lunedì 26 ottobre 2015

La banda del 52 cap 19: istruzioni di volo.


C'è vento a Genova quasi ogni giorno, ma alcuni giorni il vento soffia con l'intensità di chi ha deciso di sollevarti per aria o spazzarti via: nessuna via di mezzo. In quei giorni si ritirano i vasi dai balconi, si assicurano le persiane e nelle terrazze coltivate si spezzano le delicate piante di lamponi se non sono state coperte. 
In quello stato di tensione, non tutti si trincerano impauriti, i passeri per esempio o i gabbiani insegnano ai propri pulcini a lasciare il nido, a vivere o morire, di certo a lasciarlo comunque. 
Nessuno conosce cosa li spinga a quel balzo nel vuoto e ormai stretto nel mio letto singolo, mi chiedevo se non fossero anche loro esausti da quella sensazione di costrizione, se non lo fossero a tal punto da accarezzare il sapore della morte, pur di  poter nascere o volare.  Ero certo che gli esseri umani che si dicevano essere la mia famiglia, non avessero nulla in comune con me ma neanche il mondo sembrava invitarmi a una seconda scelta, che fare perciò? Con chi condividere il doloroso senso di unicità che mi era stato riservato? Cosa farne, non potendo rinunciarvi senza sentirne la mancanza come, dello spazio ne sentivano i miei piedi in quel lettino?
A nulla valeva più premere il pollice tra l'indice e il medio come facevo da bambino o torturarsi il cazzo come avevo preso a fare dopo. A furia di gridare in silenzio finii col sentirmi talmente male da alzarmi dal letto una notte e cadere per terra, privo di sensi o quasi. 
Luci, rumori, odori  e immagini, vorticavano tra la coscienza e il sogno, in un posto liquido dove non ero corpo ne pensiero ma piuttosto, tutti i miei sensi insieme. La sirena, il freddo di un lettino metallico e poi una voce calda e pacata che si distingueva dai suoni delle voci spaventate che mi circondavano che diceva: va tutto bene. 
Ci ero già stato all'ospedale, quando avevo otto anni e da cinque la chiamavo mamma, sperando avesse senso per lei perché io non sapevo ancora cosa significasse, nel reparto di ortopedia dell'ospedale dei bambini, ero quello meno strano con la mia gambetta e il piede capace solo di stare giù, perché il bambino del letto a fianco, aveva le dita delle mani storte e tutte unite e gli altri la testa quadrata e le gambe corte piene di ferri. Qualche coglione di infermiere ci disse che avremo visto la proiezione di una fiaba: Biancaneve e i sette nani, ma non mi dissero che si chiamavano così anche quei bambini che non sarebbero mai cresciuti, ne che il mio intervento alla gamba non mi avrebbe visto inchiodato come loro. 
Il medico del pronto soccorso disse alcune cose mentre io riprendevo coscienza dei miei quasi diciassette anni nella sala visite poi mi lascio' li da solo mentre ritornavo corpo e pensieri. Sentii di nuovo quella voce calda ma stavolta, accompagnata da un viso da capelli ricci, occhi verdi e la giacca arancione dei lettighieri della Croce Bianca. Era lì ma sembrava non avesse dovuto, perché prima che potessi dire qualcosa mi aveva accarezzato ed era uscito in fretta, lasciando entrare i miei genitori i quali, forse per lo spavento non mi accarezzarono ma anzi, mi vestirono alla bene meglio con i gesti frettolosi di chi ha perso la pazienza, per riportarmi a casa. 
Molti giorni dopo quel fatto, un giorno prendendo un autobus affollato vidi una figura che avanzava sventolando una mano, gli stessi capelli ricci e occhi verdi ma nessuna giacca arancione. Ciao ti ricordi di me? 
Feci un poco di fatica tra l'imbarazzo la memoria ma quando fu vicino, non ebbi dubbi. Si chiamava Salvatore: un nome calzante per un volontario di croce. 
Era più grande di me sapeva di uomo fatto sebbene giovane, non c'era traccia in lui della mia goffaggine e parlava sicuro senza mai lasciarmi abbassare gli occhi come avrei voluto fare, mi disse altre cose su chi era o dove lavorava ma la domanda che mi premeva fargli non uscì mai dalla mia bocca: perché era tornato a salutarmi? 
La sensazione piacevole della sua vicinanza, si mescolava al disagio della mia inesperienza impedendomi di pensare a quel l'incontro come ad una coincidenza o ad un colpo di fortuna. Chissà se il mio rossore era  visibile anche sotto l'abbronzatura della estate precedente. Sentivo di essere come sul bordo di qualcosa, ma anche avvertivo la vertigine che immobilizza invece di spingere avanti. 
Non so più chi scese per primo lasciando l'altro, ma probabilmente finii per dire più di ciò che volevo, perché nei giorni che seguirono il pensiero di lui non mi lascio' un momento, soffiando sul cuore come il vento sui pini marittimi poco prima di un temporale. 
Un salto nel buio. 
Non ne feci parola coi ragazzi, ma il mio comportamento distante parlava chiaro e loro sono certo cercarono al meglio di comprendermi, come avevano fatto col foglio seppellito sotto l'albero, nel loro modo silenzioso e vicino al tempo stesso.
Nessun pulcino conosce il giorno del suo primo volo, ma ogni cosa quel giorno sembra sottomettersi al destino che la muove, che la vuole viva o morta per bilanciare l'armonia più ampia che chiamiamo natura,  fato o vita: il vento soffia il nido scricchiola sotto il peso dell'uccello cresciuto e qualcosa di inconscio chiama ogni elemento al suo compito ultimo: vivere ed essere adatto alla vita. 
Nei treni che solcavano la riviera i vagoni erano divisi in scompartimenti da sei posti, tre erano occupati da Alessandro, Giuseppe e Alex, i tre di fronte da solo due persone. Una era allungata sul terzo sedile con le gambe,  la sua testa,  appoggiata al grembo  di un ragazzo che fissando i suoi occhi verdi gli accarezzava i riccioli. 
Nessuna battuta sconcia o umiliante da parte dei tre e nessun disagio da parte mia, tutto sembrava accadere perfettamente come doveva succedere come ognuno di noi sapeva essere. 
Forse all'apparenza, potevamo sembrare quattro ragazzini in gita accompagnati da uno più grande di noi, esattamente come la società si aspetta di vedere, e per questo niente e nessuno turbo' il nostro piccolo  viaggio verso il litorale che anche d'inverno meritava una passeggiata, un trancio di focaccia al formaggio, una carezza data ma fino a quel giorno,soltanto immaginata, a qualcuno come te. 
Avevo conquistato il mare da solo per non aggiungere distanza oltre quella che potevo sentire da ciascuno, persino dalla mia amata banda: ora con il cuore in gola e la certezza nella pelle di non essere il solo,  miravo al cielo mentre appoggiati alla ringhiera del litorale il vento salato del mare sfidava i  capelli di tutti a rimanere attaccati alla fronte. Una lacrima rigò il mio viso ma di certo doveva essere colpa del vento, anche se il mio cuore sapeva che i giorni con loro non erano ancora molti da spendere.


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