aveva speso perché potessi tenere le forbici in mano!

Comunque non ero particolarmente nervoso, circa l'idea di trovarmi un lavoro, forse perché convinto di essere nel posto giusto, un luogo pieno di possibilità, e questa convinzione la sentivo fisicamente, localizzata. Mi dava respiro e felicità, e mi sentivo grato per ogni no, che ricevevo, perché quei no, lasciavano spazio all'unico sì, di cui avevo bisogno.

Per tutto l'inverno cominciai a lavorare saltuariamente qua e la, ma nessuno mi voleva fare un contratto regolare, e quindi dopo poco mi lasciavano a spasso.

Facemmo molti sacrifici io e Claudio ma continuavamo a sentirci fortunati, anche quando il tubetto del dentifricio non era spremuto bene, secondo il gusto di ciascuno, o la cena era immangiabile.

Come tutte le famiglie senza televisione, ci “scaldavamo” un bel po' e avevamo imparato a parlarci e a ballare coi tacchi nel salone di casa!!!

to be continued

martedì 28 settembre 2010

"il dilemma" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap21


La mimosa cresceva spontanea nella pineta dietro la casa dov'ero cresciuto, insieme alle ginestre, anch'esse gialle ma profumatissime..Le decisioni in merito alla partenza erano prese. Io dovevo lasciare l'appartamento, e comunicai la disdetta del contratto di affitto. Non ricordo come lo dissi a mia madre, forse seguii il metodo claudiano dell'imposizione di realtà! La tanto odiata cucina, finì in un magazzino se ben ricordo,o dissi che non potevo portarla dietro, la camera da letto rimase lì, in quanto mi era stata regalata dalla vicina dei miei, che di certo non la voleva indietro, l'attaccapanni in foglia d'argento lo diedi a mio fratello per sdebitarmi almeno in parte del suo aiuto.

L'idea di non avere nulla, non mi deprimeva, anzi mi dava un senso di leggerezza. Forse non c'è molto che puoi avere se non sei nel posto giusto per te, quindi sarebbe stato ragionevole aspettarsi di meglio dal futuro e viaggiare “leggeri”. A casa di Claudio, le cose erano meno facili, in quanto lui dovette chiudere l'attività per trasferirsi e ciò addolorò non poco i suoi, che l'avevano tanto aiutato ad aprirla. Inoltre, nonostante la sua turbolenza, la vita di quelle persone non aveva conosciuto allegria più grande che vederlo crescere. Lui lasciava quella casa in un silenzio angosciante, mentre io lasciavo il silenzio angosciante “a casa.”.

Ogni tanto andavo a casa dei miei, e comprendevo il frastuono del silenzio che vi si era insediato dopo la scomparsa di mio padre e la mia uscita. La stanzetta dove avevo giocato da bambino, era ormai vuota, il giardino aveva meno voglia di fiorire, e nei corridoi, l'eco dei litigi sibilava a bassa voce, la mia stessa mamma, sembrava piccola lì dentro da sola. La sua preoccupazione per la nonna cresceva di giorno in giorno, e credo fosse diventata una necessità. un pensiero necessario alla sua sopravvivenza, forse, o il modo per rendere la sopravvivenza stessa più accettabile. La morte di papà mi aveva colto quasi di sorpresa, mentre ero al lavoro. Venni avvisato dell'accaduto al telefono, e mi precipitai a casa dove regnava il caos. Se n'era andato nella sua camera, la stessa, dove lei continuava a sentirlo respirare, e rimase in casa per tre giorni, per un problema di ”orario del decesso”. Qualche giorno prima sembrava stare meglio, e si fece tagliare i capelli, in giardino. Mentre glieli tagliavo, gli vedevo gli “undici”( i nervi posteriori al collo resi evidenti dalla magrezza). E mi ricordai di un film, che sosteneva che, la visibilità degli undici, era un segno di prossimità alla morte. Tagliavo i suoi capelli ricci, e speravo che fosse stato solo un film idiota, ma mi sbagliavo. La cosa veramente idiota, era la pantomima che si era creata, cioè, il fingere che nessuno sapesse la verità, circa le sue condizioni. Non so chi la cominciò per primo, ma ci finimmo dentro tutti! Tutti perdemmo la possibilità di dire ciò che valeva la pena di esser detto: “ ti voglio bene, scusami, per favore perdonami, e grazie.

Compresi che mio padre, era come quella piccola pietra a cuneo che sostiene i ponti o le navate, “la chiave di volta”! Apparentemente sembra solo una decorazione, ma in realtà i pesanti archivolti, contano su di lei per “scaricare” il proprio peso, ed essa da sola, garantisce la funzionalità strutturale dell'intero edificio. Vincenzo, era un uomo retto, e onesto con un senso della famiglia molto sviluppato. Da ragazzo i suoi occhi verde bottiglia facevano strage di cuori femminili, ma solo una donna divenne sua moglie, la Maria Luisa. Lei era talmente timida e inibita, che non si fece lusingare dalle attenzioni del “maliardo” e forse per questa sua coriacea rigidità, suscito in lui il desiderio di conquista! Le due famiglie non conciliavano, e la mia nonna materna, non vedeva di buon occhio quell'unione o così mi aveva raccontato mia madre, ma la Maria Luisa non si fece condizionare, evidentemente, e lo sposò all'età di 21 anni. Non ebbero la gioia di generare figli propri, e questo cambiò la maria luisa, per sempre, la fece sentire “anormale”, e questo, divenne poi un grosso ostacolo. Convinse il Vincenzo ad avviare le pratiche per l'adozione, e dico convinse, perché mio padre era perplesso circa l'avere figli “non suoi”. La sua onestà lo spingeva a chiedersi se fosse capace di amarli come se lo fossero, mentre l'ansia della maria di essere “normalizzata”, la spingeva a non desiderare altro. Il suo amore per lei, lo spinse a sopportare umilianti esami, per verificare le cause della sterilità, che però li condussero ad altre domande ancora. Apparentemente nessuno dei due pareva, secondo le conoscenze mediche di allora, incapace a livello fisico, ma la natura ha un bizzarro modo di esprimersi, e dovettero rassegnarsi a non avere risposte certe.

Gli orfanotrofi allora dichiaravano adottabili molti bambini italiani e piccoli d'età, forse a causa dell'amore libero degli anni settanta, e loro si recavano in questo Istituto con cadenze regolari.

I bambini nelle corsie, chiamavano “mamma” ogni signora in visita, e la Maria, non dimenticò mai quelle voci. Il sistema prevedeva che i genitori adottivi si recassero all'istituto con dei giochi, e che stessero qualche ora con tutti i bambini, mentre le operatrici cercavano di intuire quale bambino fosse più incline ad avvicinarglisi. L'iniquo metodo impediva ai piccoli più traumatizzati di avere una chance, ma la giustizia aveva la bilancia rotta, se qualcuno li aveva abbandonati, e questo era il meglio possibile per allora. Finita la visita, seguivano i colloqui, e veniva fissata la visita successiva.

Non so dopo quanto tempo, i miei, furono considerati “pronti” per il primo figlio, ma so che, mio fratello aveva tre anni quando tornò a casa con loro. Io, dovetti aspettare altri tre anni.

Che i miei genitori fossero buoni ero certo, poiché io in una delle loro visite, mi addormentai in braccio alla maria luisa, e così divenni suo figlio.

Mio padre litigò bruscamente con la direttrice dell'orfanotrofio, la quale tergiversava sulle mie condizioni di salute. Avevo i bronchi conciatelli, e uno dei miei piedi voleva indossare le scarpette con la punta di gesso. Piede equino, fu la diagnosi dell'ortopedico, risolvibile con un intervento verso gli otto anni. Io speravo che mi avrebbero fatto a punta anche l'altro e che sarei diventato una ballerina famosa, ma invece mi toccarono le scarpette ortopediche basse.

Diventammo così una famiglia “normale”!

Nel salotto di casa, il divano di mio padre, era occupato da Lillo, il gatto siamese, che mio padre adorava. “sta lì tutto il giorno” mi diceva mia madre, “se lo prendo lui miagola e torna lì ad aspettare...”. Presi ciò che dovevo prendere abbastanza in fretta, in modo da non scoppiare a piangere, mentre mia madre con i gesti di un automa, metteva tutto in una borsa. La baciai e le dissi di non preoccuparsi, che mi sarei fermato a Novara solo per un po', ma mentii e lei lo sapeva.

Quando chiusi lo sportello della macchina di Claudio, che mi aveva aspettato giù , lei era alla finestra, come quando mi fischiava per tornare a casa, ma non fischiò, anzi, sventolò una mano senza forza e io feci altrettanto.

La scomparsa della nostra chiave di volta, fece crollare le architravi della finzione e oguno di noi, a modo suo, mostrò di che qualità fosse fatto davvero.

Mio fratello, era sposato, e prese per primo la distanza da noi, cercò di dimenticarsi da dove veniva, e ci riuscì perfettamente. Mia madre, cominciava a realizzare le sue colpe, e l'inutilità di una scelta, che al tempo in cui venne fatta, dovette sembrarle la migliore possibile. Io, cosciente del rischio di “riscrittura” della propria storia, la congelai dentro di me, e girai la pagina non senza un pizzico di egoismo.

Portai con me la gratitudine e il perdono, ma non pensai un solo minuto di tornare indietro, mentre Claudio sensibile com'era mi prese la mano e la poggiò sulla sua gamba, ricoprendola con la sua. In silenzio. Le persone lasciano o vengono lasciate in continuazione, alcune guardano avanti altre si voltano, e comeracconta la Bibbia sulla moglie di Lot, diventano statue di sale. Quella leggenda, ci dimostra che voltarsi indietro, è più dannoso che andare avanti, e che non possiamo andare avanti davvero, se non ci lasciamo alle spalle un po' di cenere.

Non posso dirmi certo che lì non ci fosse ancora qualcosa per me, ma ero certo di non volerlo, ricordai le parole di Mann, che disse:

“Quando l'uomo è portato a trascendere sé stesso ha solo due scelte, può costruire o distruggere, amare o odiare”. Una scelta sola non è una scelta ma due sono un vero dilemma...

.to be continued





"la mia casa dov'è?" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 20



Il mio fidanzato, frequentava la scuola di trucco ormai da mesi, ed io nell'ordine mi ero trasformato in:

  1. l'uomo di Atlantide (applicazioni di protesi in lattice)

  2. uomo di 120 chili (ingrassamento del viso con le polveri)

  3. una donna

  4. la regina delle Aracni.


Ma il colmo lo raggiungemmo quando per l'esame di fine anno mi chiese di sottopormi al calco completo del viso! Non è che il mio fosse talmente bello da immortalarlo su gesso, gliene serviva uno e il mio era gratis, esattamente come altre mie parti anatomiche!

Nei locali della scuola mi spiegarono che sarei stato ricoperto di alginato dentistico fino ai margini delle attaccature, naso, occhi e bocca compresi. Io sospettai di dover respirare col fondo schiena, e obbiettai che non mi ero ancora esercitato a sufficienza, ma l'insegnante mi disse che due simpatiche cannucce avrebbero raggiunto le mie narici consentendomi di respirare per il tempo necessario al materiale di indurirsi. “ Nel tuo caso, non ci vorrà molto” aggiunse Claudio, per mettermi a mio agio. Lo fulminai con lo sguardo, e negoziai la prestazione, come quando da bambino, mia madre mi chiese di farle un favore in pubblico, e io volli 10 pacchetti di figurine!

Mentre mi sdraiavo sul lettino, feci pensieri “ariosi” per vincere l'ansia. L'alginato era gelido e appiccicoso, e mano mano il freddo mi invadeva i lineamenti, mentre sceglievo a cosa pensare nel tempo di posa. E' buio ora, e le labbra sono chiuse, non posso parlare, né vedere, posso solo vedere con la mente! Mi vedevo all'altare, pelata col velo bianco, la mari con i baffi (mica posticci), mi consegnava al futuro marito, e per l'emozione gli viene una bollata(gli scappa la pipì), Claudio vestito di Nero e Cobalto, ha i capelli raccolti e le scarpe col tacco. Ci sono tutti al matrimonio cafone, la mia parte ha due sedie, quella di Claudio, ne ha sessanta per tutti i clienti della Cage, e per i suoi! Suo padre saluta gli invitati che si congratulano, e lui gli dice “speriamo che duri” e gli invitati lo rassicurano, dicendo “ non ci ha mai delusi”. La mia mamma ha i capelli gonfi e una smorfia sul viso, mia nonna invece, è commossa dietro al ventaglio! Procedo sulla navata con i mei rollerblade di pizzo, al suono di “Dancing Queen” degli Abba , mentre mi sembra di conoscerlo, il prete, Roberto La betty, mi consegna il bouquet, un mazzo di carciofi e rovi, mi giro piano verso il mio futuro moglio e lui mi guarda dicendomi “ vorrei darti di più” - “di così?” dico io comprensivo.

Il prete ha la faccia dell'Ingegner Maggi e comincia la formula....io sto per dire “LO VOGLIO “

(che non era proprio una novità) quando sento un urlo “Staccategli la faccia!”

Due mani si insinuano ai lati del mio viso ed una luce abbagliante mi invade, “Sono morta?” - “No, mi dice l'insegnante di Claudio con la mia faccia in mano!

“sai che stavo per sposarti?” dico al mio fidanzato togliendomi i residui di materiale dal viso.

“Sei l'unico che dormiva, mi hai fatto fare una figuraccia” mi rimproverò.

Quel pomeriggio, io Claudio e la mia faccia di lattice, girammo per la zona dei navigli, e notai per la prima volta che a nessuno per strada poteva fregargliene di meno di noi! Fu una sensazione magnifica, perché non aveva a che fare con l'indifferenza, ma con la “normalità”. Tutte quelle facce non vedevano in noi, nient'altro che i soliti “alternativi”, gli stessi già visti altrove!

Il Naviglio era brutto come il Bisagno, ma l'aveva fatto Leonardo! Il Bisagno poveretto, la strada se l'era fatta da solo, e i genovesi ci avevano costruito intorno, inoltre, dal Naviglio arrivarono i marmi del Duomo, mentre dal Bisagno arrivavano solo i sacchi della “rumenta” (spazzatura).

Sul naviglio c'erano le “case di ringhiera”, grandi edifici con ballatoi esterni al posto dei pianerottoli esterni, sul Bisagno c'erano solo le ringhiere abbandonate senza casa! Insomma ogni due case ne sceglievo una dove avrei vissuto, e Claudio rideva divertito! Mi sentivo ispirato, innamorato e nel posto giusto al momento giusto, lì riuscivo ad immaginarmi un futuro, e in quel futuro c'era posto per noi due!

In fondo è questo che significa sentirsi “ a casa”, e poco importa se le fondamenta della propria sono affondate in una città o nell'altra, perché ci sono milioni di fondamenta che aspettano di ospitare la “tua” casa, e tu puoi scegliere dove quel cemento sia più sopportabile!

Comprammo un giornale, per verificare la possibilità di trovare lavoro, e scoprii che molti negozi cercavano personale, e anche questo era incoraggiante!

Bere il caffè alla Pusterla nel quartiere Ticinese, poteva essere esaltante, così come la Rinascente, con i suoi truccatori snob col sopracciglio ad ala di gabbiano e le barbe scolpite con l'aerografo, ti facevano sentire una diva in visita. I giardini segreti di austeri palazzi del centro ospitavano fenicotteri rosa, mentre ricche signore ricevevano proposte da giovani uomini prezzolati, in eleganti caffetterie. Questa Milano, scintillante ospitava anche gente comune, nella via Buenos Aires, gente come noi, a cui offriva un corso dove coltivare le proprie illusioni, ma tutti sapevano di essere in un posto unico, non eguagliabile all'America, ma altrettanto ricco di fermentosa creatività, un luogo, dove apprendere mestieri prestigiosi o semplici, dove potevi aspettarti di essere avvicinato da un talent scout in cerca proprio della tua faccia, o di vedere personaggi celebri, fingere una quotidianità banale, e banali persone quotidiane, interpretare il proprio “giorno perfetto”. Cartelloni pubblicitari grandi come intere facciate, sembravano gridarti “ Ehi! Ma ti rendi conto di dove sei?”,

vetrine scenografiche, ti invitavano a far parte “della scena”, non senza questo o quel capo addosso. Per questo l'uomo ama la città, mi ricordo di aver letto, perché aumenta a dismisura il senso del possibile, e te lo lascia credere alla tua portata. Potete pensare che mi illudessi, e fareste bene, perché l'illusione e il desiderio, erano ciò che cercavo! Pagare gli onerosi affitti di una città come quella, mi pareva poca cosa, quasi un privilegio, per poter respirare il profumo di un eccellenza che allora sentivi emanarsi da ogni suo angolo!

Forse, fu proprio quel giorno che compresi che lasciare Genova, era la cosa giusta da fare, anche se non mi potevo accorgere, che quella scelta avrebbe avuto un prezzo molto alto!

domenica 26 settembre 2010

"la samaritana seriale" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 19


Le pulizie domenicali, erano un vero incubo per me, ma mica ci avevo la colf! Non avevo neanche la golf, che tanto si usava a Genova, e i miei maglioni pungevano come vi ho già detto. Ma per rendere il dovere, un piacere, io usavo la musica. Non avrei sopportato di strizzare lo straccio senza cantare “non gioco più, me ne vado” o passare lo spazzolone senza urlare a squarciagola, “ Ancora ancora, ancora”, ma il meglio veniva quando pulivo il cesso sibilando “nessuno mi può giudicare ….nemmeno tu!”.

Mentre mettevo la cera, suonò il campanello, che siccome non suonava mai, mi sembrò un suono estraneo quindi suonò due volte. Non era il tanto agognato postino, era mia madre!

Il bagno con viakal era pulito, ma lei non si era fatta cinque piani a piedi per sincerarsene, quindi sentivo odore di casini. “Ah, “ faccio io, “stavo pulendo, entra!” “ ma cosa la passi a fare la cera, che magari scivoli e ti fai male?” fece lei entrando. Si era dimenticata, di quando a sette anni camminavo con le pattine per casa, e raggiungevo il cesso in derapage, perché la signora aveva passato la cera.

La casa era un po' desolante ma non abbastanza da giustificare quello sguardo, anche se i pensili della cucina ancora da pagare, giacevano sul pavimento in ordine sparso, “ senti, io non so proprio come puoi essere così”, le mani sostenevano una testa pesantissima di pensieri, e il gomito non era allineato al polso, facendola sembrare spezzata, mentre sperava che il tavolo reggesse lei e tutto il suo dolore.

Mia madre, aveva impiegato quasi tutta la sua vita a sopportare la normalità, a considerare i suoi coinvolgimenti emotivi o fisici, come doveri, ad assolverli con un certo scrupolo per un altro numero di anni, e a farceli pagare tutti ora che era rimasta sola. Per carità, io non nego che fosse stato un bel colpo, vedere nello stesso anno un matrimonio, un funerale, un divorzio, e la casa improvvisamente vuota, ma avrebbe dovuto essere un sollievo per lei, visto tutto il roccolare fatto negli anni su ognuno di noi, invece, ora non aveva più nessuno da incolpare, e molto tempo per pensare!

“ma cosa le dico?” mi ripetevo nella mente mentre facevo il caffè, e spegnevo mina, affinché non si rovinasse la giornata, “Così come?” mi sembrò una pessima idea, ma ormai le corde vocali avevano già vibrato, “a fare “la vita che vuoi fare” proprio non ce la faceva a chiamare le cose col suo nome

“ma guarda che mica mi faccio pagare eh?” dissi cercando d'essere di qualche conforto, e aggiunsi “ senti mamma, farò come hai fatto tu, solo che io ne sono un po più contento!” - sgomento e silenzio “quanto zucchero?” Quello sarebbe stato il momento perfetto per annunciarle la mia imminente partenza, e chiamare un ambulanza, ma non lo feci, mi sedetti lì con lei, e le dissi che non doveva neanche provarci a capire, perché io non avevo mai voluto capire cosa ci trovasse mio padre in lei, ero solo contento per loro più di quanto loro non lo fossero per loro stessi. “ma io e tuo padre, siamo un uomo e una donna!” che argomento convincente, pensai.

“ma mica gli unici sulla terra, in fondo, spero che papà non abbia vissuto solo di te, mamma, perchè se così fosse, allora la sua scomparsa si tingerebbe di mistero, per me!” Ciò che intendevo dire, era che, siccome litigavano sempre, e lei ci aveva infarcito le orecchie di lamentele, non potevo credere che “L'UNIONE NATURALE” bastasse a rendere tutto giusto, e quindi era probabile che se mio padre le fosse stato fedele, a 65 anni si augurasse una via d'uscita! Sapete quegli stupidi pensieri che si fanno quando sei infelice e insoddisfatto “ma che vita di merda, per vivere così....sarebbe meglio...”. Ecco, visto che gli ultimi anni, lui viveva in “esilio” in salotto, e lei in cucina, poteva forse averlo pensato? E se fosse stato esaudito?.In ogni caso, io che colpa ne avevo?

“Senti, mamma io vorrei solo provare ad essere felice, e lo sarei di più se sta cucina sparisse dai miei occhi, e con questo credo di rispondere ai tuoi dubbi”. Lei, non rispose, perché quando si scaricava, poi stava bene, ed era pronta a ritornare alla sua vita e a dimenticarsi di te. Lo faceva anche quando ero piccolo, si sfogava insultando sua sorella al telefono o mio padre, e poi non li cagava più! Infatti, si alzò dalla sedia e disse” vado che tra dieci minuti, passa il 50! “.

Chiusi la porta, con la serenità con cui forse mio padre chiuse gli occhi, quindi poca e riaccesi lo stereo. Donatella rettore cantava "Lamette”,

Qualche tempo dopo, la mia genitrice aveva avuto una brillante idea “ La nonna, è sempre più svanita, e siccome qua dice che non ci vuole venire, mi sa che dovrò andare io la, mica posso lasciarla da sola? “. C'eravamo,! La “ samaritana” aveva deciso di incamminarsi sul sentiero, solo che la mia, era "seriale" e il passante , prima di curarlo, lo infortunava di proposito.




sabato 25 settembre 2010

"vissi d'Arte e farinate" Ge-Mi storia banale di u n gay speciale spciale cap 18


Il demone del liscio, si era impossessato di me, e raccontai alla mari delle nostre incursioni danzanti a Milano, mentre lei mi esprimeva le sue perplessità,circa il viverci, in quella città.

Lei c'era andata molto vicino quando aveva vissuto in un paese vicino a Novara, e capiva bene il mio entusiasmo mentre la pettinavo. Eravamo riusciti a farle crescere i capelli e glieli pettinavamo a onde morbide di color rame scuro. “Flamboyant” lo chiamavamo, e lei una volta finito scimmiottava per noi, la signora francese, facendo le facce della “Signorina Silvani”, mentre quando viveva a Novara indossava pesanti gonne di Giudice, in panno e capelli corti da catechista!

Lei era la mia bambola preferita, quindi sì , non ho mai smesso di giocarci, ma preferivo quelle multifunzionali in carne ed ossa.

Avevo deciso di diventare parrucchiere, dopo il grave incidente in motorino, perché avevo detto “se sono sopravvissuto è per fare ciò che voglio davvero!” così convinsi mia madre ad iscrivermi alla scuola di parrucchieri genovesi., inoltre era orribile vedere la propria “adorata” madre, sciatta e anche mal pettinata tutti i santi giorni! La scuola di parrucchieri era nella prestigiosa via XX Settembre, ed era decisamente costosa, ma la mamma non si scoraggiò e con la borsetta sulle ginocchia, ascoltava la padrona parlarle del programma. “il corso dura due anni e le possibilità di lavoro sono alte” le diceva mostrandole la lista delle assunzioni dei vecchi allievi “la rata mensile è di tot ed è compreso il materiale e la divisa”. La signora parrucchiera-padrona, era decisamente bruttina e col suo caschetto liscio e brillante mi ricordava “il pianeta delle scimmie”. L'idea che mi trovassero lavoro, sembrava buona alla mia mamma, che firmò col sangue i documenti-capestro della scuola. Da dopo l'incidente, forse la maria luisa, si era rassegnata a pensare che se facevo la parrucchiera almeno non mi potevo far male, oppure sperava rimanessi fulminato col phon , ma comunque quella fu la cosa più bella che fece per me, dopo aver pagato il dentista che mi aveva ridato il sorriso. Ero l'unico “maschio” del corso, e vestito da barbiere facevo cagare, ma giravo fiero con il pettine in mano. Nel corridoio annoiate signore aspettavano il loro turno come “cavie” perché pagavano pochissimo quindi il corridoio era pieno! Shampoo piega colore e colpo di sole il primo anno, taglio e acconciatura finale il secondo anno, poi c'era l'esame e se non stavi sulle palle a tutti, ma soprattutto se i tuoi non avevano saltato MAI una rata, eri promossa !

La mia insegnante Lasabrina tuttattaccato era brutta come la padrona , ma si sentiva una gran figa, con i suoi riccioli anni ottanta color pannocchia e la frangia bombata e laccata. Passava a dare il “tocco finale” alle cavie, col pettine a forchetta, e ti correggeva gli errori che non ti insegnava ad evitare! I colori venivano preparati di nascosto, nello stesso stanzino dove riempivano gli shampoo del lavatesta col detersivo dei piatti! Le signore si scambiavano sguardi e sorrisetti maliziosi, quando mi vedevano, ma io col mio ciuffo non sapevo proprio cosa avessero da ridere, uscendo con quelle teste orrende! Dopo due anni portai all'esame il caschetto identico a quello della padrona e fui promossa con pieni voti, e spedita a fare pratica da una parrucchiera che teneva un sacchetto di cose d'oro sul soppalco, che mi mandava a pulire, e che si incazzava come un fico quando le dicevo: “signora, quel sacchetto è ancora qui, glielo metto in cassa così non dimentica di portarlo a casa?”

Poverina, il marito era in galera ….chissà perché?, ci sono persone che fanno proprio fatica a vivere!La mari adorava il suo ruolo di mia mamma gay, ed era l'unica che mi sarebbe mancata nell'andare a Milano, e mentre le raccontavo il mio progetto di vivere con Claudio, potevo sentire le sue amorevoli rotelle macinare qualche pensata. La casa nei pressi di Novara era ancora di famiglia, e mi disse che potevamo appoggiarci lì per i primi tempi....”ma dovrai parlarne con tuo marito..” obbiettai commosso, “Non preoccuparti, ma devi solo promettermi di fare sesso in camera nostra, perché il letto è ancora quello di mia suocera!”- “Allora sai che facciamo?” dissi “Ti porto con me a Teatro, a vedere la Tosca, ti va? “- “ma al Carlo Felice? Ma come fai ad avere i biglietti, sono introvabili oltreché costosi”. In effetti, dal matrimonio, l'unico benefit che avevo conservato era una serie di biglietti per alcune prime d'opera, a due soldi, avuti dall'insegnante di tedesco della mia gà ex moglie, e che nessuno mi aveva chiesto indietro.(evidentemente meno preziosi della saliera, per alcuni) “amore, mai domandarsi da dove ti arriva qualcosa, ma piuttosto, cosa potersi mettere per quel qualcosa, è la domanda giusta!”

Il foyer del teatro era gremito di persone della Genova bene, e io e la mari stavamo un figurino, ma non potevamo riuscire a star seri, continuavamo a sgomitarci l'un l'altro per segnalarci quel vestito o quella pettinatura ridicola o eccessiva. La paralisi creativa, aleggiava nella stanza, perché ogni persona lì dentro era sintonizzata sulla frequenza di conferma del proprio status. A molti l'opera sarà anche piaciuta, ma ad altrettanti piaceva di più il fatto di “esserci”, la mari invece conosceva gli “usi di corte” ed era l'infiltrata perfetta, in quanto a me, mi aspettavo che uno degli uscieri, mi sbattesse fuori. Cinque minuti erano il tempo giusto per dover salutare alcuni dei presenti se li avessimo mai conosciuti, scambiarsi convenevoli, e spettegolare dopo il commiato, ma noi eravamo come i servi, alla Scala di Milano mandati lì per disprezzo all'imperatrice d' Austria, dai loro padroni, quindi per risolvere l'empasse la mari ebbe un colpo di genio! Ci baciammo come due amanti furtivi, mettendo fine al caso che e si era creato. “Mi sento sollevata” mi disse la mari “ Perché? risposi, “ vedi, è da quando siamo entrati che immagino voci sussurrare , o quello è suo figlio, o l'ha pagato”.

.”Capisco, mari sai quanto detesti l'ambiguità!” Dopo che la soprano si era lanciata dalla torre , io e la mari concludemmo che essere in sovrappeso può esserti fatale, ma in certi momenti è peggio non averci una torre. Convenimmo con Valentino che una festa andasse lasciata quando c'era ancora gente, e invece di brindare con una coppa di champagne al mio futuro milanese io e la mari, ci mangiammo una bella fetta di farinata.

To be continued.....





mercoledì 22 settembre 2010

"Rosaria contro S.Rita" ge-mi storia banale di un gay speciale cap 17






Questo era il nome dell'unica bambola che ho posseduto, una bambola di pezza, che una aspirante fidanzata di mio fratello mi aveva regalato in cambio di una sua fotografia. Per fortuna, potei tenerla anche perché ero già abbastanza grande. Dopo la telefonata della moglie dell'amico gay di mio fratello, era venuto fuori un bel botto, nell'ambito delle “amicizie familiari”. Quella furbona della mamma, aveva creduto che frequentando un ristretto gruppo di famiglie, in cui “quelle certe cose” non erano ammesse, avrebbe potuto limitare o inibire il mio gene gay, ma non aveva fatto i conti con la parabola biblica dei lupi in manto di agnelli. Eppure la leggeva spesso la bibbia.

Forse più realisticamente non aveva fatto i conti con la legge dell'attrazione, che governa ogni cosa, e che dice che, ciò che ci accade è frutto di un prolungato pensiero, abbinato ad un emozione dominante che “attira dall'Universo tutto ciò che si trova sulla stessa frequenza, materializzando quindi cose persone e fatti reali.

Se questo principio sia vero o no, non saprei, ma io ai maschi ci pensavo un bel po' e lei lo sapeva e pensava con orrore alla stessa evenienza. Risultato, io i maschi li attiravo anche se sposati, e lei aveva l'orrore su cui si era tanto concentrata. Eliminando il dramma, che deriva dalla sorpresa, ed essendo coscienti dei propri pensieri, avremo potuto essere felici entrambi, io come uomo gay, lei come martire! Del resto, mia madre era devota di S. Rita, una donna che fu obbligata a sposare un crudele guerriero e che ebbe due figli dediti al peccato. Ma la Rita(non ancora santa) era una che pregava, e dai che ti ridai, Dio l'accontentò. Se avesse ricordato che chiedeva di salvare i suoi figli dal peccato, (concentrandosi su quello) e di essere libera dal marito per servire dio,(il quale non aveva pretese fisiche su di lei)tutti i santi giorni, non si sarebbe sorpresa che i figli fossero morti entrambi, e che il marito fosse caduto in battaglia! Invece di ringraziare il cielo per la grazia concessa, e spassarsela un po', quella gina della Rita si chiuse in convento a coltivare le rose di maggio! La fanno santa, perché quelli che l'avrebbero fatta nera, erano già morti!

Invece, la Maria Luisa, non era felice per niente che la notizia della mia peccaminosa favolosità e della sua santità imminente si fosse sparsa e per limitare le perdite mi aveva proibito di uscire da solo!

Così passavo il pomeriggio con lei da mia nonna, e le sere fissavo “rosaria” che avevo seduto sulla mensola sopra la scrivania. Mi guardava con la sua faccia di pezza a forma di fagiolo e il corpo molle pieno di sabbia. La circolazione di rosaria, non era un granché, aveva le mani e i piedi gonfi, i capelli blu di lana legati a trecce, e io mi dicevo “sei una bambola di pezza, ma non è detto che tutti debbano saperlo! Forse riesco a farti vivere come una Barbie.”

Mia madre nel mettermi in castigo si castigava da sola, perchè se io non potevo stare da solo doveva stare con me, quindi adottai la strategia del “carcerato recuperabile”, che consisteva nel:

  1. Mostrare segni di contrizione (andare in cucina sedersi con lei ma non vicino e non dire una parola. Augurare la buonanotte senza avere risposta x due giorni!

  2. Dopo il secondo giorno, farsi vedere a fare qualcosa di carino, come disegnare, o leggere.

  3. Chiedere di poter fare “qualcosa” di utile

A quel punto, scattò, la proposta di attività rieducativa, le chiesi se mi aiutava a cambiare le trecce di Rosaria. Nella norma, avrebbe dovuto rifiutare, ma io sapevo che da piccola non aveva giocato un granché, e che con la moina giusta, mi avrebbe assecondato per transfert infantile. Nel giro di due giorni sfornammo un guardaroba per Rosaria da diva di Hollywood, e addirittura io trovavo i vestitini finiti già sulla bambola. Mi fece persino un bolerino di persiano (lana finto astrakan) con una rosellina sul bavero, che sarà stato alto quattro dita. Un capolavoro!

Secondo me, si era rotta le balle di rimuginare sulla vergogna, e la “detenzione” pesava anche a lei, quindi si lanciò in questa attività con me già grande, con la gioia della bambina che non era mai stata. Passammo momenti di grande intimità, io e lei, ma non durò molto però, me la fece buttare perché le raccontai che nella camera della ragazza che me l'aveva regalata, c'era un limone pieno di spilli. Lei collegò la bruttezza della ragazza e le chiacchiere di zona, e decretò che la bambola era oggetto di magico rituale.

Credo che pensasse che in quanto a sfiga, avessimo già il massimo della vita, e così Rosaria finì nella spazzatura e con lei tutto il suo guardaroba.

Pazienza, almeno lei, aveva avuto una svolta glamour, da bambola di pezza, a supermodel anche se solo per poco! Io ripresi a scrivere ai fermoposta...in attesa della mia di svolta!

La detenzione e il programma di “recupero” erano miseramente falliti ma io non avevo nessuna intenzione di fare felice né santa Rita, né la Maria Luisa.

Il pensiero di vivere a Milano, occupava ormai completamente i pensieri miei, e di Claudio. Lui era convinto di poter trovare un lavoro nell'ambiente dei truccatori, ed io come parrucchiere, potevo fare il mio lavoro dovunque.

Una delle passioni con cui Claudio aveva cercato di “sfondare” era il ballo liscio da sala. Aveva fatto numerose gare, ed era richiestissimo dalle dame presenti alle sagre paesane della Liguria.

Potevo io come compagno di un ballerino non imparare? Ma certo che no! Quindi all'inizio cominciò ad insegnarmi i passi in camera sua, ma potevano due maschi ballare insieme? Al contrario delle donne che lo fanno da sempre, no! Ma nella sua stanza le parrucche sulle mensole non si formalizzavano, e allora mi “sacrificai” ed imparai i passi della dama! Dopo qualche tempo, ci trasferimmo in soggiorno, perchè la zia Tina diventava matta a sentire la musica suonare. Seduta sulla sua panchetta ondeggiava col suo culone morbido mentre io e Claudio giravamo un valzer od una mazurca. Che magia lasciarsi portare da quel nanetto garbato che per me era meglio di Julio Iglesias, seguire i suoi passi offrendogli i miei, in un tutto armonico. La Tina e sua cognata a volte si commuovevano, forse, in quella scena così semplice, ritrovavano i ricordi di un romanticismo antico, o di un amore mai assaporato, ed erano capaci di essere felici per noi.

La pratica però a Genova, si limitava a quelle stanze, in quanto come già detto, in nessuno dei “dancing” avremo potuto farlo pubblicamente, o almeno così credevamo.

Claudio, aveva sentito parlare di un locale gay a Milano dove gli uomini, ballavano il liscio in una sala con tanto di orchestra dal vivo, e nell'altra pista si ballava disco. Nuova Idea si chiamava il locale, e mi promise che una volta mi ci avrebbe portato! Era proprio un idea nuova, e come al solito non era venuta ad un genovese! Da noi c'erno i “dancing” o le balere, nei primi, si ballava di sera e le donne ci andavano con i fuseaux e la maglietta di paillettes ”stampate”, nelle seconde ci si andava d'estate a digerire la salamella o il fritto misto.

La Nuova Idea aveva all'entrata come un Red Carpet che si percorreva al coperto prima di accedere al guardaroba, dove una biondona sfatta e cotonata ti prendeva le giacche sporcandole con la cenere delle sue sigarette sempre accese. Girandosi si pagava l'ingresso e si riceveva un biglietto verde che era la consumazione compresa nel prezzo, ad un altra donna mora e sfatta con la sigaretta accesa.

Io ero emozionato come la Canalis al Kodak Theatre e Claudio con la sua camicia bianca e il pantalone nero con le pence e gli stivaletti....sembrava D'Artagnan!

Ci saranno state almeno un centinaio di coppie uomo-uomo , e donna-donna che ballavano felici. L'età andava dalla nostra ai 92 della più anziana delle “ballerine”, che era un abituè del locale e che non smise di ballare dalle dieci a mezzanotte! Uomini giovani si facevano portare da signori maturi con la vanità di chi è corteggiato. Perché danzare per quegli uomini anziani era un ottimo surrogato di un sesso, forse, non più facile da ottenere, ed avevano nel portare, tutta la leggerezza che l'età toglie nel muoversi quotidiano. Li immaginavo, giovani, costretti a ballare con donne, guardarsi tra loro, come in un film, senza potersi toccare. Ironia della sorte avevano dovuto pagare la libertà, con tutti gli anni del loro vigore giovanile, ormai passati e mi commossi mentre Claudio ci introduceva in pista. Il livello, dei ballerini andava da 0 a 100 ma i più abili indulgevano sulla lentezza dei meno esperti. Le coppie che frequentavano dei corsi di ballo, erano palesi come un brufolo sul naso, poiché la contorsione delle loro schiene, e la trasfigurazione degli sguardi raggiungevano livelli “mistici”. Due tra loro meritavano la palma d'oro della scarpetta da ballo, lui aveva riccioli brizzolati tagliati a palloncino, e baffi, l'altro lui aveva gli stessi ricci( ma possibile?) tinti di un nero profondo come i miei dubbi, entrambi erano a dir poco longilinei e comunicavano tra loro con le dita perché le facce erano opposte e contrarie come da copione. Giravano il valzer, come dervisci turchi, a tal punto che pensai che si scambiassero i lineamenti come in una centrifuga per Dna..perchè la somiglianza era impressionante. Che dire, i Ginger e Fred ci facevano sfigurare, ma c'erano anche le coppie lesbiche tipo Humprey Bogart e Ingrid Bergman, lei alta col capello corto e impomatato con la divisa laterale, vestiva in un completo doppiopetto(che nascondeva il petto ) gessato, e i suoi modi nel condurre la sua dama, erano da vero gentleman! L'unica frizione della convivenza dei generi sulla pista da ballo, era generata dalla tendenza delle coppie di donne al litigio coi maschi anche se gay, quindi quando preso dall'emozione come un bambino allo zoo mi irrigidivo e sbandavo un po' scontrandone una, mi profondevo in mille scuse per tutto il resto dei giri pista, ma se “Rosaria” mi avesse visto le avrei sorriso sedendola sul divanetto, e le sarebbe piaciuto vedermi girare il valzer con uno dei suoi vestiti che quella sera io indossavo nella mia mente, ma i rintocchi dell'orologio, si facevano prossimi al limite impostomi dalla mia fata buona e allora prima di trasformarmi in un gay pelato e peloso, scappai via verso la macchina/carrozza/opel megane e nel tragitto persi la mia....banana di cristallo.....to be continued