giovedì 7 ottobre 2010

"Il piumone" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 22


I traslochi sono iscritti al secondo posto, nella lista degli eventi più stressanti della vita, subito dopo la perdita di una persona cara. E a mio avviso giustamente! Per nostra fortuna la casa della mari nei pressi di Novara, era completamente arredata, quindi la macchina era colma solo dei nostri vestiti e piccoli oggetti personali.

Ci andammo d'inverno, lasciando il vento per la nebbia. Avrei preferito avere un cane con quel nome, come Heidi, ma Claudio non era proprio Peter, e le caprette non ci fecero ciao, forse qualche cinghiale grugnì ma non lo sentimmo!

Cosa fa un gay “perbene” quando entra in una nuova casa?

Semplice, compra delle tendine nuove e sposta i mobili esattamente come fanno le donne!

La rigidità di quell'inverno non sembrava di buon auspicio, ma come tutte le coppie fresche di storia, sapevamo prendere i suoi lati positivi, come quello di dormire nudi sotto un caldissimo piumone. Dopo qualche anno, sapevamo che le cose si sarebbero invertite, avremo quindi dormito ben coperti da orrendi pigiami felpati, lamentandoci “Non fanno più i piumoni di una volta!” - “Ti ricordi come tenevano caldo?”-” ma no! Ma cosa dici? Non ce l'avevamo il piumone” - “si vabbè, ricordati la pastiglia della pressione”!- “ anch'io ti voglio bene!”

La vita domestica era un po' noiosa, perché Claudio si recava a Milano in macchina ed io restavo a casa, dato che un lavoro non ce l'avevo ancora. Eppure per qualche assurdo motivo, mi sentivo felice nell'andare a fare la spesa nel preparargli la cena, o pulire la casa, nel fare quelle cose che dopo molti anni, avrei lietamente pagato qualcun altro perché se ne occupasse al posto mio.

La sindrome della “mogliettina anni 50” mi rendeva così. La mia casa aveva molte stanze, e organizzammo persino una stanzetta come guardaroba con uno stand con le ruote come quello dei negozi. La mari sarebbe venuta a trovarci nel fine settimana, per controllare come ci eravamo sistemati, ed anche per rendere noto ai vicini, che non eravamo occupanti “abusivi”.

Talvolta però, accompagnavo il mio “moglio” a Milano, per cercarmi un lavoro. Avevo diviso la città per zone e fermate della metro, e setacciavo tutti i negozi di parrucchieri, del rione vicino alla fermata. I negozi erano moltissimi, e pensai che i milanesi avevano coi capelli, il rapporto che noi genovesi avevamo con la focaccia, e cioè di “irrinunciabilità”. Cappuccino, piega e brioches?

Le persone nella metro correvano come fossero un sol uomo, e la mattina potevo capirlo, ma alle due del pomeriggio, dove diavolo dovevano andare così in fretta? Nella mia Genova la gente correva per non perdere l'autobus, o per lo sconto del formaggiaio, ma a Milano la gente correva per spendere cifre astronomiche nei negozi, o per raggiungere dei tappeti nelle palestre, dove continuare a correre a pagamento, o per fare una piega “al volo”.

Non avevo mai sentito, questo termine, perché le genovesi, dal parrucchiere, di volare non avevano voglia, visto che pagavano, e la piega doveva “durare”, ma la sentii mentre aspettavo di parlare al titolare di una catena di negozi presenti in tutta la città. I lavoranti avevano divise uguali e molto simili a quelle dei camerieri, e non volava una mosca. Mi lanciavano occhiate furtive, forse innervositi dalla mia concorrenza? O l'arancione non mi donava? Io sorridevo come una ragazza sorride ad una cena di affari( l'avevo visto in un film), di cui non sa nulla, ma a furia di sorridere cominciavo a sentirmi come una annunciatrice a cui non parte il servizio!

In quegli anni, l'avanzata delle catene francesi di parrucchieri era inarrestabile, altisonanti nomi lunghissimi preceduti tutti da un Jean. Jean questo, jean quello, spuntavano come funghi o come baguettes, e proponevano linee realizzate con le macchinette al posto delle forbici. Povera Maria Luisa, con tutti i soldi che aveva speso perché potessi tenere le forbici in mano!

Comunque non ero particolarmente nervoso, circa l'idea di trovarmi un lavoro, forse perché convinto di essere nel posto giusto, un luogo pieno di possibilità, e questa convinzione la sentivo fisicamente, localizzata. Mi dava respiro e felicità, e mi sentivo grato per ogni no, che ricevevo, perché quei no, lasciavano spazio all'unico sì, di cui avevo bisogno.

Per tutto l'inverno cominciai a lavorare saltuariamente qua e la, ma nessuno mi voleva fare un contratto regolare, e quindi dopo poco mi lasciavano a spasso.

Facemmo molti sacrifici io e Claudio ma continuavamo a sentirci fortunati, anche quando il tubetto del dentifricio non era spremuto bene, secondo il gusto di ciascuno, o la cena era immangiabile.

Come tutte le famiglie senza televisione, ci “scaldavamo” un bel po' e avevamo imparato a parlarci e a ballare coi tacchi nel salone di casa!!!

to be continued

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