martedì 12 ottobre 2010

"l'ora x" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap24


Il treno di ritorno da Genova, era sempre affollato, ma scorgere la pesante struttura metallica della Stazione Centrale era un vero sollievo per me! Le visite alla mia genitrice, mi lasciavano sempre spossato, a causa della finzione a cui, mio malgrado mi assoggettavo!

Arrivavo lì con una pianta o con qualcosa di nuovo, per rallegrarla un po'. Aveva cominciato a collezionare bambole, e gliene comprai di molto belle, con graziosi vestitini bucolici, o retrò. Ripensavo sempre a Rosaria, quando le compravo, e al nostro atelier segreto, l'unico momento in cui avessi avvertito di esserle “intimo”. Sorrideva nel vederle seppure poco, mentre la nonna Verdina, le chiedeva per la centesima volta che giorno fosse!

Già, perché la “samaritana seriale” aveva portato a termine il suo piano, trasferendosi a casa di mia nonna, con la scusa della necessità di non lasciarla “sola”. La Verdina era vedova da anni, e da sola ci stava benone, ma lo stesso non poteva dirsi della Maria Luisa!

Ogni tanto mia mamma, che per trasferirsi lì aveva disfatto mezza casa alla nonna, la beccava al telefono con una delle sue sorelle, “La Maria, ...mi tratta male, mi ha buttato via la credenza...” bisbigliava come una sequestrata, cambiando subito in “Ahhhh se non ci fosse lei!!” non appena mia mamma la sorprendeva!

In questo polpettone emotivo, arrivavo io in visita, con i miei regali inutili infiocchettati di sensi di colpa. Non avevo rimpianti, poiché è impagabile vivere davvero, tuttavia, sapevo di non fare molto per loro, e sentivo la disapprovazione tra i denti insieme alle pietanze.

Vedere mia madre cucinare, nella cucina del mio matrimonio, era la cosa più triste da sopportare, non tanto perché finisse di pagarla, ma per come lo faceva. Piccole pentole senza amore contenevano improbabili perizie gastronomiche, che nel piatto, cadevano affrante come noi, quasi senza profumo, e venivano consumate sbrigativamente insieme alla nostra scarsa confidenza.

“come và il lavoro?” mi chiedeva,

“bene” rispondevo, da disoccupato.

Seguiva qualche racconto che la Maria, faceva per riportarmi al passato. “Sai che ho visto la Miriam qualche giorno fa, era così triste...” Ingoiavo l'involtino chiedendomi “ E cosa posso farci?”.

Dopo pranzo, si guardava la televisione, per non parlare fino all'ora X.

L'ora X era quella che scattava, quando la pantomima aveva raggiunto un qualche livello di guardia per mia madre, forse, dopo aver appurato che stavo bene, le saliva anche un po' di rabbia, o un senso di impotenza che esprimeva dicendomi:

“ Vabbè, ti conviene andare che se no perdi il treno!”

“ma ce l'ho tra due ore, mamma”- replicavo debolmente.

“Eh, magari prendi quello prima, così non arrivi tardi”- suggeriva, io mi alzavo, staccavo il caricatore del cellulare, che mi ero finalmente comprato, salutavo, e una volta nell'ascensore, tiravo giù il pacchetto di sigarette, che avevo nascosto nel cornicione della plafoniera, e girata la curva che le nascondeva la visuale (il saluto dal balcone era d'obbligo), me ne accendevo una.

Nel recarmi alla stazione guardavo i miei concittadini, sui mezzi pubblici, e li trovavo così sciatti e rassegnati, che mi meravigliavo di non essermene mai accorto prima. La città, mostrava al mare la sua faccia più bella, e a me le schifezze del sottopassaggio S.Agata!

E' incredibile come una realtà non più condivisa, fatta di persone e cose, mostri in quel momento la sua sgradevolezza “reale”. Come un abito, che hai sempre indossato con noncuranza, o abitudine, improvvisamente divenga obsoleto persino a te stesso, e ti spinga a chiederti “ma come ho potuto indossarlo per così tanto tempo?” Certo anche a Milano, c'erano persone sciatte, ma non erano la maggior parte. All'ombra del Duomo, le persone sentivano il dovere di mostrare la propria appartenenza alla città della moda italiana, mentre sotto la Lanterna, sentivano di doverne fare a meno.

Povera Agata, santa di un sottopassaggio sudicio, dove i tossici ti chiedevano cento lire! Forse, era la santa delle cause perse, ma quello non era Giuda? No, lui è il santo degli spiccioli! Allora forse sant'Agata è la santa dei pertugi, mah!

Il treno strideva le sue ruote di metallo sui consunti binari, mentre le facce dei milanesi indaffarati riempivano la banchina, e io ripensavo al mio fortuito colloquio.

Il negozio era in una piccola traversa del grande viale D'Este, a fianco ad un salumiere, l'ultimo baluardo contro la grande distribuzione, dove un rubicondo signore francese e la moglie vendevano puzzolenti formaggi alle ricche signore di zona.

Il negozio era piccolo, tutto sommato, ma arredato con sfarzi di radica e mogano laccato. Una grande torre esagonale dominava la stanza, e grandi specchi e vetri a mosaico, ne ampliavano la grandezza. Oltre la titolare altre due ragazze si muovevano indaffarate, e io, le osservavo in attesa di parlare con lei. Mi sorridevano, e i loro modi erano più rilassati di quelli dei lavoranti dei Jean francesi

Anche la clientela era piacevole e di tutte le età, bambini, signore anziane elegantissime, giovani mogli e professionisti/e. Ero eccitatissimo e pregavo il cielo che mi prendessero, infatti dopo poche parole con la signora Grazia, ottenni la mia settimana di prova!

Col mio cellulare chiamai subito mia madre, perché finalmente avevo una bella notizia da darle.

“Pronto mamma, ho un vero lavoro!” esclamai affannato dall'emozione.

“Beh, ti è sempre andata bene”.

To be continued

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