La vita non è mai ovvia. Questa frase, se la senti o la leggi, suscita un immediato consenso ed è una di quelle frasi che fanno breccia nei followers dei social network. Essa potrebbe indicare una presa di coscienza di quelle che fa maturo mostrare di fronte ad un funerale improvviso, o sarebbe perfetta per sentire meno disagio se i figli si fidanzassero con qualcuno che viene da un paese impronunciabile, oppure ci renderebbe ammirevoli se pronunciata tra amici di fronte ad una delusione cocente.
La solennità con cui queste poche parole ammoniscono dal luogo comune è apparentemente inconfutabile. A questo genere di frasi appartengono credo gli aforismi, e verosimilmente queste lapidarie sentenze sulle cose della vita si prestano con efficacia anche agli epitaffi, perché come diceva un proverbio biblico: è meglio la fine di poi di una faccenda che il suo inizio, ed è solo allora che siamo in grado di centrifugare l'essenza di una vicenda, di una vita, di un periodo storico.
Ma perché questa frase ci colpisce davvero? Si potrebbe dire che la vita di milioni di persone sia di una ovvietà imbarazzante e questo confuterebbe la tesi iniziale per cui nessuno che viva può vivere con ovvietà, tuttavia a non essere ovvia è la vita in sé, non la vita delle persone.
La forza vitale che ci anima non è ovvia, nonostante poi tutte le vite abbiano un principio uno sviluppo e una fine, perché ci appare sorprendente, perché la vita non è mai stata spiegata fino in fondo.
Credo di poter azzardare che adoriamo dire o sentir dire che la vita non è mai ovvia poiché se lo fosse non sarebbe abbastanza eccitante vivere. Ecco cosa ci colpisce davvero, la paura che la vita sia solo un conto alla rovescia senza eccezioni e con anche la probabilità che si compia senza nulla di eccezionale, ma che soprattutto essendo per ora dimostrato che è “una” sola, potrebbe essere più noiosa di quella di un pesce rosso nella boccia. E quella noia mortale sarebbe spaventosa anche se limitata nel tempo. Quella noia piatta potrebbe essere la nostra.
Nonostante per tali ragioni e svariate altre che non sono in grado di enunciare o immaginare, sembri orribile avere una vita ovvia, in realtà ciò che sopportiamo e assorbiamo meno bene sono proprio i cambiamenti e molti di noi, hanno pur se d'accordo con l'enunciato, il bisogno fondamentale che la loro vita scorra ovviamente. Mia madre per esempio era una di queste persone e di fronte alle “sorprese” della vita il suo più grande sforzo era di fare come se niente fosse, di approntare velocemente una sorta di routine che azzerasse l'impatto degli eventi e di conseguenza il loro apporto verso il cambiamento. In effetti riuscì con questa modalità a farci credere di avere una autentica forza morale di fronte alle avversità, ma siccome di fronte alle improvvise gioie aveva lo stesso atteggiamento di nessun stupore, comprendemmo che si trattava di semplice abulia, di una profonda incapacità di dare sapore alla propria esistenza. Avrebbe di certo concordato col fatto che la vita non fosse mai ovvia, ma senza vedere in questo nessuna opportunità!
Al contrario, mio padre pur conducendo una vita apparentemente ovvia per un capofamiglia, coltivava in segreto un desiderio di avventura. Tra gli ordinati attrezzi del suo garage, sembrava prepararsi a una qualche missione esplorativa che non cominciò mai. Nemmeno la sua vita fu tanto ovvia, secondo lui, poiché visse nell'incomprensione perenne del perché i suoi desideri, come quello di avere un orto, di comprare una casa, di avere dei figli suoi, e di avere una moglie che lo supportasse in tutto ciò con entusiasmo, non si fossero mai realizzati nel modo in cui li aveva immaginati. Di fatto viveva in una casa con una moglie e due figli, il che faceva sembrare ovvia la sua esistenza agli occhi degli altri, ma in cuor suo sapeva come questi fattori fossero precipitati nella sua vita in modo tutt'altro che ordinato naturale e armonioso..
Ma mio padre però fu capace di stupore quando di fronte all'incurabilità della sua malattia, e agli infausti esiti che sapeva avrebbe prodotto disse, vedendoci assisterlo come “ovviamente” i nostri sensi di colpa ci costrinsero a fare oltremisura : non sapevo di avere una famiglia che mi volesse bene!
L'attaccamento per l'ovvietà di mia madre la spinse a una capacità di sopravvivenza straordinaria paragonabile solo a quella di alcuni batteri o degli scarafaggi, mentre mio padre desiderò talmente una vita meno ovvia da partire anzitempo per il più misterioso dei viaggi: quello senza testimoniato ritorno!
Io, singolare prodotto di entrambi per semplice osmosi, mi ritengo capace di sopravvivere a molto come la parte batterica di mia madre ma con lo stupore costante di mio padre meno il suo coraggio e la sua attrazione per l'ignoto. Io che di ovvio non gli ho dato niente. Io che non ho nessun merito per questo, né una colpa. Io che vivo perché non ho scelta migliore.
La mia vita non è stata del tutto ovvia sebbene oggi non sia affatto eccitante, ma di certo è stata varia finora, curiosa, controversa, complicata, veloce e lenta ma soprattutto libera da paure del cambiamento e bisogni insensati di scopo. Sono cosciente che la maggior parte delle cose che mi avevano insegnato fossero ovvie non lo sono affatto per me, e che però neanche il rischio e la tensione dell'anticonformismo ad ogni costo fanno di questo percorso qualcosa di più da quello che è: una manciata di immagini e sensazioni simili a quelle che vedi dal finestrino di un treno in corsa.
Incerto alla partenza, passibile di imprevisti, ritardi e incidenti “di percorso”, questo viaggetto chiamato vita, comincia veloce a tal punto che ti sembra ingiusto, raggiunge un andamento apparentemente costante nel quale non riesci a mettere a fuoco le cose o le persone che vedi come vorresti e quando credi che sia stabile e ti permetta di sentirti abile nel cogliere i dettagli , rallenta fino a che il paesaggio diventa sempre meno vario e di solito si ferma di fronte al più stupido dei fotogrammi: un lampadario troppo vecchio, una stradina del cazzo vista e rivista, un pezzo di cielo, un suono, una voce indistinta o familiare, un angolo buio, caldo e freddo.
Mi chiedo, sentendo nel 2013 che un ragazzo di tredici o quattordici anni fa volontariamente un volo di 20 metri dopo essersi ferito con tagli gambe e braccia, proprio verso quell'angolo buio, se è l'ovvietà della sua vita che lo ha spinto. Quella frase che ha iniziato i miei pensieri: la vita non è mai ovvia, perché ora mi sembra orribile? Perché l'averla condivisa con quel cenno di consapevolezza del capo, ora mi fa sentire in colpa verso questo giovane, come se gli fossi stato indifferente anziché di qualche aiuto come dovrei essere data la mia età?
Chiede perdono ai genitori per ciò che ha fatto, non chiarendo se lo fa per essersi ucciso o perché era gay. Quale di queste due cose nella sua famiglia, non era ovvia o lo era, con tanta certezza da far preferire la morte alla vita?
“Un ragazzo meraviglioso, con una famiglia meravigliosa” dice una donna intervistata da un cronista a caccia di un distillato di dolore “vero” da mostrare come reliquia o spoglia residua di una umanità che partecipa alla morte come partecipava alla vita....Una umanità ovvia che non c'è più, mi viene da pensare, se si ritiene meraviglioso solo il quadretto che ci rassicurava! Una donna che con troppa fretta dipinge i contorni di quel quadro non suo, e che lo fa a testa bassa ovviamente!
Eppure maledetta frase ad effetto stai bene persino qui, come se la verità non facesse nessuna differenza. Allora ho una idea: tu piaci tanto frase ambigua, perché tutto puoi contenere, vergogna onore merito e demerito, vita o morte tutto inghiotti nella tua logica nera che sa di cinismo. Di niente che si possa fare.
Tu indifferente, perfino alla vita che dici di conoscere, sei solo un insieme di parole che suonano bene come suona bene abracadabra: una sorta di malefica formula da non poter dire ad alta voce senza procurare la morte di qualcuno o la nascita di qualcun' altro al suo posto! Tu cantilena disincantata di una setta di stronzi chiamati esseri umani, mantra di ogni disinteresse per l'altrui esistenza o antidoto allo stupore se di qualche rilievo, essa anche fosse, spiegami ora come può essere meraviglioso un figlio che si uccide perché gay ai nostri giorni e come può esserlo la famiglia che non scorge per tempo il suo bisogno? Bisogno che davvero poteva non essere ovvio: che poteva essere quello di un no o di un si ma non senza uno sguardo!
Non provare a dare la colpa alla vita, io ti ammonisco di non provarci neanche a dire che “tu sai cosa” della vita! Quell'amore che un tempo non osava dire il suo nome oggi non osa nemmeno aiutare i suoi figli a pronunciarlo per la prima volta perché potrebbe essere Marco Giovanni Pietro o Paolo e non sarebbe più la stessa cosa!
I meravigliosi genitori di questo ragazzo che avrebbe forse avuto bisogno non di sola totale libertà o di una catena, ma di essere accompagnato verso il suo treno, di essere “preparato” anziché “spedito” per il suo viaggio, hanno minimizzato l'ovvietà, o l'hanno impedita? Magari di fronte ad una cena tra amici potevano vantarsi di lui, di come per loro fosse “normale” ovvio. O magari a quelle cene trovavano una scusa per non andare presi com'erano dalla vergogna? Mai ovvio. In ogni caso presi da se stessi, e non dall'amore per questo ragazzo hanno ignorato il suo bisogno, e ora insieme alla comunità dei vivi con eccessiva fretta si consoleranno. Possono fare finta di non essersi accorti che lui non sapesse come dirglielo, perché la vita non è mai ovvia giusto? O forse nemmeno pensavano che avesse qualcosa da dire.
L'accettazione e non la vita non è e non deve mai essere ovvia poiché banalizzerebbe lo stupore per il “nuovo” che avanza o che generiamo inconsapevoli, perché accettare non significa saltare quel momento in cui scegliere di farlo sul serio, ma soprattutto perché accettare senza coscienza o rifiutare con ignoranza fa torto proprio a Lei che resta un vero mistero: la vita.
Lei che si beffa delle nostre formule, dei nostri stregoni progressisti o arcaici, lei che non ha bisogno di noi,ma semmai il contrario: ovviamente. Lei che non ha fretta ne regole a cui sottostare.
Troppe volte in questi ultimi tempi avverto la fretta con cui chi vive muore e chi resta se ne fa una ragione. E' come una nota stonata, un tempo che manca in un ritmo, un passo saltato in una danza. All'inizio credevo fosse solo per brevità che dalle immagini di un cadavere si passasse alle immagini dei suoi congiunti impegnati in gesti quotidiani come imperturbati! Mi dicevo, che la vita col suo moto imperativo non ci consentisse altra scelta che riprendere a vivere, eppure c'era in quello sguardo di Zio Michele oggi, di mia madre ieri, un che di disumano, come anche nelle loro lacrime troppo difficili da tradurre e troppo facili da far scendere che non sai se asciugare confortando o se fare analizzare alla ricerca del gene alieno. Troppe volte persino io di fronte all'amica scaricata brutalmente dopo anni, mi sono trovato a dire in fretta: è successo a tutti, senza voler davvero sapere quanto per lei fosse unico quel dolore. Troppe volte la gioia pur raggiungendoci non sembra rinfrescarci come la risacca del mare su piedi nudi! E' la vita? Non è colpa nostra, ovvio.
E chi le vuole le colpe? Nessuno, allora ci si inventa delle frasi che sembrano spiegare tutto, la vita, la morte, il tempo che ci resta, se ne parla scioccati qualche ora e poi più niente,questo fino a quando non ci tocca personalmente.
Allora anche un semplice mal di pancia può diventare un oscuro presagio, qualcosa per cui non rispondere al telefono, o lavorare o finire ciò che avevamo iniziato. Io e solo io sono ciò che conta, le mie sensazioni, paure, desideri, bisogni! Forse tutta la finta luce che oggi gravita intorno a noi, e verso la quale sfarfalliamo impazziti alla ricerca di una fottuta singolarità, ci ha reso incapaci persino di viverla la vita ovvia o meno che sia, ma una cosa è certa: un ragazzino di quattordici anni ha diritto a “non sapere” come fare a vivere omosessuale o meno anche se diciamocelo fa ancora una certa gravissima, insopportabile, odiosa differenza, ma i suoi cazzo di genitori, quelli dovevano sapere come avevano fatto a dargli la certezza che non avrebbero accettato la sua natura. Vedendoli fare o dire cosa al riguardo lui se ne era convinto?
Magari a tavola, quando lui cercava di dirgli che era deriso dai suoi compagni, e la televisione era troppo alta, li avrà sentiti parlare dei “froci”? O non se ne poteva nemmeno parlare? o ancora se ne parlava con un tale esasperato entusiasmo da provarne vergogna comunque? Non lo so, forse sbaglio, ma non riesco a provare nessuna pietà per loro e mi irrita profondamente l'ondata di solidarietà che si riverserà su di loro che ancora fin troppo ovviamente sono vivi, e ai quali si dirà come a lui non si può più dire: coraggio, la vita non è mai ovvia.