martedì 30 luglio 2013

Tacchi e Rintocchi capitolo 9: l'Ape Regina

Nel primo periodo in cui le conobbi, Ahia, Secondo te e Assolutamente erano tutte single, e io ero fidanzato già da qualche anno con il loro amico Sagittario. 
In realtà, lui era amico di Ahia da una ventina d'anni. Insieme quei due avevano vissuto oltreché la propria
gioventù anche il periodo in cui Milano era una città da bere, da ballare, da vivere come poche altre.
Erano gli anni in cui ogni sera di settimana era animata da una festa e il quartiere che poi divenne la chinatown per eccellenza era ancora popolato da italiani e pullulava di locali e negozi. Li una Ahia poco più che ventenne muoveva i primi passi nel mondo della moda e incantava col suo magnetico sguardo intere compagnie di persone che improvvisamente desideravano starle vicino. Uomini e donne indistintamente provavano per lei l'attrazione che le api hanno per il polline, e la sua casa divenne ben presto il centro di una folta compagnia di buontemponi. In questo modo lei si garantiva compagnia, incrementava la sua abilità sociale e otteneva una sorta di credito da diverse persone. Non c'era nessuno che non solo le negasse un favore ma che per ottenerne il favore non fosse disposto a provvedere a qualche suo bisogno. Non si trattava solo di opportunità né tantomeno per essere chiari di mercimonio, in quanto la ragazza non faceva alcun compromesso con i suoi principi morali per facilitarsi l'esistenza.  Si trattava invece di un inspiegabile fascino fatto di una apparente debolezza che lei però considerava reale, e di una altrettanto istintiva prodigalità che le persone provano per coloro a cui vogliono piacere e che vedono piacere. 
In buona sostanza a quei tempi potersi dire “suoi amici” era qualcosa a cui aspirare. C'era un che di europeo ma anche di genuinamente agreste nel suo concetto di “cumpa”, di compagnia, una sorta di concetto della comune rivisitato in chiave precocemente fashionista. Si poteva trattare di una autentica capacità di garantirsi talenti tra i più disparati e la solerzia con cui questi potevano impiegarsi alla riuscita ora di una  sua festa, ora di un progetto più ambizioso che la riguardasse. Lei sapeva farti sentire parte di un futuro luminoso e comune che leggevi nei suoi occhi brillanti e al quale mai avresti rinunciato a partecipare pur di vederla sorridere.
In questo contesto il mio fidanzato si era garantito senza troppa fatica il suo affetto, e di conseguenza vicino com'era all'ape regina, anche quello di tutte le operaie. Succedeva quindi che mentre le persone comuni si accalcavano fuori dai locali nella speranza di farsi notare e riuscire ad entrare a quella data festa, a loro bastasse arrivare con tutta calma e una volta presente tutto lo “sciame” il buttafuori dall'occhio lungo, lo chiamasse per fare entrare “la gente che piace” ovviamente gratis! 
Lui visse con lei e con le altre il ruolo che io avrei vissuto più tardi, ma dal momento che le stesse persone vent'anni dopo non avrebbero più avuto vent'anni, quando toccò a me certi aspetti del rapporto non potevano essere semplificati dallo slancio dei bei tempi e del tempo stesso. 
La vita portò sia lui che lei in direzioni diverse, e con la fine degli anni novanta la “cumpa” aveva perso la propria consistenza e la sua ragione di essere. Lei aprì un negozio e.il mio fidanzato si fidanzò o smise di esserlo con qualcuno intanto che avviava la sua attività di parrucchiere  anche lui “in proprio”. Erano diventati grandi. La incontrammo diversi anni dopo per caso ad un aperitivo e l'immutato fascino dell'ape regina ci trasformò nelle più operose operai del suo nuovo alveare. Si mi piacque subito, e complice la reazione di grande affetto che lei ebbe rivedendo il mio “nuovo” amore nonché suo “vecchio” amico, mi convinsi che rivederla sarebbe stato bellissimo! Lo fu tra l'altro, e lei mostrò per me una tenerezza che persino chi la conosceva bene raramente le aveva visto mostrare apertamente.
Quel genere di vita non tornò mai più a Milano, e quelle ragazze così belle e inebriate dal senso di “ogni possibilità” pur essendo diventate   belle donne cominciarono a fare i conti con quel meccanismo interiore fatto di aspirazioni e di delusioni  tanto delicato da bastare un “ qualcosa” per romperlo.
In un certo senso, loro vissero insieme l'innesco della propria vita, io invece, arrivai piuttosto al momento della detonazione o della cilecca di quel delicato meccanismo.

venerdì 26 luglio 2013

Tacchi e Rintocchi capitolo 8: c'è chi scende e chi sale.

Nel corso degli anni prima di conoscerle, avevo già avuto delle amiche come è ovvio che sia, ma queste di solito finivano per non vedere di buon occhio il mio fidanzato del momento.
Io del resto, ero una “fidanzata seriale”. Ero cioè, quello che pur accettando che quell'uomo non volesse una relazione con me come la volevo io, finiva ogni volta per mettersi “in relazione” a senso unico o a switchare il tasto: avanti un altro.
Probabilmente la parola “accettavo” era solo una bella maniera per dire che sapevo perdere, non senza però essermi prima prima comportato come se quella relazione ci fosse.
Quindi, ero quello che aspettava la telefonata che non arriva, quello che apre la porta quando lui ha tempo, perché la condizione di attesa si spezzasse, quello che quando lui spariva si chiedeva dove avesse sbagliato senza volersi davvero rispondere. E cioè che la verità era che non gli piacevo abbastanza.
Di conseguenza credo che le mie amiche di ogni tempo, oltre che una certa possessività, avessero la lucidità di vedere l'inutilità del mio prodigarmi, e quindi finissero per non giustificarmi se le mettevo da parte più del dovuto. I consigli che con lungimiranza  mi davano prima circa le probabilità che quella persona fosse giusta per me,  io li prendevo come gelosia,  ma dopo tornavo mesto ad incassare il solito: te l'avevo detto.
A distanza di anni per una qualche teoria del contrappasso sarei finito a rivestire il loro ruolo con le mie nuove amiche, finendo quindi per capire meglio come mai alcune di loro a suo tempo ne ebbero le tasche piene di me!
Ci sono due modi in cui puoi stufare le tue amiche: o perché ti inceppi come un disco rotto e non cambi la puntina, o perché se il giradischi funziona suoni sempre lo stesso disco!
Questo vuol dire che se esci con un uomo ma non è mai abbastanza giusto per te, è inutile che ne parli in anticipo come se lo fosse, o che se è palesemente sbagliato, tu ti ostini a scusarlo con la solita tiritera fatta di : no maè colpa mia perché lo stresso, ogni volta che si cerca di farti capire che non puoi essere la sua scusa perenne e che quella relazione non solo è una merda, ma anche ti rende insopportabile. Ce ne sarebbe anche un terzo,e cioé, che tu trovi l'uomo che fa per te e questo ti tolga dalla totale disponibilità che avevi prima. Tu sei felice ma loro non possono esserlo se tu ci sei di meno.
Qual'è dunque lo stato ideale in cui l'amicizia tra due persone  può definirsi sana? Quale la sinergia di avvenimenti  reciproci che ne cementi la durata?
Le coppie si frequentano tra coppie per lenire la routine, i single tra single per formarne una che possibilmente non sia in tre, chi ha i figli frequenta chi ne ha per pascolare i propri, e chi ne vorrebbe frequenta chi ne aspetta uno. Unica eccezione a questa norma sono le vedove, le quali se giovani vengono escluse per paura degli ultimi ormoni, se vecchie  come te perché hai la sensazione che ti portino sfiga, avendo queste già sepolto quel marito che tu pur detestando finisci per non voler perdere.
Sembrerebbe dunque che ogni step evolutivo della vita ci separi dagli amici che hanno sostenuto lo step precedente, o che quelli che restano amici si siano tutti affrettati a tenere lo stesso passo in questa buffa marcetta verso il cimitero che è la vita, sposandosi o divorziando, figliando o meno, ammalandosi o no,  un po' tutti insieme! 
Non a caso ogni tanto mi capitava di sentirmi come quella cugina che è l'ultima a rimanere incinta: incazzata e ridicola nel fare anche la cosa più normale. Le relazioni amichevoli sono come gradini su cui montare per salire al piano successivo?
Se lo fossero si spiegherebbe perché nel caso dovessimo riscendere sia così importante che siano ancora lì!
Chissà se Ahia quando rifiutò la mia offerta di pace se ne rendeva conto? 

martedì 23 luglio 2013

Tacchi e Rintocchi capitolo 7: in coda per il futuro.

Quand'è che un desiderio normale come quello di essere amati,  diventa ossessione? Quando nemmeno ti accorgi che ogni tuo gesto, pensiero, azione è parte della sceneggiatura che finisce con: e vissero tutti felici e contenti. Quando soprattutto sei convinto di non averne affatto bisogno!
Un bisogno normale come quello di essere amati in modo esclusivo da qualcuno che non ci abbia generato, diventa il tempo forte di ogni musica che ascolti, e il bello è che la convinzione che debba succederti non è frutto di una ostinazione ma della realtà materiale che   talvolta sotto forma di partecipazioni, ti informa che due persone estranee tra loro hanno deciso di vivere insieme finché morte non li separi. Questo ti convince che ci sia qualcuno la fuori che sia stato generato per riconoscerti tra tanti ed essere da te riconosciuto.
In particolare alle bambine viene insegnato ad essere pronte quando questo succederà anche se ho il sospetto che in realtà gli si insegni ad aspettare di essere scelte, mentre ai maschi si accordi il diritto di scegliere. 
Sebbene questi criteri arcaici siano stati messi in discussione fino a sembrare definitivamente superati, io sono convinto che quelli della mia età non abbiano affatto avuto parte nel cambiamento che pur li ha visti ribellarsi alle favole.
Ci siamo piuttosto accodati come in fila ai saldi per una occasione da non perdere con la stessa eccitazione di coloro che si erano aggiudicati i primi posti della fila, e abbiamo creduto che l'articolo “cambiamento” sarebbe stato disponibile anche per noi. Ma come potevamo pensare che una posizione tanto arretrata nella fila ci consentisse di aggiudicarci il meglio?
Non saremo forse usciti dal negozio della vita con in mano una t-shirt troppo stretta o troppo larga, presa giusto per non ammettere di non aver trovato la nostra taglia, dove la frase “cambiamento” risultasse troppo tesa o invece talmente lasca da non essere leggibile da nessuno?
Comunque in buona fede abbiamo “indossato” il cambiamento nella convinzione che la felicità fosse proprio quella di non avere più bisogno che qualcuno ci riconoscesse come parte del suo lieto fine, di un fine unico soprattutto.
Con le nostre magliette strizzate o sciatte, io e le mie amiche guardavamo con compassione coloro che si sposavano, con orgoglio coloro che divorziavano, con scetticismo chi “stava bene da solo”, con pena chi diceva che il suo uomo non era poi così male. Noi credevamo di essere diversi, più liberi, e la città con i suoi mille incontri sembrava darci ragione, intanto che il tempo scorreva lento e in fretta.
Ricordo ancora quando dopo l'amore fisico, ciò che immaginavo come “intimità” con il lui di turno, fosse una cena alla quale mi chiedesse di non mancare. L'avergli concesso il mio corpo, l'aver ricambiato i suoi baci, e averlo visto fremere e supplicare il mio permesso al piacere ultimo, non era più  intimo di una bistecca per due? No, credevo, credevamo che quello fosse solo una dimostrazione del nostro avvenuto affrancamento dalle favole, del nostro far parte di un futuro più moderno, ma ebbi modo di rendermi conto che quel futuro io lo stavo solo interpretando, che mi era già passato davanti e non ero riuscito ad afferrarlo. 
Eppure ogni volta che ci sdraiavamo in un letto che non fosse il nostro, era proprio quella maglietta a farci sentire scomodi, quella la prima cosa che sentivamo il bisogno di toglierci, e mi chiedo se i nostri amanti una volta spogliate non vedessero in noi una di quelle bambine pronte per essere scelte. La mattina seguente o solo poche ore dopo, lui che aveva diritto ad una scelta più ampia, aveva già deciso e senza bisogno che ce lo dicesse tornavamo a indossare il “cambiamento”, ma questa volta per coprire il nostro imbarazzo e la delusione per quel mancato: ci rivediamo.
Per molte di noi il giorno dopo sarebbe state un po' oltre il nostro trentesimo compleanno. Tic tac..

venerdì 19 luglio 2013

Tacchi e rintocchi capitolo 6: Donne in carriera.

Prima che la domanda trovasse la sua risposta le mie amiche avevano raggiunto tutte la posizione che volevano nel mondo del lavoro( credo). Quelle di loro che non avevano ottenuto ruoli alti nelle aziende per le quali lavoravano, avevano però lavorato in modo da essere ben conosciute e stimate nel proprio ambiente, tristemente noto per la carneficina femminile negli strati intermedi d'azienda e l'inefficiente maschilismo dei suoi vertici.


La moda, o quello che era la moda negli anni 90 quando cominciarono ad affermarsi, consentiva a ciascuna di mettere a frutto le proprie peculiarità. Ahia, analittica Vergine pignola pur essendo socialmente furba come una faina, otteneva il meglio nella pianificazione numerica e nella parte di contatto con il “prodotto” moda, mentre Secondo te, che era fuggita dal performismo carrieristico di quegli anni, aveva preferito agevolare quel lato arietino un po maschile che la rendeva imbattibile in simpatia e pragmatismo dedicandosi a full immersion di lavoro in un tempo limitato come quello delle campagne vendite, dopodiché rassicurata dal guadagno e dalla propria agiatezza, meditava il da farsi su una spiaggia esotica(cosa che la faceva sempre apparire in salute). Assolutamente, invece, forte della sua imponente statura, di una capigliatura da guinness e di tre lingue parlate persino mischiandole nella stessa frase, stupiva il suo ambiente con una ostentata e brillante competenza che nessuno osava contestarle. Nessuno poteva guardarla dall'alto in basso nel vero senso della parola, e questo non forniva alle aspiranti stronze che la volessero schernire neanche l'osservazione della sua ricrescita! Che lavorasse per una azienda di livello o che vendesse stracci, lei sapeva ammantare grazie, al suo acume mediorientale, ogni cosa di dorato e talvolta nel farlo non risparmiava neanche se stessa.

Le maglie del mondo moda, fatto di uffici stile, addetti stampa, commerciali e venditori, non erano allora sufficientemente strette da non permettere fantastiche occasioni. Poteva succedere che se tu ci lavoravi dentro e avevi un amico gay con taglia e numero di piede da perfetto campionario,(come me) questi venisse omaggiato  da te di capi o calzature che poi non venivano prodotti, o che dopo aver giaciuto negli uffici stile per un po ad utilizzo dei servizi fotografici diventassero  disponibili.

Così le mie ragazze fecero di me quello che sono oggi. Ahia mi insegnò tutto ciò che so sui tessuti rendendomi schiavo del Cotton satin, per dirne uno, oltre a mostrarmi col suo stesso stile possibili contaminazioni tra i generi di abbigliamento. Con Secondo Te persi finalmente quel timore ad entrare nei negozi di lusso, scoprendo che l'acquisto in sé era solo una parte del piacere che si può provare di fronte a tanta bellezza disponibile agli occhi. C'era il piacere del cortese atteggiamento delle commesse, i colori, gli odori di quei templi di una manifattura allora ancora molto italiana, che mi facevano sentire immerso in un bagno ristoratore di eccellenza.
Assolutamente era invece colei che meglio sapeva solleticare la mia vena “eccessiva” e i suoi regali erano “assolutamente” particolari, non mancavano di frange righe e maculati che però potevano convivere in un guardaroba maschile, senza dare al termine la connotazione inutilmente virile che dovrebbe avere ma senza nemmeno trasformarmi in una macchietta di una notte romana!

Il loro affetto per me e per il fatto che la natura mi avesse regalato un fisico per nulla atletico ma che si sposava bene con i dettami moda di magrezza e particolarità, le rendeva particolarmente inclini a coccolarmi da quel lato, e posso dire che mi crebbero fino a quando cominciai a definire il mio “stile” più precisamente e autonomamente. Inoltre, credo che, come solo le donne sanno fare con i loro uomini, avessero voluto prendere due piccioni con una fava: dal momento che ci avrebbero visto insieme, era il caso di rendermi meno imbarazzante, per tutte loro. Quello che forse giunse inaspettato e che credo le abbia rese fiere di se, fu che io ero letteralmente assetato di ciò che mi diedero da bere in questo senso!


La scarpiera di una, l'armadio dell'altra, erano per me il modo più fico di giocare alle bambole in scala reale, e certe volte avrei concepito che  diventare il loro Guardarobiere Esclusivo, sarebbe stato il mio miglior successo professionale da raggiungere, ma per fortuna un lavoro vero ce l'avevo già!


Intanto che le mode passavano, insieme agli anni,  rendendo i miei “scavi” nei loro armadi interessanti come quelli dell'Acropoli, si rideva del fatto che avessero potuto indossare certi capi, così come del fatto che  ognuna di loro in fondo pensasse che l'altra non sapesse proprio vestirsi!

La “stilosità” delle mie ragazze, ovviamente influenzava anche il tipo di uomini che attraevano i quali  passavano dall'essere i classici Yuppies milanesi attempati e  troppo spesso sposati, quanto l'uomo distinto e un po' molliccio della finanza che conta. 

Uomini che ogni volta che mi venivano presentati, avevano due atteggiamenti tipici: lo yuppie fascinoso e brizzolato mi stringeva la mano mantenendo la cintura a notevole distanza il che gli faceva produrre un inchino fuori asse degno dell'equilibrismo degli eroinomani di quand'ero un ragazzo, mi sgranava un sorriso bianchissimo, e improvvisava una “apertura mentale” di cui io non sapevo che farne. In quei casi sfoderavo le barzellette sconce, nel dubbio tentativo di compiacerlo virilmente. L'idea che fossi gay, li eccitava a vantaggio degli orgasmi delle mie amiche suppongo.


L'uomo distinto invece, meno prodigo di inchini ma cordiale, cercava di accettare la mia presenza come si farebbe con una sorta di “dama di compagnia”, la cui autorità non si discute apertamente ma dalla quale non piace essere esaminato. Se seduto accavallava le gambe come per proteggere le sue “nobili origini” da sguardi indagatori, e cominciava a farmi domande su come conoscessi la mia amica. Domande alle quali io rispondevo con la mia frase preferita: mi ha conosciuto ad un gruppo di autoaiuto. Quando questo succedeva in casa l'amica urlava: piantala, dal bagno o dalla camera, se eravamo in un locale, rideva fragorosamente per connotare la mia uscita nel genere battutona.
In entrambi i casi la mia espressione facciale era neutra ed immobile come il mio sguardo negli occhi dell'interlocutore!

No, non amavo sabotare le mie amiche, mi andava però che si sapesse che, quanto a brutte compagnie,  loro erano già appagate da me. Inoltre, quegli uomini manipolatori e vanitosi che spesso credono che le donne siano una “materia plasmabile”, non amano la concorrenza e questo era un  deterrente sufficiente!  Queste occasioni erano un po' come i casting di modelle: dopo un po ti sembrano tutte uguali e ti domandi se la scelta non avvenga per sfinimento.
Forse “tutte” noi, in fondo saremo finite a fare il conto col tempo, con noi, con ciò che eravamo e ciò che non potevamo più essere, con il fatto che la vera indipendenza è una promozione che non arriva da nessun capo che non sia tu stessa!



martedì 16 luglio 2013

Tacchi e rintocchicapitolo 5: parmigiana generazionale

La ricetta è semplice e si tramanda di madre in figlia o figlio ma solo se il figlio è gay novello
. Ingredienti: 
un cespo di figlie, 
un po' di lievito Madre meglio se bipolare, 
un ovulo poiché da li veniamo tutti, 
un pacchetto intero di sensi di colpa, 
Lacrime di coccodrillo
Farina di lieto fine
due litri di aspirazioni “a velo” da sposa 
 una bella dose di “passato” ( meglio se rosso di vergogna)
Una confezione di ribellione grattugiata Sale della vita q.b e olio di gomito.

Prendere le figlie e lavarle per bene, finché non siano in grado di farlo da sole, e lasciarle riposare fino ai venticinque anni. Poi cominciare ad affettarle con frasi sarcastiche ben affilate o se preferite lasciate che si facciano a pezzi da sole con un fidanzato sbagliato. Asciugarle perbene dalle lacrime di coccodrillo tenendole da parte per guarnire, e infarinatele per il loro bene con farina di lieto fine.
In una padella da saga familiare scaldate il passato di vergogna a fuoco amico. 
Mescolate il lievito Madre bipolare con un litro di aspirazione “a velo” da sposa, e unite un ovulo (se ve ne avanzano potete congelarli), intanto che scaldate l'olio di gomito finché non vi fa male.
Friggete le figlie da entrambe i lati della doppia personalità che nel frattempo avrete avuto cura di formare e una volta dorate mettetele ad asciugare in carta da lettere ( che avrete già letto di nascosto nel tempo) Salate con la vita. 
Ora prendete una pirofila che possa andare in forno crematorio e disponete uno strato di madri sul fondo (si sa che quelle in fondo c'entrano sempre) coprite col passato rosso di vergogna e una manciata di ribellione grattugiata, dopodiché disponete le figlie e coprite con altrettanta vergogna e fiocchetti pesanti come macigni di sensi di colpa.
Continuate a formare gli strati fino alla quarta generazione dove probabilmente avrete esaurito gli ingredienti e la pazienza e servite  verso i quarantacinque anni accompagnato da una julienne di lacrime di coccodrillo e una guarnizione di rimpianti montati a “pioggia”. Questo è un piatto che al contrario della vendetta che piace fredda, mangerete  alle prime vampate ben calde della pre menopausa e che risulterà alquanto indigesto ai maschi a cui inevitabilmente verrà propinato in un piatto di amore vero.
Con diversi esiti di “cottura ognuno di noi era frutto di un impasto simile. Le nostre madri ci avevano infarcito dei loro sogni per noi, e in un clima di relativo benessere, non sapevano spiegarsi perché  trovassimo l'idea di farci una famiglia, per niente allettante. Le figlie del dopoguerra idealizzavano come “evoluzione personale” il proprio matrimonio e i figli, dato che erano cresciute in una situazione pericolosa e precaria che minava il futuro, esse potevano credere di averne uno solo così. Per noi tutti invece il modello non reggeva il ritmo dei tempi, che invece invitava alla realizzazione individuale tramite la professione o comunque l'indipendenza.
Ciò nonostante, il vecchio modello aveva messo in noi radici più profonde di quanto ci saremo aspettati, e come un innesco “a tempo” il nostro retaggio sarebbe esploso quando meno ce lo saremo aspettati, rammentandoci specie se femmine che col tempo non si scherza. Sia che ci trovasse dietro ad una scrivania del nostro ufficio, o intenti a vantarci della nostra libertà, la deflagrazione non ci avrebbe risparmiato l'ovvia considerazione: ne era valsa la pena? Tic tac ….qualcosa si sarebbe rotto. 

venerdì 12 luglio 2013

Tacchi e Rintocchi capitolo 4: chimere

L'abitudine a dare sopranomi mi era venuta dal ramo paterno della famiglia. Il nonno paterno che non avevo conosciuto ce l'aveva anche lui dal momento che moglie e figlia erano state chiamate Cicci e Diddi nonostante avessero bellissimi nomi come Francesca e Angela.
Quand'ero bambino andare dalla zia Cicci era un evento e il fatto che la chiamassimo così mi piaceva moltissimo.
Forse  per questo anche le mie amiche erano registrate sul mio telefono con nomignoli. Dato che due di loro avevano lo stesso nome feci così: una era “Ahia(“ come il male ovunque, per la sua ipocondria) l'altra era “Secondo te”,( per l'abuso che faceva di questa domanda durante le sue pene d'amore) e l'ultima era “Assolutamente”( perché, date le sue origini straniere, parlava l'italiano all'imperativo presente).
In fondo avere amiche donne era abbastanza scontato, nonostante  ambissi ad avere  un amico gay come me, col quale assaporare i piaceri della vita che restavano, una volta escluso il sesso tra noi( cosa rarissima e più facile  invece a verificarsi dopo averci fatto sesso inutilmente).
 In un certo senso se avessi dovuto darmi un soprannome da solo, io sarei stato Erba Voglio, volevo tutto ciò che non avevo come tanti forse, ma con la peculiarità di volere anche l'esatto contrario con la stessa intensità.
Lo stesso che provai  quando Ahia non volle far pace con me, lasciandomi con un paio di scarpe favolose che non potevo  mettere: avrei voluto che l'accettasse come anche che potessi metterle al suo posto. I desideri che inseguivamo facendoci coraggio l'un l'altro ben si adeguavano alla descrizione della Chimera mitologica. Una creatura polimorfa dalle fattezze incerte e pericolosa che fu uccisa in un modo stupidissimo.
Erano cosi anche i nostri desideri? Confusi polimorfi e destinati ad una fine idiota?
Qualche volta ho creduto di si. Ho creduto che i nostri desideri fossero come le ultime mode, sempre nuovi e sempre ultimi:  il recupero del rapporto con mia madre, il figlio di Ahia, il sentirsi finalmente bella di Secondo te, il senso di appartenere ad un uomo solo di Assolutamente. Queste erano le nostre chimere, metà noi metà sogno ma sempre come la moda destinate a non essere mai per sempre. Seduti all'ennesima cena a discutere su quanto ci eravamo andati vicino, se non fosse stato per questo o quello o a rinnovarci la fiducia, sembravamo  governi amici che rifacevano  patti  identici col proprio destino davanti ad un buon vino, nell'idea di grandi cambiamenti ma senza cambiare davvero. Oppure se uscivamo tutti in tiro potevamo sembrare quelli che la chimera non l'avevano uccisa, ma a addomesticata.
Che bella la sensazione di protezione che provavo in mezzo a tutte loro! Ma non crediate che fosse gratis! Era un gran lavoro stargli vicino, ma non mi pareva mai ingrato.
C'era la sera in cui Ahia telefonava con le ultime dal ginecologo e ti ritrovavi con una pentola di orecchiette al sugo nelle ginocchia  sui mezzi per mangiarle con lei, o c'era la cena nel giardino di Assolutamente che era solita affrontare i suoi momentacci con una trentina di invitati ai quali però  donava il suo più inossidabile sorriso, serviva pietanze esotiche e prelibate e sfoggiava completini audaci come vere armature dietro le quali nascondeva l'amarezza del momento.
Oppure venivo trascinato nell'inevitabile giro di shopping compulsivo di Secondo te, che nei momenti peggiori delle sue relazioni si acuiva e che amabilmente divideva con me, consentendomi di visitare posti nei quali non avrei mai avuto il coraggio di entrare da solo. In quei frangenti, dopo aver collezionato pacchetti,  mangiavamo un mini panino al tonno  comodamente seduti ai tavolini di un bar storico del centro rivolti verso il passaggio umano, constatando il diffondersi della piaga  che amavamo definire il “pret-gina-a porter”! .
Desiderio e illusione formavano un cocktail assai più micidiale di quelli che eravamo soliti bere, in quanto era fatto di non uno, ma ben due veleni per la mente. Il terzo si produceva dal conflitto dei primi due ed era la rabbia: quella che ti veniva sia  quando scoprivi che quell'uomo col quale ti eri lasciata andare ti aveva lasciato e basta come anche quando non riuscivi proprio a lasciarti andare con l'altro che aveva tutto ciò che volevi ma non ti piaceva. Tre teste aveva la chimera Desiderio, Illusione e Rabbia. Ma Ahia, Secondo Te e Assolutamente, così come anche io prima di loro continuavamo a credere che doveva esserci quella "creatura mitologica" chiamata Fidanzato ideale, e che se esisteva non poteva non avere in sè quell'antidoto ai nostri veleni, chiamato amore incondizionato. Se fossimo stati più onesti forse avremo potuto capire che date le condizioni che ponevamo alla realtà di quell'incontro, la chimera classica sarebbe stata di gran lunga meno difficile da incontrare e addomesticare.
Che ci avessero cresciuti come regine o come orfanelle le nostre madri  ci avevano però in qualche modo instillato le stesse stronzate circa gli uomini. Il resto lo doveva aver prodotto una qualche stratificazione mentale formatasi in un tempo imprecisato tra la fanciullezza e la vecchiaia, dove l'una non voleva cedere il passo all'altra. Tic tac.....e il tempo passa e le chimere sfuggono.





martedì 9 luglio 2013

Tacchi e Rintocchi capitolo 3: un uomo per tutte le stagioni

 Non avevo mai capito il detto: un uomo per tutte le stagioni. Quale qualità si intendeva sottolineare dicendolo? La capacità di adattarsi,o il profilo basso senza lode ne infamia?
Forse anche la capacità di essere sempre adeguato. Di certo, io non ero un uomo per la mezza stagione! Tutto ciò che è mezzo mi irrita da morire, ma neanche lo ero per ogni stagione come se una fosse uguale all'altra. 
Le mie stagioni, intanto pesavano come macigni sulle spalle. Vuoi perché cominciavano a sommarsi numericamente, vuoi perché ogni volta che la sera facevo tardi, ne pagavo il conto al risveglio. Niente correttori né trucchi cosmetici per affrontare lo sguardo vigile della portinaia che ormai aveva il grafico completo delle mie uscite settimanali, e per la quale un esile paio di occhiali da sole non erano sufficienti a celarsi. 
“ Seratona ieri eh?” era solita dirmi con il tono di una mamma che nessuno le aveva chiesto di essere, mentre mi porgeva la posta.
La corrispondenza era sempre stata per lui una sorta di minaccia. Non tanto per le lettere che gli spediva sua madre, quanto per il fatto che nella loro solennità bollette, notifiche e simili lo riportavano bruscamente a una quadratura dalla quale  lui cercava di svincolarsi. La sua amica bionda aveva creato un simpatico muretto di buste mai aperte in una mensola del salotto ammettendo che aveva paura di aprirle. E così aveva fatto anche lui.
La nostra stagione preferita era la primavera, quando i locali cominciavano a mettere fuori tavolini e sedie, e i gelsomini  profumavano i piani nobili dei palazzi di Milano. In quella stagione le mie amiche si davano a due attività fondamentali per trovare l'uomo per ogni stagione: depilazione compulsiva e shopping altrettanto nevrotico, ma di rado un uomo di primavera apriva con noi il panettone.
Cosa c'era nell'inverno che ci rendeva così inclini alla riservatezza?
Tanto per cominciare il freddo che è un nemico giurato del sex appeal, e che ci vedeva tutti infagottati come delle anziane febbricitanti. I cocktail alcolici lasciavano il posto ad adeguate tisane e a serate a base di serie tv che non vorresti mai condividere con un uomo che non sia gay. I bugiardini dei medicinali sostituivano sui tavolini le brochure delle vacanze e si parlava tra noi un po più sinceramente. Decisamente un uomo per tutte le stagioni le mie amiche non lo volevano davvero, a meno che non fossi io.
Per me invece, valeva il contrario.  Io desideravo di più stare in coppia d'inverno, perché il calore del corpo di un uomo mi rendeva il buio e il freddo meno ostile e inoltre, visto che eravamo due uomini nessuna ceretta obbligata per noi.
Le mie amiche erano davvero diverse tra loro esteticamente e caratterialmente ma condividevano tutte un “qualcosa”. Esattamente quel qualcosa che si era rotto con una di loro! Il meccanismo che le animava e che era delicato come un orologio e  le vedeva ticchettare all'unisono, come ticchettavano i loro tacchi sul pavimento.
Anche se l'orologio di una si tarava sul figlio mai voluto prima dei quaranta, e quello delle altre su un fidanzato vero col quale avere una relazione che le bilanciasse dai fallimenti, tutte loro ritmavano vita e stagioni con lo stesso senso di urgenza. Tic tac tic tac...
Il mio orologio invece assolutamente incapace di precisione falsava  il tempo quando ero in coppia e lo rendeva inutile quando non lo ero. Di urgente io avevo avuto  solo la sopravvivenza e i patti che dovevo fare col fatto di non sentirmi per niente eccezionale. Questa per un periodo era stata una vera ossessione per me. Ma cos'è una ossessione, se non una degenerazione di una routine? Desideravo così tanto trovare il mio “talento”, da non riconoscermene mezzo e il bisogno di trovare quella cosa in cui sarei stato il più bravo, in cui avrei eccelso e che mi avrebbe permesso di svoltare da quella vita un po stentata che per altro somigliava alla vita di milioni di persone normali  e che mi infastidiva, rendeva le mie giornate piene e vuote al tempo stesso. Ma soprattutto le aveva rese tutte uguali dando a certi gesti, persone  e luoghi un senso quasi vitale.
Essere però il “loro” amico, quello si che mi inorgogliva. 
Ero io il loro uomo per ogni stagione, quello al quale non temi di mostrarti quando sei tutto tranne che glamour, quello al quale non devi spiegare le tue fissazioni, quello che porti con te dal medico se hai paura, quello che può farti esplodere una bottiglia di coca cola in casa proprio il giorno dopo che la donna delle pulizie era passata, quello con cui ti rammarichi di non farci sesso. 
Ma anche quello che pur sapendo quando menti a te stessa, ti lascia il tempo di accorgertene da sola, ma se lo fai troppo a lungo, ti ricorda che qualunque bugia ripetuta nel tempo diventa verità solo in apparenza,  Mi chiedevo spesso se quest'ultima parte del mio essergli amico , una volta espressa, avrebbe trovato lo stesso favore che aveva la condiscendenza  alle loro “necessarie finzioni”..
Tic tac tic tac...e le stagioni passano come gli uomini che si incontrano e si lasciano o dai quali venivamo lasciati, con lo stesso senso di urgenza che ci auguravamo avrebbero placato. Così la fiducia e il tempo per realizzare ognuno la sua chimera diminuiva come gli estrogeni in tarda età.
Ogni tanto ci rendevamo conto che  un uomo o  un figlio in un rapporto tanto coeso non poteva starci? Non saprei, ma di certo una delle due forze avrebbe dovuto distruggere l'altra per prevalere, oppure avrebbe dovuto modificarsi lasciando spazio alla vita e ai rischi che questa comporta, sperando di trovarci a quel punto ancora insieme. 

venerdì 5 luglio 2013

Tacchi e rintocchi capitolo 2: solitudine




Già la solitudine. Gli era piaciuto leggere quel libro che spiegava la differenza tra solitudine esistenziale e quella sottile forma di isolamento progressivo che diventa solitudine patologica, incapacità sociale.
La solitudine esistenziale è quella con la quale si nasce e si muore, ma che durante la vita ti permette anche di riordinare i tuoi pensieri, le tue priorità, o semplicemente ti offre uno spazio contemplativo nel quale approcciarti alla tua piccolezza.
Poi c'è quella patologica che ti isola, come succedeva a lui, quando la comunicazione con il prossimo non è aderente alle tue intenzioni con loro. In quei casi, sei prudente e gentile quando ci vorrebbe un secco no, oppure rifiuti categoricamente qualcosa che invece sarebbe prudente approfondire. La condizione in cui aveva conosciuto le sue amiche però non era di questo tipo, piuttosto queste si trovavano sole a causa di una ostinata volontà a trovare un uomo come ce l'avevano in testa. Il tempo passa lento e in fretta e così una di loro non aveva mai smesso di giocare a: c'è in giro di meglio, e le altre due lo avevano passato una a riprendersi da un tradimento e a recuperare la condizione di “donna di qualcuno” che il suo retaggio culturale le imponeva, l'altra a infrangere le regole borghesi che la volevano sposata anche se non più innamorata. E lui? 
Beh lui essendo gay, il tempo l'aveva passato quasi come tutte loro, con l'unica differenza che nel rapporto con gli uomini li aveva sempre considerati migliori di lui, se era stato tradito non riusciva a trovarlo inconcepibile e le regole le aveva infrante soltanto perché prevedevano che fosse sposato con una donna. Sapeva però che in fondo c'era un po di tutte loro in lui. Di certo in ordine sparso.
Tutti e quattro si erano incontrati in un tempo in cui i  loro gesti, le parole e  persino il proprio abbigliamento, comunicavano una finta capacità di stare bene da soli, ma il ritmo con cui questi elementi venivano esposti nelle occasioni sociali, tradiva invece il disagio e insieme il desiderio di esserne finalmente affrancati.
Le risate un po'  nevrotiche agli aperitivi, l'ostentazione di una immagine “up to date” a partire dalla mattina che trovava giustificazione nel tipo di lavoro che facevano, ma che  ci rendeva pure poco avvicinabili una volta che questi era terminato. Come tutte le convenzioni di branco però si riconosceva un capo e si provava di tanto in tanto a sminuirne il potere con l'arma del pettegolezzo. La comparsa di un “uomo” all'interno del branco scombinava il solito grooming fatto di complimenti, regalini, e giri di bevute pagati a turno, perché poteva determinare l'allontanamento di uno di loro dal branco stesso. Non che questo non fosse in fondo lo scopo di ciascuno, ma un certo nervosismo si faceva largo quando una di loro frequentava qualcuno. Quando invece a frequentare qualcuno era lui, si limitavano ad un ascolto superficiale che in realtà sembrava avere lo scopo di studiare come ricondurre a loro la conversazione.
Di solito eravamo abituati a definire questo qualcuno con strani epiteti, fintanto che gli appuntamenti comuni non ne risentivano, anzi quasi ci piaceva che succedesse perché consentiva alla fortunata di ottenere un primato sui tempi delle altre e a queste ultime il gusto di vederlo naufragare con comodo. Così una volta era “lo stronzo idratato” una volta il “tuttologo appiccicoso” un'altra “l'architetto pieghina” ma di certo la funzione di questi uomini era quella di nutrire i  nostri aperitivi di un che di eccitante. Ci si sentiva come una commissione di esame esterna. Potenti e poco inclini all'indulgenza con gli ultimi arrivati.
Sapevamo quando il malcapitato era in fase di fuco, cioè adatto ad una serie di accoppiamenti, o quando il corteggiamento era tutto ciò che serviva all'ape regina di turno tra noi.
Si sa che se una era la regina, le altre lui compreso potevano solo essere operaie, ma il trono era scambievole data la vastità di candidati che rimanevano attratti da questo “sciame”.
Se da un lato ci sentivamo tutti parte di una realtà condivisa che ci vedeva vincenti, dall'altro eravamo davvero tutti poco brillanti quando invece venivamo scaricati. Niente uscite di gruppo in quei casi, ma telefonate chilometriche tra la “vedova” del momento e l'ape consolatrice che di solito ero io,  a base di domande circa il perché o il per come fosse andata così, di chi fosse la colpa, fino al completo sfinimento di uno di noi. Domande che non volevano altra risposta che quella che ci vedesse vittime di uno stronzo, trattato troppo bene.
Alcune di loro erano più pudiche in quei casi, altre invece ostentavano una corazza di vittoria anticipata che, se pur poco convincente, le consentiva di mantenersi in  un certo equilibrio sull'abisso di disperazione che coglieva tutte loro indistintamente.  
Nessuno di noi voleva ammettere che l'ipotesi di rimanere soli ci atterriva più di quella di uscire con uno psicopatico, e che il gruppo che avevamo formato avesse proprio lo scopo di consentirci quel rischio con un margine di protezione. Gli uomini che si conoscevano non sempre venivano inseriti nelle uscite a meno che “la commissione” non dovesse esprimersi sull'idoneità del candidato, e in quei casi il malcapitato si rendeva subito conto che la donna con cui usciva non era affatto sola e che i margini di manipolazione  della stessa erano quindi minimi.
Su tutte loro però lui aveva un enorme vantaggio. Lui negli anni aveva dovuto rischiare davvero nell'uscire con un uomo, talvolta persino nell'incontrarlo senza poter contare su un apparato di vigilanza come quello che loro avevano creato. In parte questo lo rendeva indistintamente diffidente con chiunque avvicinasse le sue amiche e iperprotettivo, ma lui sapeva bene cosa volesse dire trovarsi a frugare nei vestiti di un uomo mentre era sotto la doccia appena prima di farci sesso, per controllare che ciò che di più lungo avesse con se non fosse tagliente, oppure dormire con un occhio aperto per controllare che l'esausto lo fosse abbastanza da non mettere le mani di notte nei cassetti, o ancora perlustrare la camera d'albergo in cui veniva ospitato, alla ricerca di un probabile sacco nero in cui rischiava di finire intero o meno. 
Per contro le sue amiche parevano molto più indulgenti e serene quando erano in modalità “motel” con qualcuno, come se, averlo incontrato in un locale vip, invece che in un parco, facesse la differenza, o che averlo in casa le rendesse più sicure. Purtroppo nonostante facesse fico non avere pregiudizi, lui sapeva che loro consideravano i suoi rapporti più rischiosi dei loro. Ignoravano però che un rischio cosciente è un rischio minore poiché include un minimo di preparazione al peggio, cosa nella quale loro erano decisamente meno preparate, proprio perché ammalate di lieto fine, mentre lui si augurava  quantomeno una fine che lo vedesse illeso fisicamente. Certamente aveva sognato che quell'incontro fosse “quello”, quanto loro, ma lo aveva sempre tenuto per se il tempo utile per non essere ridicolo quando puntualmente non accadeva.
Nessuna telefonata per lui, nessun tentativo di sentirsi vittima di uno stronzo, solo la certezza che il lieto fine era piacevole come l'aroma del caffè dopo l'amore, ma altrettanto facile a svanire.
Nel buio della sua stanza solo le fusa della sua gatta a rassicurarlo, ma nel suo cuore la speranza di poter un giorno condividere con qualcuno la parte migliore della sua solitudine. Qualcuno che non gliela togliesse senza fargli compagnia. Esistenziale o patologica che fosse. Un uomo per tutte le stagioni.