lunedì 2 settembre 2013

In Viaggio con mamma'.

Pensavo che potremo godercela sai? Dopo tutti questi anni sprecati dovremo cogliere l'opportunità di farcela una risata io e te, perché diciamocelo, è colpa tua se oggi guardo la vita con la testa in “scelorsa”( espressione dialettale ligure che indica una posizione inclinata).
Va bene hai ragione, ho cominciato io...lasciamo stare. Secondo me però, anche tu con la tua arietta perbene, il caschettino devoto e la gonna a pieghe non hai una visuale tanto conforme: per esempio ti divertiva pettegolare di questa o quella persona con la tua amica. Vicine di posto con le gonne talmente alte in vita che il cinturino spariva sotto i seni , vi scambiavate gomitate e nascondevate i sorrisi dietro i fazzoletti facendo ballare la fila di panche durante la funzione domenicale. Oppure, quando le consigliavi quali medicine prendere, solo perché avevi comprato a rate l'Enciclopedia Medica della Garzanti e ti sentivi informata sui fatti.
Peccato che dopo tre giorni di male al braccio, curato coi tuoi consigli siamo andati al suo funerale e anche li come a quello di papà e di tutti gli altri, ci scappava da ridere. Ti ricordi?
Lo so che ti manca quell'unica amica, ma perché diamine non te ne sei fatta più di una? Tu e il tuo “senso della misura”! Per esempio quella che ti diceva: guarda che a 70 anni una donna è ancora giovane..in quel senso, parlando di uomini.
Comunque devi sapere che in quelle navi c'è l'ascensore da tanti piani ci sono. Ci farà bene litigare in alto mare e darci la buonanotte come piace a te: facendo finta di niente. Ma no che non sei troppo vecchia, come non lo eri quando ti sei messa in testa di prendere quella cagnolina che poi hai dato a me... solo perché ti scocciava fare le scale per portarla giù o quando hai telefonato alla casa editrice perché non volevi aspettare le uscite settimanali della “casa delle bambole” e te la sei fatta spedire già finita, pagandola una cifra indecorosa persino per Barbie! Come dici, sei una professionista dell'ansia? Già. Ben inteso ognuno ha la sua camera, perché quando sei andata a vivere dalla nonna e non c'era una camera per me è stato un supplizio sufficiente per entrambi dormire insieme, le volte che venivo a trovarti, come del resto lo era mangiare le cose che non sapevi cucinare. 
Hai ragione papà era bravo a cucinare, ma potevi anche imparare no? C'è il ristorante in crociera, così potrò cenare bene e avere il tuo imbarazzo come dessert! No che non sono sempre avvelenato con te, rimanevi fuori dai bar quando bevevo il caffè, figuriamoci che effetto ti farebbe una cena di gala!
Pensavo che guardando l'orizzonte potremo spiegarci affidando le nostre parole al mare, mettere da parte tu il tuo finto bigottismo e io il mio bisogno delle tue scuse e un po' di vittimismo, dopodiché camminando sul ponte esterno in direzioni opposte offesi a morte, rincontrarci esattamente dall'altra parte e provare a conoscerci davvero. Non come madre e figlio ma come due persone “diverse” a modo proprio e devi ammettere che io e te abbiamo sempre fatto tutto a modo nostro.
Ci pensi, alle serate danzanti quelle dove papà ti corteggiava e che frequentavi con la gonna anni cinquanta accompagnata dalle zie? Ti chiamavano la Superba e tu vuoi che creda che sei solo timida? Tu che quando gli ospiti tardavano ad accomiatarsi  gli dicevi: ce l'avete una casa?
Ora ridi, e se invece di giudicarmi e di nasconderti dietro a dio provassi a riderci sopra?
Non siamo stati lontani tutti questi anni perché io sono come sono o perché tu o Dio non potete accettarlo ma perché non abbiamo avuto il coraggio di fare quello che a entrambi riesce meglio: fregarcene, in fondo, nell'idea di non poterlo fare è quello che abbiamo fatto l'uno dell'altro, e io credo che sia questo il vero peccato, ma non sono dio. Tu sei Dio?
“Finalmente sei diventato il figlio che ho sempre desiderato avere”. Te lo ricordi questo biglietto sulla mia scrivania? Io quel giorno me ne sarei andato. Quasi diciotto anni dopo averlo fatto mi hai chiesto se avevo dei soldi, quando sono partito. Vedi che c'è da ridere? Che differenza avrebbe fatto? Mi è sempre andata bene, tranne che con te.
In crociera almeno potresti indossare le belle giacche da signora per bene che ti comprai mangiando pane e merda per il resto di un mese e io in cambio,  metterei la cravatta e la giacca come ti piaceva tanto quand'ero il figlio che volevi avere, poi ci facciamo una foto ricordo di quelle che devi pagare per averle e vedrai se non ti scapperà da ridere. 
Ridiamo mamma ti prego,  facciamolo insieme ancora una volta, perché i parenti li abbiamo seppelliti tutti. Come dici, cambiamo argomento che è meglio? Quanto costa una cassa da morto?

sabato 24 agosto 2013

mancate occasioni.

Un lettore che ahimé è rimasto anonimo mi ha fatto notare come le voci, reazioni,  che avevo inserito sotto ogni post fossero nel caso di post molto seri quale l'ultimo circa il suicidio del giovane ragazzo romano, del tutto inopportuni. Ho dovuto convenire con lui, e ricordare che li avevo messi in quel modo, (esilarante, toccante, risatina) al tempo in cui credevo di dover parlare solo con ironia di tutto. Come giustamente mi ha fatto notare, il senso magari anche profondo delle mie parole era del tutto in conflitto con quel tipo di definizioni che per altro devo ammettere che prevedevano solo un riscontro favorevole(altra grossa presunzione).
Mi scuso per non aver pubblicato anzi per averlo fatto e subito rimosso, il suo commento, caro lettore anonimo, non tanto perché  fosse poco lusinghiero quanto per l'imbarazzo in cui mi sono trovato condividendo con lei la sua impressione.
Spero di aver rimediato con i nuovi soggetti reazione: interessante, poco interessante, anche se non sono certo mi leggerà ancora e ancora maggiormente mi dispiaccio di non poterla ringraziare apertamente dato il suo anonimato, che visto l'interessante spunto offertomi avrei lodato volentieri per nome e cognome. Ci vuole coraggio nel parlare come parlo di certi argomenti o forse solo una gran faccia tosta e un pò di stupidità ma di entrambe ho piacere di rispondere con la mia stessa faccia. Mi spiace non abbia avuto la stessa audacia ma le sono grato comunque. Del resto l'anonimato è un diritto in rete anche se per me resta una mancata occasione!

lunedì 12 agosto 2013

ragazzo si uccide perché omosessuale? Non credo proprio.

La vita non è mai ovvia. Questa frase, se la senti o la leggi, suscita un immediato consenso ed è una  di quelle frasi che fanno breccia nei followers dei social network. Essa potrebbe indicare una presa di coscienza di quelle che fa maturo mostrare  di fronte ad un funerale improvviso, o sarebbe perfetta per  sentire meno  disagio se i figli si fidanzassero con qualcuno che viene da un paese impronunciabile, oppure ci renderebbe  ammirevoli se  pronunciata tra amici di fronte ad una delusione cocente.
La solennità con cui queste poche parole ammoniscono dal luogo comune è apparentemente inconfutabile. A questo genere di frasi appartengono credo gli aforismi, e verosimilmente queste lapidarie sentenze sulle cose della vita si prestano con efficacia anche agli epitaffi, perché come diceva un proverbio biblico: è meglio la fine di poi di una faccenda che il suo inizio, ed è solo allora che siamo in grado di centrifugare l'essenza di una vicenda, di una vita, di un periodo storico.
Ma perché questa frase ci colpisce davvero? Si potrebbe dire che la vita di milioni di persone sia di una ovvietà imbarazzante e questo confuterebbe la tesi iniziale per cui nessuno che viva può vivere con ovvietà, tuttavia a non essere ovvia è la vita in sé, non la vita delle persone.
La forza vitale che ci anima non è ovvia, nonostante poi tutte le vite abbiano un principio uno sviluppo e una fine, perché ci appare sorprendente, perché  la vita non è mai stata spiegata fino in fondo.
Credo di poter azzardare che adoriamo dire o sentir dire che la vita non è mai ovvia poiché se lo fosse non sarebbe abbastanza eccitante vivere. Ecco cosa ci colpisce davvero, la paura che la vita sia solo un conto alla rovescia senza eccezioni e con anche la probabilità che si compia senza nulla di eccezionale, ma che soprattutto essendo per ora dimostrato che è “una” sola, potrebbe essere più noiosa di quella di un pesce rosso nella boccia. E quella noia mortale sarebbe spaventosa anche se limitata nel tempo. Quella noia piatta potrebbe essere la nostra.
Nonostante per tali ragioni e svariate altre che non sono in grado di enunciare o immaginare, sembri orribile avere una vita ovvia, in realtà ciò che sopportiamo e assorbiamo meno bene sono proprio i cambiamenti e molti di noi, hanno pur se d'accordo con l'enunciato, il bisogno fondamentale che la loro vita scorra ovviamente. Mia madre per esempio era una di queste persone e di fronte alle “sorprese” della vita il suo più grande sforzo era di fare come se niente fosse, di approntare velocemente una sorta di routine che azzerasse l'impatto degli eventi e di conseguenza il loro apporto verso il cambiamento. In effetti riuscì con questa modalità a farci credere di avere una autentica forza morale di fronte alle avversità, ma siccome di fronte alle improvvise gioie aveva lo stesso atteggiamento di nessun stupore, comprendemmo che si trattava di semplice abulia, di una profonda incapacità di dare sapore alla propria esistenza.  Avrebbe di certo concordato col fatto che la vita non fosse mai ovvia, ma senza vedere in questo  nessuna opportunità! 
Al contrario, mio padre pur conducendo una vita apparentemente ovvia per un capofamiglia, coltivava in segreto un desiderio di avventura. Tra gli ordinati attrezzi del suo garage, sembrava prepararsi a una qualche missione esplorativa che non cominciò mai.  Nemmeno la sua vita fu tanto ovvia, secondo lui, poiché visse nell'incomprensione perenne del perché i suoi desideri, come quello di avere un orto, di comprare una casa,  di avere dei figli suoi, e  di avere una moglie che lo supportasse in tutto ciò con entusiasmo, non si fossero mai realizzati nel modo in cui li aveva immaginati. Di fatto viveva in una casa con una moglie e due figli, il che faceva sembrare ovvia la sua esistenza agli occhi degli altri, ma in cuor suo sapeva come questi fattori fossero precipitati nella sua vita in modo tutt'altro che ordinato naturale e armonioso..
Ma mio padre però fu capace di stupore quando di fronte all'incurabilità della sua malattia, e agli infausti esiti che sapeva avrebbe prodotto disse, vedendoci assisterlo come “ovviamente” i nostri sensi di colpa ci costrinsero a fare oltremisura : non sapevo di avere una famiglia che mi volesse bene! 
L'attaccamento per l'ovvietà di mia madre la spinse a una capacità di sopravvivenza straordinaria paragonabile solo a quella di alcuni batteri o degli scarafaggi, mentre mio padre desiderò talmente una vita meno ovvia da partire anzitempo per il più misterioso dei viaggi: quello senza testimoniato ritorno!
Io, singolare prodotto di entrambi per semplice osmosi, mi ritengo capace di sopravvivere a molto come la parte batterica di mia madre ma con lo stupore costante di mio padre meno il suo coraggio e la sua attrazione per l'ignoto. Io che di ovvio non gli ho dato niente. Io che non ho nessun merito per questo, né una colpa. Io che  vivo perché non ho scelta migliore.
 La mia vita non è stata del tutto ovvia sebbene oggi non sia affatto eccitante, ma di certo è stata varia finora, curiosa, controversa, complicata, veloce e lenta  ma soprattutto libera da paure del cambiamento  e bisogni insensati di scopo. Sono cosciente che la maggior parte delle cose che mi avevano insegnato fossero ovvie non lo sono affatto per me, e che però neanche il rischio e la tensione dell'anticonformismo ad ogni costo fanno di questo percorso qualcosa di più da quello che è: una manciata di immagini e sensazioni simili a quelle che vedi dal finestrino di un treno in corsa.
Incerto alla partenza, passibile di imprevisti, ritardi e incidenti “di percorso”, questo viaggetto chiamato vita, comincia veloce a tal punto che ti sembra ingiusto,  raggiunge un andamento apparentemente costante nel quale non riesci a mettere a fuoco le cose o le persone che vedi come vorresti e quando credi che sia stabile e ti permetta di sentirti abile nel cogliere i dettagli , rallenta fino a che il paesaggio diventa sempre meno vario e di solito si ferma di fronte al più stupido dei fotogrammi: un lampadario troppo vecchio, una stradina del cazzo vista e rivista, un pezzo di cielo, un suono, una voce indistinta o familiare, un angolo buio, caldo e freddo.
Mi chiedo,  sentendo nel 2013 che un ragazzo di tredici o quattordici anni fa volontariamente un volo di 20 metri dopo essersi ferito con tagli  gambe e braccia, proprio verso quell'angolo buio, se è l'ovvietà della sua vita che lo ha spinto. Quella frase che ha iniziato i miei pensieri: la vita non è mai ovvia,  perché ora mi sembra orribile? Perché l'averla condivisa con quel cenno di consapevolezza del capo, ora mi fa sentire in colpa verso questo giovane, come se gli  fossi stato indifferente anziché di qualche aiuto come dovrei essere data la mia età?
Chiede perdono ai genitori per ciò che ha fatto, non chiarendo se lo fa per essersi ucciso o perché era gay. Quale di queste due cose nella sua famiglia, non era ovvia o lo era, con tanta  certezza da far preferire la morte alla vita?
“Un ragazzo meraviglioso, con una famiglia meravigliosa” dice una donna intervistata da un cronista a caccia di un distillato di dolore “vero” da mostrare come reliquia o spoglia residua di una umanità che partecipa alla morte come partecipava alla vita....Una umanità ovvia che non c'è più, mi viene da pensare, se si ritiene meraviglioso solo il quadretto che ci rassicurava! Una donna che con troppa fretta dipinge i contorni di quel quadro non suo, e che lo fa a testa bassa ovviamente!
Eppure maledetta frase ad effetto stai bene persino qui, come se la verità non facesse nessuna differenza. Allora ho una idea: tu piaci tanto frase ambigua, perché tutto puoi contenere, vergogna onore merito e demerito, vita o morte tutto inghiotti nella tua logica nera che sa di cinismo. Di niente che si possa fare.
Tu indifferente, perfino alla vita che dici di conoscere, sei solo un insieme di parole che suonano bene come suona bene abracadabra: una sorta di malefica formula da non  poter dire ad alta voce senza procurare la morte di qualcuno o la nascita di qualcun' altro al suo posto! Tu cantilena disincantata di una setta di stronzi chiamati esseri umani, mantra di ogni disinteresse per l'altrui esistenza o antidoto allo stupore se di qualche rilievo, essa anche fosse, spiegami ora come può essere meraviglioso un figlio che si uccide perché gay ai nostri giorni e come può esserlo la famiglia che non scorge per tempo il suo bisogno? Bisogno che davvero poteva non essere ovvio: che poteva essere quello di un no o di un si ma non senza uno sguardo!
Non provare a dare la colpa alla vita, io ti ammonisco di non provarci neanche a dire che “tu sai cosa” della vita! Quell'amore che un tempo non osava dire il suo nome oggi non osa nemmeno aiutare i suoi figli a pronunciarlo per la prima volta perché potrebbe essere Marco Giovanni Pietro o Paolo e non sarebbe più la stessa cosa! 
I meravigliosi genitori di questo ragazzo  che avrebbe forse avuto bisogno non di sola totale libertà o  di una catena,  ma di essere accompagnato verso il suo treno, di essere “preparato” anziché “spedito” per il suo viaggio, hanno minimizzato l'ovvietà, o l'hanno impedita? Magari di fronte ad una cena tra amici potevano vantarsi di lui, di come per loro fosse “normale” ovvio. O magari a quelle cene trovavano una scusa per non andare presi com'erano dalla vergogna? Mai ovvio. In ogni caso presi da se stessi, e non dall'amore per questo ragazzo hanno ignorato il suo bisogno, e ora insieme alla comunità dei vivi con eccessiva fretta si consoleranno. Possono fare finta di non essersi accorti che lui non sapesse come dirglielo, perché la vita non è mai ovvia giusto? O forse nemmeno pensavano che avesse qualcosa da dire.
 L'accettazione e non la vita non è e non deve mai essere ovvia poiché banalizzerebbe lo stupore per il “nuovo” che avanza o  che generiamo inconsapevoli, perché accettare non significa saltare quel momento in cui scegliere di farlo sul serio, ma soprattutto perché accettare senza coscienza o rifiutare  con ignoranza fa torto proprio a Lei che resta un vero mistero: la vita. 
 Lei che si beffa delle nostre formule, dei nostri stregoni progressisti o arcaici, lei che non ha bisogno di noi,ma semmai il contrario: ovviamente. Lei che non ha fretta ne regole a cui sottostare.
Troppe volte in questi ultimi tempi avverto la fretta con cui chi vive muore e chi resta se ne fa una ragione. E' come una nota stonata, un tempo che manca in un ritmo, un passo saltato in una danza. All'inizio credevo fosse solo per brevità che dalle immagini di un cadavere si passasse alle immagini dei suoi congiunti impegnati in gesti quotidiani come imperturbati! Mi dicevo, che la vita col suo moto imperativo non ci consentisse altra scelta che riprendere a vivere, eppure c'era in quello sguardo di Zio Michele oggi, di mia madre ieri, un che di disumano, come anche nelle loro lacrime troppo difficili da tradurre e troppo facili da far scendere  che non sai se asciugare confortando o se fare analizzare alla ricerca del gene alieno. Troppe volte persino io di fronte all'amica scaricata brutalmente dopo anni, mi sono trovato a dire in fretta: è successo a tutti, senza voler davvero sapere quanto per lei fosse unico quel dolore. Troppe volte la gioia pur raggiungendoci non sembra rinfrescarci come la risacca del mare  su piedi nudi! E' la vita? Non è colpa nostra, ovvio.
E chi le vuole le colpe? Nessuno, allora ci si inventa delle frasi che sembrano spiegare tutto, la vita, la morte, il tempo che ci resta, se ne parla scioccati qualche ora e poi più niente,questo fino a quando non ci tocca personalmente.
Allora anche un semplice mal di pancia può diventare un oscuro presagio, qualcosa per cui non rispondere al telefono, o lavorare o finire ciò che avevamo iniziato. Io e solo io sono ciò che conta, le mie sensazioni, paure, desideri, bisogni! Forse tutta la finta luce che oggi gravita intorno a noi, e verso la quale sfarfalliamo impazziti alla ricerca di una fottuta singolarità, ci ha reso incapaci persino di viverla la vita ovvia o meno che sia, ma una cosa è certa: un ragazzino di quattordici anni ha diritto a “non sapere” come fare a vivere omosessuale o meno anche se diciamocelo fa ancora una certa gravissima, insopportabile, odiosa differenza, ma i suoi cazzo di genitori, quelli dovevano sapere come avevano fatto a dargli la certezza che non avrebbero accettato la sua natura. Vedendoli fare o dire cosa al riguardo lui se ne era convinto? 
Magari a tavola, quando lui cercava di dirgli che era deriso dai suoi compagni, e la televisione era troppo alta, li avrà sentiti parlare dei “froci”? O non se ne poteva nemmeno parlare? o ancora se ne parlava con  un tale esasperato entusiasmo da provarne vergogna comunque?  Non lo so, forse sbaglio, ma non riesco a provare nessuna pietà per loro e mi irrita profondamente l'ondata di solidarietà che si riverserà su di loro che ancora fin troppo ovviamente sono vivi, e ai quali si dirà come a lui non si può più dire: coraggio, la vita non è mai ovvia. 
 

mercoledì 7 agosto 2013

Tacchi e Rintocchi ultimo capitolo: fai un salto, fanne un altro.



Se le mie amiche erano come le descrivo perché non le mandavo semplicemente 
al diavolo seguendo l'idea femminile che ce ne fossero di migliori altrove? Nella Milano che avevo tanto amato per il suo anonimato leggero come ero finito in questo gine-praio?
In parte, perché nei dieci anni, che avevo vissuto col mio uomo, avevo avuto modo di apprezzare il suo amore per le donne, e in parte perché con i maschi non potevo avere rapporti di amicizia, che non fossero velati di una qualche impurità tra l'attrazione o l'invidia.
Mi ricordo però la prima impressione nell'entrare in un locale gay: il fatto di non vedere donne mi sembrava la cosa più simile alla perfezione che ero in grado di immaginare, e inoltre, vedevo ognuno di questi uomini come un esempio di coraggio, perché è chiaro che in un mondo machista ce ne voleva molto ad essere “noi”, e sebbene ci fossero come imparai col tempo diversi pezzi di merda anche tra “noi”, non potevo che sentirmi anche io parte di una “fratellanza” mondiale che cominciava ad osare a dire il suo nome.
A queste sensazioni rimasi legato per molti anni, a tal punto che quando incontrai il mio Sagittario, lui mi disse: tu vedi tutto il mondo gay! Riflettei molto su quella frase, e immaginai che forse rischiavo davvero di avere una visuale troppo “di parte” e mano mano che le nostre vite si fondevano, mi addentrai come Dante nei gironi di quell'inferno femminile che rappresenta il necessario equilibrio della vita.
Questa esplorazione mi fu agevolata da lui e da alcune sue amicizie femminili che con gli anni , in parte si affievolirono rimanendo conoscenze effettivamente affettuose ma meno vincolanti. La tendenza ad avere con le donne un rapporto molto intenso gli era rimasta essendo cresciuto come unico maschio in una grande famiglia di femmine, per cui,  lui era uno di quei gay che trovano opprimente la sola frequentazione di uomini, ma che però facilmente finiscono “schiacciati” dal   mutevole favore delle donne.
In fondo, dovevo aver pensato che  invecchiando i locali e la vita gay mi sarebbero apparsi meno sfavillanti, anche a causa del fatto che come le donne i gay dopo i quaranta non interessano più a nessuno, e che non avrei sopportato su di me lo sguardo di patetica commiserazione riservato ai “vecchi” nel mio ambiente, come alle donne “vecchie” nell'ambiente degli altri. Ben poco mi consolava inoltre la nuova tendenza dei giovani a concupire anziani signori e signore che in entrambi i mondi finivano col farsi troppo male, quindi quando incontrai i dolci occhi di Ahia, il sorriso da “ragazzaccio” di Secondo Te, e l'energico dinamismo di Assolutamente, mi dissi che in fondo dopo anni passati a considerarmi figlio di una donna “mio malgrado” potevo considerare la loro amicizia come una pacificazione con le mie origini.
Le dinamiche che vi ho raccontato di loro, non sarebbero poi così singolari se ad attuarle non fossero proprio state loro tre, perché se è vero che al buio le gatte si assomigliano, è vero che ognuna ha un suo miagolìo e che quel suono è fastidioso o infinitamente tenero a seconda della quotidianità in cui si produce. 
Resto dell'idea che conoscerle mi abbia chiarito che l'amore così come l'amicizia è eterna finché dura, ma che dura anche quando è negata o lasciata in disparte,  che per certi versi siamo tutti più uguali di quanto ci piaccia ammettere, che crediamo di dover fare la differenza solo se scambiamo l'esistenza per un casting da “protagonista” che non possiamo sempre vincere, ma più di ogni altra cosa vivere gli anni della nostra amicizia mi ha fatto immaginare un futuro in cui ormai vecchi potremo ancora scorgere nei nostri occhi quel “qualcosa” che abbiamo rotto o rattoppato mille volte ancora,  come un segreto tutto nostro. Sapere chi siamo stati e chi non potremo più essere, senza vergognarci. 
Perché questo credo sia davvero ciò che non si può comprare in una amicizia con una donna: la certezza di riuscire a viverle  abbastanza a lungo da permettergli di rinunciare a  mistificare chi siano, senza più il timore di essere abbandonate o giudicate per questo. Abbastanza da provare la gioia di “saperci” nei nostri  aspetti meschini e umani al tempo stesso, come nessun altro. Di saper  costruire la  fiducia che quella persona che ci ha detto di noi, ciò che non volevamo sapere, o che non vorremmo si sapesse,  lo ha fatto per restare con noi, con quella parte di noi che arriviamo a far finta che vada bene o a rifiutare fino a quando non sia più importante né l'uno né l'altra opzione.
Nella mia  incomprensione affettuosa, e nel ticchettìo del tempo che ci è voluto per accettarci come siamo, scandito dai loro tacchi che col passare del tempo non potranno essere più tanto alti, io mi auguro che i nostri passi possano continuare a scorrere vicini fino quasi a confondersi, così come il tempo confonde i generi e nella sua inclemenza ci spinge ad ammettere che siamo solo esseri umani e non dee o dei .
Tra le panchine di un parco, una di loro noterebbe un pampano disegnato per terra con un gessetto da qualche bambina: ogni casella un numero, ogni numero un salto o una giravolta da fare, e seduti vicini i nostri occhi forse velati( i miei) forse troppo truccati(i loro), si muoverebbero furbetti aspettando che Secondo Te si alzi fingendo che non le importi, si avvicini al disegno e tra le rughe che il botox non può più distendere, ci sorrida poggiandoci dentro un piede, come se volesse sfidarci ancora una volta. Allora Assolutamente tuonerebbe una risata fragorosa dicendole: tu sei matta, io ero bravissima a quel gioco e  Ahia  stringendosi a me con le scarpette morbide che diversi anni dopo avrebbe accettato in regalo, mi direbbe: sarà meglio che andiamo anche noi, prima che si faccia male malferma com'è diventata...e io che, a quel punto della vita, sarei un vecchio come tanti altri se non fosse per quel papillon rosa e la paglietta in testa regalata da loro, farei il primo salto strizzandogli l'occhio come se fossimo ancora noi, come se il tempo non fosse mai passato. Come se “qualcosa” ci fosse ancora. La vita, l'amicizia.

Tacchi e rintocchi capitolo 18: beati gli ultimi?




Le mie amiche erano felici per me? O soffrivano se io soffrivo?  Di certo io ero quello che soffriva quando tra loro le cose si incastravano nel dedalo di giochetti e rescusoni (espressione dialettale ligure che intende definire le bugie in modo carino) nei quali si perdevano, piccandosi l'un l'altra per quella frase o quel messaggio. Mi resi conto, che la mia sceneggiatura perfetta in cui tutti e quattro noi condividevamo umori e pudori ma anche la vita con i suoi colpi bassi, facendoci coraggio l'un l'altro,  era un tantino romanzata. 
Ahia fingendosi offesa, aveva dovuto fare una scelta tra gli spermatozoi del suo fidanzato e la mia amicizia e dato che con quest'ultima non si resta incinte, aveva scelto di farmi fuori anche perché sul social network avevo detto chiaro e tondo al suo fidanzato cosa pensavo del suo snobbismo, e quindi, secondo lei, avevo fatto sapere a qualcuna che “stava con un idiota”. Secondo Te, dopo aver tagliato per prima il nastro della convivenza col suo uomo finì a litigare con me sul treno proprio dopo averla aiutata a fare armi e bagagli per tornarsene a casa, preoccupata del fatto che “qualcuna si sarebbe sfregata le mani”per il suo fallimento.  Assolutamente dal canto suo, proprio non aveva sopportato che le dessi della stronza per la sua insistenza nel volere aver ragione ma era ben lieta di riconfermare la sua amicizia a chi lo pensava senza dirglielo nei denti una sola volta.
Che dire? Io e il mio sagittario “a vapore” rimanevamo sempre schiacciati dai loro dolori, dissapori, e tragedie, fino a litigare tra noi, mentre loro con incantevole candore parevano capaci di dimenticarseli in virtù di un week end o di una nuova alleanza che di nuovo aveva veramente poco. Ricordo come erano solite dirci: siete troppo buoni, per riferirsi al fatto che lo eravamo con quella di loro che meno lo meritava, ignorando che ciclicamente quell'una era una di loro!
Persino la decennale durata del nostro rapporto che di certo non era come loro descrivevano i propri ma più realisticamente fatto di grosse sfide e difficoltà superate al costo della reciproca salute mentale e fisica, e di una buona dose di eccitazione andata a farsi fottere, era visto per loro come una “fortuna”. Fortuna? 
Era proprio sfortunata Ahia a non rimanere incinta nell'esatto momento in cui lo voleva come voleva una telefonata di scuse al posto delle scarpe che le avevo mandato, perché spendere soldi non aggiusta le cose che “si rompono”. Quanto avrei voluto dirle che essere così cattiva con me non avrebbe reso gli spermatozoi di nessuno abbastanza coraggiosi per quel viaggio, né quell'uomo che usava,  più sensibile ai suoi dolori, oppure dire a Secondo Te, che la sfortuna non era stata quella di essere lasciata al telefono dopo tre anni di convivenza ma quella di non riuscire ad accorgersi che quell'uomo lo aveva fatto dopo aver accettato che esistesse solo lei ed essersi accorto che non valeva lo stesso per lui. Che era vero che i suoi bisogni venivano sempre prima di quelli di chiunque altro, e che in tutti quei tre anni lei aveva vissuto credendo che la fortuna fosse di quell'uomo, almeno fino a quando lui le chiarì che la fortuna non è amore.
Avrei detto volentieri ad Assolutamente che non era sfortunata se la cameriera andava in pensione o la lavatrice si rompeva, come lei sosteneva, ma che la sua vera sfortuna era quella di non sopportare di vivere un giorno da stronza, vivendone mille sotto il compromesso mal digerito delle vacanze estive  che il  suo “fidanzato” trascorreva che le piacesse o meno con lex moglie e le sue figlie. Vacanze che il suo ex marito non si era mai sognato di passare con lei e il suo.
Ma io ero “fortunato”, perché avevo un uomo che non mi aveva lasciato, sia che facessi sesso o no, che fossi bello o meno, che i soldi ci fossero o no, quindi non potevo dirglielo.
 Si ero fortunato e mi sentivo tale anche quando lui sembrava non avere più niente da offrirmi, quando miseri e preoccupati ci davamo la schiena nel letto per non farci vedere l'un l'altro piangere dal dolore di quella notizia di un medico o di un commercialista che vedeva i nostri progetti andare in fumo. Fortunato, quando la mattina dopo, lui trovava la forza di andare avanti nel farmi la colazione, e io la sera nel riporre nei suoi cassetti le polo tutte uguali che gli stiravo come se andasse tutto bene. Intanto che avevo delle amiche talmente “sfortunate” che mi dicevano: beato te. 

Tacchi e Rintocchi capitolo 17: la sorellanza mondiale

Parlando di ciò che si riteneva “normale” tra me e le mie amiche, ad altre donne mi sentivo sempre fare la stessa domanda: vabbé dai ma che donne frequenti? Non siamo mica tutte così!
Certamente io nell'esporre le mie sensazioni al riguardo da un lato non potevo non riferirmi ad uno
specifico punto(il mio) da cui guardavo un panorama così vasto, e dall'altro non potevo non generalizzare. In fondo ogni collina è fatta di platani, tigli, olmi e castagni ma non la definiamo forse alberata e basta?
Sembrava un po' come se loro, parlando di uomini, potessero generalizzarci  nel termine stronzi, ma guai a non fare le dovute peculiari differenze parlando di loro.  In questa Terra di Mezzo in cui io parlavo di donne alle donne, i miei piedoni di hobbit gay non potevano che inciampare rovinosamente. A tutt'oggi mi sono convinto che ci sia una coscienza femminile che  vive in ognuna di loro come parte di una collettività che però vale solo per i suoi membri, una sorta di setta in cui si appartiene tutte ad un culto superiore ma guai a confondersi tra discepole sacerdotesse e “anziane”, e che le vede “come un sol uomo”(curioso gioco di parole?) contro l'invasore maschile, che viene utile al fine di perpetuare la nascita di nuove adepte, ma al quale viene fatto credere di doverne trovare una che sia speciale e unica.
Nel caleidoscopio delle loro unicità io vedevo le mie amiche a turno adottare gli stessi schemi che le avevo sentite definire come non propri. Come quando, per un motivo sempre valido decidevano di uscire tra loro lasciandone una a casa, la quale poi veniva a saperlo da quella che non era una loro amica ma una di quelle che in quei giorni in cui le amiche non le sopporti va anche bene uscirci, e che suppongo non troppo involontariamente non teneva il “grande” segreto! Inutile dire che le rare volte in cui provavo a chiedere cosa mai le spingesse a simili panegirici piuttosto che dirsi in faccia: oggi non ti reggo e ho voglia di non vederti, mi sentivo dire: tu sei il solito sgarbato, in fondo è una mia amica! Oppure magari mentre sorseggiavo con una di loro un succo di frutta al pompelmo, rispondevano al telefono, senza dirsi che erano con me,  tenendolo lontano dall'orecchio per non sorbirsi la stufida dell'altra intercalando con qualche frase adeguata tipo: si certo, no certo, al termine della quale fargli notare che quella era la stessa persona a cui avevano telefonato in lacrime e che se le era sorbite(forse nello stesso modo?) qualche mese prima, sembrava più acido dell'agrume appena spremuto.
Fattori come la libertà individuale, l'affinità elettiva, la carica negativa, sembravano giustificare in egual modo atteggiamenti opposti e in tutto ciò non potevo fare a meno di chiedermi che ruolo avessi. Nella loro setta io ero come l'eunuco negli harem? Privo di quella minacciosa virilità ma in sembianza sufficientemente maschile da poter essere una buona “copertura” venivo lasciato libero di circolare per il loro tempio, e forse per questo privilegio non mi si perdonava la maniera diretta in cui talvolta gli dicevo che più che un tempio mi pareva una palafitta, e per giunta neanche stabile!
Il bello delle donne, è che trovano sempre il modo di riunirsi come le gocce di mercurio del termometro, ed è per questo che si sentono obbligate a dividersi: per il piacere di ritrovarsi come i maschi non sanno fare tra loro. La loro coscienza collettiva le mette in condizione di capire istintivamente che possono essere contraddittorie  singolarmente solo se lo possono anche le altre, che saranno sopportate, perché ne avranno bisogno, solo se sopporteranno le singolarità delle altre. Una sorta di eucaristica comunione che annulla nel mucchio delle “fedeli” l'imperfezione originaria, in un certo senso, quella femminile, è la più grande religione del mondo. Una autentica sorellanza mondiale che si protegge non ammettendo la propria esistenza.
Si, forse ero un privilegiato o uno stupido al servizio di una dea crudele, ma di certo le donne che dicevano che le mie amiche erano una sorta di aliene, avevano amiche con le quali sono certo riproducessero dinamiche simili in modi del tutto unici.  Io ero come tutti i maschi figlio di una di “loro” con la preziosa unicità di essere nato esente dal bisogno di risalire al mio delta e libero quindi di non doverne trovare una su tutte. E per questo in grado di guardarne una per vederle tutte sapendo però che se lo avessi detto, nessuno mi avrebbe potuto credere.

Tacchi e Rintocchi capitolo 16: gallina..nel suo brodo

Questa ricetta sobbolle da secoli, perché da sempre l'ingrediente principale è da viva accusata di essere scema ma da morta pare sia la panacea di tutti i mali. Ma se la Gallina fosse scema davvero perché da sempre le vogliono tirare il collo?  In ogni caso per la mia esperienza va lasciata nel suo brodo che pare abbia effetti corroboranti e calmanti, soprattutto per la gallina stessa, che se “vecchia” lo fa anche buono.
Ingredienti: una gallina di almeno quarantacinque anni che sia sola “come un gambo di sedano”, che va incluso, un po' di aglio contro i vampiri che le girano attorno, decisamente più di una carota che sarà facile trovarle accanto sotto forma di amante clandestino, una corona di alloro se laureata, un ciuffo di amiche presenti come il prezzemolo, una cipolla per facilitarne le lacrime, sale da aggiungere quanto basta poiché non ne ha in zucca, pepe perché tende ad essere apatica.
Preparazione:  per prima cosa la “gallina” va trovata! Potete facilmente trovarle agli happy hour.  Dopodiché, dopo averla lusingata vi seguirà in cucina o in hotel. Criticate il suo guardaroba a fiamma vivace fino a che non saprà più che farsene delle sue piume, anche se esistono galline già depilate che si sentono molto cool.
Una volta che sarà convinta di essere la regina del pollaio, mettetela in una “pentola dei desideri”da sola perché sarebbe capace di litigarsi il posto come se fosse un trono, o aspettate che ci si metta da sola( le galline single sono molto cooperative quando si tratta di farsi cucinare nei propri sogni) Aggiungete la solita carota dietro la quale c'è sempre il bastone, la corona d'alloro degli studi, le lacrime di cipolla, le amiche prezzemolo, la gamba di sedano “sola” e copritela di acqua di rose o benedetta se siete credenti.
Ci sono due tipi di “cottura” per la gallina single, entrambi efficaci: il primo, più facile,  è quello di farla cuocere da fidanzati, il secondo più elaborato ma che rende il brodo più saporito è quello di non esserle amico e rinunciare a capirla...lasciandola nel suo brodo. In entrambi i casi la gallina una volta nella pentola in cui si creda al sicuro,  va incoperchiata ma come già detto è capace di chiudersi da sola il coperchio in testa pur di sentirsi unica.
Lasciate per diversi anni che la gallina si lamenti, pianga, chiacchieri coi ciuffi di prezzemolo sminuendoli o facendoseli vicini, si giuggioli con la carota del beneamato, e tutta presa nell'organizzarsi l'esistenza nella Pentola dei suoi desideri, formerà un brodo denso nel quale lascerà tutti i grassi delle sue illusioni,  finendo per credere che va tutto bene.
 Una volta trascorso questo tempo, fatto di borbotii e progetti e discussioni monotematiche, fatela raffreddare in un luogo molto freddo non cagandola di striscio, fingete se vi pare una pausa di riflessione se il metodo di cottura è quello “da fidanzati”, o lasciatela convinta di poter fare a meno di voi se invece l'avete lasciata cuocere da “amico”. 
Prelevate la patina di illusioni dal “suo brodo” e gettatele nel water insieme a gran parte della sua autostima, e prelevate anche la gallina che di solito apparirà un po' lessa e provata. La carota potete buttarla perché se c'è una cosa di cui la “gallina single” non ha più bisogno dopo aver fatto buon brodo è di una carota molle( nel caso siate fidanzati tanto di più), dopodiché ditele che è troppo magra, o portatela davanti allo specchio dove improvvisamente si accorgerà di essere diventata “vecchia”.
Potete bere il suo brodo, o lasciare che vi ci anneghi come se l'avesse fatto per colpa vostra.
Anche la scienza concorda sulle proprietà rilassanti e curative del brodo di “gallina vecchia”, anche se in fondo è sempre la solita minestra.
Se credete che la gallina che ha fatto buon brodo ci abbia rimesso il cento per cento non conoscete le galline abbastanza bene, perché troverà il modo di credere che ora che è magra e lessa le abbia anche fatto bene la “remise en forme” e tornerà dopo un ragionevole periodo a “sgallinare” agli happy hour. La riconoscerete perché indosserà piumaggi troppo stretti o colorati per confondersi tra le giovani...in quanto alla teoria che sia scema....fate voi.