mercoledì 4 novembre 2015

La banda del 52: ringraziamenti.

Ogni racconto si dice debba rispondere all'imperativa domanda: perché merita di essere raccontato. Trattandosi di esperienze personali, non è stato facile per me rispondere senza cadere in un delirio di presunzione o nella banalità di fatti poco interessanti, tuttavia, credo  che proprio l'esperienza sia il punto. Viviamo in un tempo assai turbolento, dove le discussioni circa la "differenza", si fanno accese se questa non è conforme ma anche in un tempo che spinge tutti a farla se si tratta di rispondere alla norma che ci vuole produttivi e di successo, come anche, a riconoscere la propria  l'unicità e perseguirla per realizzare i propri sogni.    Così le unicità di ciascuno, gli "io" che una volta formavano i "noi", restano sospese in un dilemma circa la propria espressione piena e la relativa spinta a generare "un altro". 
Questa spinta uguale e contraria, unitamente alla difficoltà delle famiglie a restare unite dato che i singoli perseguono come dovuta la propria idea di unicità senza dargli uno scopo preciso nel tempo e nella forma, ha creato una confusione tale, che differenza e unicità, non sono più parte di un processo generativo, ma anzi sembrano implodere nei singoli come nella comunità. 

L'esperienza più consueta di questo mix emotivo è il rifiuto. Degli adulti di essere pienamente responsabili e dei figli di esserlo prima ancora di esserne pronti. Fortunatamente la vita mi ha dimostrato come essa sia in grado di "riequilibrare", di compensare, seppur lentamente, ad ogni scempiaggine degli esseri umani. Un esempio? Nonostante secoli di depredazioni e sfruttamento il nostro pianeta ha approntato sistemi ( non indolori ahimè ma come potevano esserlo) per restare "adatto alla vita", tutt'ora validi. 
Mi sono chiesto se questo imperativo adattivo non fosse poi l'essenza della vita stessa e se anche nelle relazioni umane, la vita  non avesse usato gli stessi sistemi. Scavando nei ricordi, ho scoperto che era possibile, che lo era stato per me, e dato che non mi ritengo un campione punto zero ho la sensazione che ciò che è valso per me potesse valere anche per altri. 

La nuova tendenza  con cui l'idea di felicità è stata abbinata a possesso materiale o a rigide forme di appartenenza ha creato famiglie chiuse e società materialistiche ma anche una lotta tra schemi famigliari e tra singoli, che ha di fatto interrotto quell'apporto di  "estranei" che nelle famiglie di un tempo era invece favorito e che a mio avviso, rispondeva all'esigenza riparativa della vita. 
I gruppi di ragazzi o le zie o gli amici di famiglia avevano la capacità di assorbire le "differenze" e di garantire ad ogni "diverso" generato da uguali di essere identificato, protetto e aiutato a svilupparsi. Eventualmente in casi di famiglie o società repressive, queste "altre persone" potevano di fatto anche salvarli dalla crudeltà con cui la paura spinge le persone ad agire nei confronti dei non conformi, essendolo loro stessi stati a suo tempo. 
Perché una cosa è certa, i portatori di differenza, e non per forza sessuale, sono sempre esistiti e laddove non siano stati rinchiusi o uccisi hanno avuto ruoli fondamentali nella tutela di quella che andrebbe chiamata come merita e cioè "la varietà della specie". Più naturale di questo non so cosa dovrebbe esserci al mondo. Di fatto da solo il concetto di varietà annullerebbe tutte le accese discussioni su cosa farne di coloro che ne portano un tratto più distinto, così come renderebbe ridicoli  come meritano, tutti gli appelli alla "natura" che i detrattori delle unicità fanno per definirci contro di essa. 
Già, ma come raccontare una cosa così complessa in modo semplice?
In questo, il concetto di condominio così come ve l'ho illustrato, mi è sembrato rispondere appieno al bisogno di un luogo che avreste potuto riconoscere, inoltre popolato, da tipi di persone realmente esistite sebbene uniche, facili da recuperare nell'esperienza di ciascuno. 

Il tipo di differenza che io portavo non ha avuto un ruolo più importante di quella che portavano Maurizio o Fabio ad esempio e questo, determina un altro fattore che ho ritenuto fondamentale: non ci sono gradi di differenza peggiori o migliori ma solo singoli modi in cui si esprimono, alcuni più evidenti di altri e basta. 

Il gioco e il concetto di banda sono stati veicoli reali di un "addestramento istintivo" che vide me e i miei compagni integrare non le differenze ma le " competenze" e questo introduce un altro motivo per cui questa storia doveva essere raccontata: non è nel creare un posto a parte che si aiutano le persone giovani a sviluppare con dignità e sicurezza la propria unicità ma in un concetto di comunanza basato sulle capacità singole e sulla coscienza che prima o poi la nostra unicità nel mondo dovrà anche fare il suo giusto rumore. 

Alessandro, Giuseppe, Alex e Marcolino erano anche loro rumorosamente unici e diversi come lo ero io, ciò che rendeva la loro esperienza diversa dalla mia era solo il "permesso" a dimostrarci  tali che le nostre famigli ci accordavano o meno, in virtù del coraggio con cui queste erano o meno capaci di scorgere il proprio ruolo nella nostra natura. 
Se le famiglie avessero la coscienza che " generare" non significa fare ma lasciare che venga fatto avremo più figli e genitori felici.
Quando dico lasciar fare, non intendo parlare di noncuranza educativa ma dell' opportuno rispetto per il ruolo della vita nella faccenda: si decide di avere figli ma è la vita, a formarne la meravigliosa caratteristica con cui verranno alla luce, la quale, non assolve a nient'altro che a se stessa e forse, ad un disegno più grande persino di noi tutti. Perché dunque spesso i genitori scorgendo i segnali di una meravigliosa unicità se ne dimostrano preoccupati? In chi questi segnali aprono una discussione se non in noi? Ecco perciò che i "per il tuo bene" appaiono per ciò che spesso sono: una menzogna.
 
Certamente, i genitori amorevoli consigliano ma anche si devono aprire a sentieri nuovi e questo non può essere indolore. Il problema è che il dolore se non inquadrato come veicolo di cambiamento delle nostre convinzioni diventa capace solo di generare e ridistribuire se stesso in un circolo che annienta fiducia, amore e sviluppo. 
So di essere stato forse un po duro nel descrivere i genitori in questo racconto, i miei come quelli degli altri, ma ciò che contava era proprio farveli vedere come li vedevo a quella età e nelle condizioni in cui i loro "permessi" me li mostravano. 
Per quanto riguarda il mio genere di differenza ho volutamente dato alcuni connotati legati alla sessualità e so che per molti leggere di erezioni o  pornografia o comunque di espliciti sessuali, in un tema diciamo morale non fa piacere ma spero avrete potuto cogliere come anche quello alla età in cui è vissuto passa per profonde e turbolente emozioni che nessuna educazione per quanto repressiva può domare e che anche queste sono facilmente recuperabili nella esperienza singola di tutti. 

In ultimo, desidero affermare che il motivo più importante per cui ho voluto raccontare questa storia di un ragazzino  e dei suoi splendidi amici è quella di dare a loro il risalto che meritano: alla fine la cosa più semplice di tutte: l'amicizia. 
Amicizia nella quale potersi anche scoprire gay o rossi di capelli senza grossi turbamenti e soprattutto in modo graduale per tutti ma priva di quella odiosa componente che oggi vede molti giovani avversati dai propri coetanei: la paura delle proprie emozioni. 

Ringrazio Giuseppe per la sua dolcezza virile e per aver probabilmente determinato in me un modello non solo fisico di uomo gradevole ma soprattutto un modello emotivo sano, aperto è libero. Di questo non finirò mai di ringraziarlo per la sua unicità fisica e di cuore. 
Ringrazio Alessandro per avermi insegnato l'audacia e il gusto per l'avventura temeraria che ha ridotto di moltissimo la grandezza del mondo agli occhi di un ragazzo gracile e  disagiato fisicamente. Anche a lui devo la convinzione che il corpo è soggetto alla volontà dello spirito che contiene ma è più resistente di come me lo avevano fatto credere. Dalla sua unicità ho appreso il coraggio. 
Ringrazio Alex infinitamente per avermi insegnato il gusto di riderci sopra il più possibile, per avermi fatto dono di suo fratello Maurizio dalla cui unicità ho imparato a non aver paura di dire ti voglio bene se lo sento. Da Alex invece ho preso la mia ironia e la capacità di arrossire. 
Ringrazio Fabio mio preziosissimo amico speciale per avermi permesso di costruire una immaginazione più ampia con la quale ho potuto mostrargli il mondo che sembrava spaventarlo, spero come un posto meraviglioso, ricco di altre persone come lui e me da incontrare anche se siamo sempre rimasti in una stanza. Dalla sua unicità ho avuto la voglia di scrivere.  Sua madre per avermi aperto la porta del suo appartamento senza tener conto della mia "stranezza" è permesso di gustare le sue merende colme di tutto il suo rammarico per gli errori fatti, ma anche della straordinaria volontà di ripararli come poteva: da lei ho imparato il valore del pentimento autentico che non ripara ma che  ci prova fino alla fine. 
Ringrazio Marcolino e sua sorella per avermi mostrato quanto avevamo bisogno e diritto di esprimerci è come fosse difficile farlo con genitori nevrotici. 
Ringrazio Federica per avermi insegnato il mare e per aver sfidato le regole che ci volevano troppo distanti di età per essere amici. Dalla sua unicità ho imparato a imparare dai piccoli. 
Non posso dimenticare di ringraziare la vita, per aver creato la Pineta e quest'ultima, per aver accolto suo malgrado il 52 e il suo "capitale umano", me incluso. Dalla sua unicità ho imparato che la vita offre riparo da ogni pericolo e accoglie in ciò che spaventa, come un bosco, altre creature come noi di cui si prende cura.

Qualunque sia la vostra unicità rendetela piena e pulsante, riconoscetela nei vostri figli e accogliete le prime  emozioni negative che susciterà in voi dopodiché fermatevi e assistete allo spettacolo della vita fino a quando sarete desiderosi di parteciparvi e fieri di averla portata nel mondo.

Mi auguro con questo racconto di poter finalmente assolvere al compito più onorevole che l'unicità richiede: smettere di parlare di me conservando il privilegio di portarla ancora curioso di come saprà cambiare colore ma molto meno preoccupato. 

A voi che avete letto tutto ciò, posso solo dire grazie per aver fatto un sentiero tanto sconnesso data la mia limitata capacità letteraria, con la curiosità di sapere non solo come ho fatto a crescere o cosa ho vissuto ma come ciò nel bene e nel male non mi ha impedito di risplendere nella mia unicità: di diventare un adulto imperfetto adatto alla vita. Sappiate che questa opportunità vale anche per voi se volete. 
Ora auguratemi, dopo essermi speso molto a raccontarmi, di poter ancora scrivere storie interessanti e se, leggendomi, aveste avuto idea di quale sia la vostra unicità ma non sapeste come possa essere d'aiuto a qualcuno, allora provate a raccontarmela privatamente. 
Raccontatemi, raccontiamoci nella certezza che l'esperienza di uno può aiutare molti. Perché una storia merita di essere raccontata? Perché il suo raggio d'azione può raggiungere tutti i cerchi concentrici che l'hanno formata e che sono formati da esseri umani che solo tramite l'esperienza reciproca possono diventare coscienti del loro posto nel mondo e sentirsi liberi di essere portatori o generatori di unicità.  
Vi abbraccio. 
Stan. 


Inviato da iPad

mercoledì 28 ottobre 2015

La banda del 52 CAP 20: devo dirti una cosa

Un salto nel buio da una sola certezza: il cambiamento. 
Quando sei sul finire dell'adolescenza, accade che se sei adatto alla vita, il banco degli imputati in cui ti sentivi costretto non è più il tuo posto, se non lo sei invece, sarà facile che chiunque ti faccia tornare alla sbarra col senso del dovere, con quello di colpa, con le buone maniere o con la violenza, ma anche con l'amore o il bisogno di essere riconosciuto. 
In quella scomoda posizione circa chi siamo e cosa siamo, è facile lasciare  che le paure delle nostre famiglie o le loro avversioni circa ciò che sembriamo diventare, decidano le nostre sorti assegnandoci ad un genere che, pur  travalicando  la loro possibilità di giudizio, non si risparmiano di comminarci ugualmente: buono o cattivo, uguale  o diverso. 
Famiglie deboli o ferree che siano, tutte  pronunciano il loro verdetto chiuse nelle camere dei loro cuori impauriti e sia  che si consegnino a te per timore o che ti perseguano per cambiarti, difficilmente si aspettano di venir giudicate per questo a loro volta. Raramente accetteranno  la tua sentenza quando immancabilmente arriverà. 
Che sciocchezza pensare di generarci o di crescerci per poi dichiararci "diversi da loro", come se da loro non venissimo comunque, come se non fosse accaduto anche a loro di portare una differenza, ma certo alcune differenze fanno più rumore di altre, mia nonna ad esempio, non supero' mai la delusione per il pessimo gusto della sua figlia maggiore nel vestire o per il matrimonio  della figlia minore con un uomo gretto è molto più grande di lei. Per tutta la sua vita guardo' alle sue figlie come in uno specchio opaco, incapace di ritrovare la propria immagine in loro e per questo giudico' lo specchio rovinato, inutile e deludente. Le sue figlie ne soffrirono è così generarono a loro volta qualcuno in cui rispecchiarsi o ne crebbero uno di altri con lo stesso scopo: generando solo la stessa insoddisfazione. 
Anche loro come molti, dovevano  aver creduto che Dio ci avesse fatto a sua immagine e somiglianza per cui generando, si aspettavano di essere Dio ma non furono  brave come lui a gestirsi la delusione. Nessuno lo è del resto. In quanto a me se avessi avuto scelta, avrei scelto come ogni essere umano per convenienza ma in merito alla propria unicità, una volta svelata, non sempre è possibile che convenienza e verità siano allineate. 
La mia verità si svelo' in una camera di albergo, dalle fessure di una persiana, entro' una mattina sotto forma di luce e mi rivelo' a immagine di chi ero fatto.
Ero entrato come ogni giovane, ed io più di altri, solo parzialmente incosciente del pericolo ma da questi anche sedotto e assetato di risposte. Il corpo nel letto, inondato della luce fredda dei mattini invernali si era mosso come ferito e scostando le coperte mi invitò a ripararmi io stesso. Sarebbe bello, poter dire che non sapevo cosa volesse dire quell'invito, che in esso non sentissi il balzo del gabbiano dal suo nido sulla scogliera, ma nemmeno se giovane, il cuore e' tanto ingenuo quando scoppia nel petto, perciò accolsi il vuoto che proponeva staccando i piedi dal pavimento, e mi lasciai trasportare. 
Le cose terribili che mi erano state insegnate sul "peccato" tra uomini si chiamavano carezze? Era questa la lusinga del Diavolo che dovevo rifuggire? Se un giorno avessi accarezzato una donna che non amavo, come lui faceva con me, sarei stato meno Diavolo con la sua anima?
Nessuna vergogna mi colse, nessuna sopraffazione mi impedì di muovermi, perciò pensai che il calore di quel corpo non fosse dovuto alle coperte ma ad un cuore pulsante e ne fui certo quando quei battiti si unirono in un unico torace. Non accadeva nel suo corpo nulla che il mio non replicasse spontaneamente, niente che non mi somigliasse come se fosse fatto di me stesso e niente che, non fosse perfetto così com'era. Il mio volo fu breve, certo un po' sconnesso ma non volai arpionato dagli artigli di un rapace, come mi avevano fatto credere, semplicemente seguii il ritmo che sentivo e fu facile, emozionante e davvero liberatorio. 
Se pensate che si tratti di sesso, non avete abbastanza fantasia, come non ce l'hanno gli adulti quando pensano alla prima volta dei loro figli, o forse non avete mai volato davvero. Il sesso, quello lo scoprii molto dopo e fu di gran lunga meno significativo seppur giustamente necessario, di quel momento magico in cui qualcuno, pur potendo  prendermi tutto non lo fece , anzi  prese solo ciò che seppi offrire prima di iniziare a piangere a dirotto sul suo petto fatto a mia immagine e somiglianza: i miei primi baci. 
Lasciai quella stanza con la promessa di tornare il mattino seguente, ma non sapevo nemmeno se sarei vissuto abbastanza per farlo con tutta quella meraviglia dentro. Non so cosa provi un gabbiano al suo primo volo ma di certo il suo nido deve sembrargli alquanto misero una volta capace di lasciarlo. Tutti i pensieri luminosi si mischiarono comunque con ciò che sapevo sarebbe potuto accadere in casa, se me ne fossi uscito con la verità ma certo mentire, non era la mia strada. 
Il 52 mi guardava silenzioso mentre salivo le scale che portavano al suo portone, nel piazzale non c'era nessuno ed un vicino mi salutò come si salutano gli adulti con un buongiorno invece del solito ciao, mi chiesi se il mio cambiamento fosse già così evidente e provai un brivido di paura al pensiero della porta di casa che si apriva. Forse anche Alessandro o Giuseppe avevano dato il loro primo bacio alla creatura perfetta per loro, ma di certo sebbene potessero, credo che neanche loro lo avrebbero detto, perché non è nella natura fisica della persona che ce lo suscita il problema quanto nello shock che quella capacità di "volare" genera nei propri genitori: la consapevolezza che li lasceremo prima di farlo fisicamente, che in qualche modo non gli apparteniamo più totalmente, che abbiamo scoperto a chi apparteniamo davvero: unicamente a noi stessi. 
Il gabbiano adulto non torna a contemplare il vuoto del proprio nido ma non tutte le creature hanno questo nobile istinto. Per un po' gli esseri umani quel nido vuoto lo contemplano eccome e purtroppo anche se parlano di ciò che è "secondo natura" ai propri figli, in cuor loro detestano la natura quando fa il suo corso. Di certo i miei avrebbero detestato anche me, se gli avessi spiegato cosa la natura mi aveva spiegato e invocando Dio o la natura stessa, non si sarebbero esentati dal mettermi alla sbarra come imputato, colpevole di non aver riflesso la loro immagine ma di essermi permesso di vedere la mia soltanto, così come io a mia volta li avrei giudicati per ogni singola azione con la quale tentarono di impedirmi la piena consapevolezza di me e dell'amore su ogni cosa. 
C'è una "prima volta"  per tutto dicono. Ci fu per me come per chiunque e grazie alla banda del 52, ebbi più prime volte di quante non ne possa ricordare. La scoperta di me stesso e della mia unicità nel mondo mi fu facilitata grandemente dai piccoli membri di quella banda, dal grande gioco con cui scoprivamo cosa eravamo capaci di essere, sopportare, custodire e provare l'un l'altro. Tutto ciò di cui  avevo fatto esperienza   su quel piazzale, il viaggio nella buia intercapedine, la pineta e la nostra casa nell'orto, ogni persona incontrata o temuta mi aveva insegnato quanti colori avesse la vita. 
Mentre la famiglia mi "indirizzava" o si sforzava di "correggermi", la vita invece, si mostrava lasciando a me la scelta, nella sua infinita varietà di forme e modi, di come viverla con gioia coraggio e intensità ma anche  mostrandomi come gli esseri umani reagivano a coloro i quali "portano differenza": con paura e controllo e laddove questi non funzionassero, con l'emarginazione più  violenta. 
Non avevo intenzione di rimanere chiuso in casa come Fabio con sua madre ne di essere compatito come Maurizio o aggiustato come il braccio di Alex. Peggio ancora con volevo ritrovarmi penzoloni da un albero in Pineta come Elena la cui differenza nel mondo non potemmo mai celebrare. 
La mattina seguente dovetti decidere se ritornare da Salvatore o no. Uscii il mattino come uno che non torna, mi voltai verso i balconi del 52 sperando di vedere il sorriso di Giuseppe ancora una volta o di sentire Alessandro sfuggire alle urla di sua madre ma anche loro probabilmente erano in "viaggio" verso il proprio destino. Al banco dell'albergo chiesi della sua camera con lo stesso tuffo al cuore del giorno prima ma stavolta deciso a conoscerlo fino in fondo.
" mi spiace, ha lasciato la stanza stamattina con le prime luci dell'alba" disse il portiere con un sorrisetto di scherno, nessun recapito che fosse lecito ottenere ne io capace di chiedere. Me ne restai col nulla in mano e lo sguardo fisso seduto sul pilone che impediva alle automobili di percorrere il vicolo, a guardare l'insegna dell'albergo: hotel Stella. Maledicevo il pianto che gli avevo propinato, forse per quello se ne era andato? 
Mi ci volle una notte per decidermi ad esser uomo, si uomo con un uomo. Avevo pensato,  una notte di troppo evidentemente. Il primo essere umano a mia immagine e somiglianza se l'era portato via la luce del mattino ed ora non sapevo se ne avrei mai più incontrato un altro: se mai avrei rivisto quegli occhi verdi. Pensai persino di tornare a casa e raccontare tutto, come buttandoti da un ponte, per farla finita una volta per tutte. Mi avrebbero detto Omosessuale.   Si dice così? 
Un giovane omosessuale che soffriva come la ragazza che aveva accanto, quella a cui il ragazzo le aveva appena detto basta, si diresse a prendere un autobus ripercorrendo gli stessi passi, che l'avevano visto frettoloso giungere a quel vicolo ma stavolta gli parvero infiniti quei pochi metri. Ogni centimetro del marciapiede gridava "sei fregato, non hai più niente". 
Tutti gli odori di quel corpo  e i sapori di quella bocca gli inondarono la testa come la risacca sulla spiaggia per poi ritirarsi come lei, impossibili da trattenere. 








Dalla finestra del salotto, nel quale i miei genitori sembravano aver trovato rifugio dal mondo, guardavo la pineta ormai ammantata di Autunno e le sue foglie gialle marroni o rosse tutte identiche ma tutte diverse, cadere una dopo l'altra sotto il peso della linfa che gli mancava, quanto a me mancava lui. 
Un richiamo per la cena, profumo di nulla, poche parole, un piatto tiepido che sapeva di prigionia, finito il quale nessuno aveva qualcosa da dire o da sentire. 
" devo dirti una cosa" - feci io, una volta rimasto solo con lei. 


Inviato da iPad

lunedì 26 ottobre 2015

La banda del 52 cap 19: istruzioni di volo.


C'è vento a Genova quasi ogni giorno, ma alcuni giorni il vento soffia con l'intensità di chi ha deciso di sollevarti per aria o spazzarti via: nessuna via di mezzo. In quei giorni si ritirano i vasi dai balconi, si assicurano le persiane e nelle terrazze coltivate si spezzano le delicate piante di lamponi se non sono state coperte. 
In quello stato di tensione, non tutti si trincerano impauriti, i passeri per esempio o i gabbiani insegnano ai propri pulcini a lasciare il nido, a vivere o morire, di certo a lasciarlo comunque. 
Nessuno conosce cosa li spinga a quel balzo nel vuoto e ormai stretto nel mio letto singolo, mi chiedevo se non fossero anche loro esausti da quella sensazione di costrizione, se non lo fossero a tal punto da accarezzare il sapore della morte, pur di  poter nascere o volare.  Ero certo che gli esseri umani che si dicevano essere la mia famiglia, non avessero nulla in comune con me ma neanche il mondo sembrava invitarmi a una seconda scelta, che fare perciò? Con chi condividere il doloroso senso di unicità che mi era stato riservato? Cosa farne, non potendo rinunciarvi senza sentirne la mancanza come, dello spazio ne sentivano i miei piedi in quel lettino?
A nulla valeva più premere il pollice tra l'indice e il medio come facevo da bambino o torturarsi il cazzo come avevo preso a fare dopo. A furia di gridare in silenzio finii col sentirmi talmente male da alzarmi dal letto una notte e cadere per terra, privo di sensi o quasi. 
Luci, rumori, odori  e immagini, vorticavano tra la coscienza e il sogno, in un posto liquido dove non ero corpo ne pensiero ma piuttosto, tutti i miei sensi insieme. La sirena, il freddo di un lettino metallico e poi una voce calda e pacata che si distingueva dai suoni delle voci spaventate che mi circondavano che diceva: va tutto bene. 
Ci ero già stato all'ospedale, quando avevo otto anni e da cinque la chiamavo mamma, sperando avesse senso per lei perché io non sapevo ancora cosa significasse, nel reparto di ortopedia dell'ospedale dei bambini, ero quello meno strano con la mia gambetta e il piede capace solo di stare giù, perché il bambino del letto a fianco, aveva le dita delle mani storte e tutte unite e gli altri la testa quadrata e le gambe corte piene di ferri. Qualche coglione di infermiere ci disse che avremo visto la proiezione di una fiaba: Biancaneve e i sette nani, ma non mi dissero che si chiamavano così anche quei bambini che non sarebbero mai cresciuti, ne che il mio intervento alla gamba non mi avrebbe visto inchiodato come loro. 
Il medico del pronto soccorso disse alcune cose mentre io riprendevo coscienza dei miei quasi diciassette anni nella sala visite poi mi lascio' li da solo mentre ritornavo corpo e pensieri. Sentii di nuovo quella voce calda ma stavolta, accompagnata da un viso da capelli ricci, occhi verdi e la giacca arancione dei lettighieri della Croce Bianca. Era lì ma sembrava non avesse dovuto, perché prima che potessi dire qualcosa mi aveva accarezzato ed era uscito in fretta, lasciando entrare i miei genitori i quali, forse per lo spavento non mi accarezzarono ma anzi, mi vestirono alla bene meglio con i gesti frettolosi di chi ha perso la pazienza, per riportarmi a casa. 
Molti giorni dopo quel fatto, un giorno prendendo un autobus affollato vidi una figura che avanzava sventolando una mano, gli stessi capelli ricci e occhi verdi ma nessuna giacca arancione. Ciao ti ricordi di me? 
Feci un poco di fatica tra l'imbarazzo la memoria ma quando fu vicino, non ebbi dubbi. Si chiamava Salvatore: un nome calzante per un volontario di croce. 
Era più grande di me sapeva di uomo fatto sebbene giovane, non c'era traccia in lui della mia goffaggine e parlava sicuro senza mai lasciarmi abbassare gli occhi come avrei voluto fare, mi disse altre cose su chi era o dove lavorava ma la domanda che mi premeva fargli non uscì mai dalla mia bocca: perché era tornato a salutarmi? 
La sensazione piacevole della sua vicinanza, si mescolava al disagio della mia inesperienza impedendomi di pensare a quel l'incontro come ad una coincidenza o ad un colpo di fortuna. Chissà se il mio rossore era  visibile anche sotto l'abbronzatura della estate precedente. Sentivo di essere come sul bordo di qualcosa, ma anche avvertivo la vertigine che immobilizza invece di spingere avanti. 
Non so più chi scese per primo lasciando l'altro, ma probabilmente finii per dire più di ciò che volevo, perché nei giorni che seguirono il pensiero di lui non mi lascio' un momento, soffiando sul cuore come il vento sui pini marittimi poco prima di un temporale. 
Un salto nel buio. 
Non ne feci parola coi ragazzi, ma il mio comportamento distante parlava chiaro e loro sono certo cercarono al meglio di comprendermi, come avevano fatto col foglio seppellito sotto l'albero, nel loro modo silenzioso e vicino al tempo stesso.
Nessun pulcino conosce il giorno del suo primo volo, ma ogni cosa quel giorno sembra sottomettersi al destino che la muove, che la vuole viva o morta per bilanciare l'armonia più ampia che chiamiamo natura,  fato o vita: il vento soffia il nido scricchiola sotto il peso dell'uccello cresciuto e qualcosa di inconscio chiama ogni elemento al suo compito ultimo: vivere ed essere adatto alla vita. 
Nei treni che solcavano la riviera i vagoni erano divisi in scompartimenti da sei posti, tre erano occupati da Alessandro, Giuseppe e Alex, i tre di fronte da solo due persone. Una era allungata sul terzo sedile con le gambe,  la sua testa,  appoggiata al grembo  di un ragazzo che fissando i suoi occhi verdi gli accarezzava i riccioli. 
Nessuna battuta sconcia o umiliante da parte dei tre e nessun disagio da parte mia, tutto sembrava accadere perfettamente come doveva succedere come ognuno di noi sapeva essere. 
Forse all'apparenza, potevamo sembrare quattro ragazzini in gita accompagnati da uno più grande di noi, esattamente come la società si aspetta di vedere, e per questo niente e nessuno turbo' il nostro piccolo  viaggio verso il litorale che anche d'inverno meritava una passeggiata, un trancio di focaccia al formaggio, una carezza data ma fino a quel giorno,soltanto immaginata, a qualcuno come te. 
Avevo conquistato il mare da solo per non aggiungere distanza oltre quella che potevo sentire da ciascuno, persino dalla mia amata banda: ora con il cuore in gola e la certezza nella pelle di non essere il solo,  miravo al cielo mentre appoggiati alla ringhiera del litorale il vento salato del mare sfidava i  capelli di tutti a rimanere attaccati alla fronte. Una lacrima rigò il mio viso ma di certo doveva essere colpa del vento, anche se il mio cuore sapeva che i giorni con loro non erano ancora molti da spendere.


Inviato da iPad

martedì 13 ottobre 2015

La banda del 52 cap18: sassolini bianchi.

Il 52 fu una benevola madre di cemento per molti di noi. Sembrava che contenesse tutto ciò che dovevamo sapere sulla vita. Famiglie, persone e una valanga di segreti dietro ogni porta lucidata a dovere per mostrare ai vicini che tutto fosse  in ordine,  che tutto fosse "normale". 
Non so dire, se c'era più cera nei suoi pianerottoli o nelle facce di chi li abitava, ma sembrava che l'anima di quel palazzo volesse parlarmi, che avesse contenuto ogni singola persona affinché la incontrassi e ne conoscessi la lezione in serbo per la mia vita. 
La banda che si era formata mi aveva fornito tutta la appartenenza che mi era sfuggita nella prima parte della mia vita ed insieme era stata il grembo sicuro della mia formazione emotiva a tal punto che se non fosse stato per la corretta istruzione, la scuola sarebbe potuta essere superflua. Di certo, il 52 mi formo' in ben più importanti  aspetti della crescita di un essere umano: avventura, aggregazione, adattamento e sviluppo. 
Alex il nostro "onde man show" aveva due fratelli più grandi ma uno dei due meritava di essere raccontato più dell'altro. Ti capitava di vederlo certe ore del giorno con la sua borsa a tracolla tornare dalla scuola,magari canticchiando a voce alta o chiamando per nome le signore del palazzo, come se fossero delle coetanee. Non era maleducato Maurizio nel trattare con gli adulti, perché lo faceva come un bambino di dieci anni pieno di entusiasmo. Anche se doveva averne almeno dieci di più, Maurizio, non avrebbe mai avuto più di dieci anni per tutta la vita.
Le famiglie così perbene del 52, se potevano, cercavano con ogni scusa di non trovarselo tra i piedi, perché potevi esser certo che se anche fossi stata vestita da sposa o di ritorno da un funerale, lui ti avrebbe abbracciato con la forza mal dosata del suo corpo di ragazzo dal cuore bambino. I suoi genitori dovevano essere stati a dir poco magnifici per quei tempi ad averlo reso il più autonomo possibile, coi pochi mezzi e l'ignoranza di allora circa certi fenomeni della mente e infatti, lui non era di peso per nessuno, tuttavia i suoi genitori erano spesso eccessivamente arrabbiati per le vicende inutili di condominio. 
Maurizio era intriso, inzuppato forse persino fatto di amore per gli altri e non aveva nessuna inibizione nel mostrarlo continuamente: "ciao Maria" diceva a mia mamma vedendola alla finestra mentre saliva le scalette fino al portone, poi, con le sue amate tennis si portava sotto la finestra e cominciava a raccontarti qualcosa. 
Parlava forte e rideva spesso fino a che la saliva non formava delle bolle o gli colava dal labbro, ma lui si puliva e ricominciava perché il suo bisogno di comunicare era prioritario.
Alle domande semplici rispondeva correttamente e se erano invece più difficili, come i bambini si fermava un po a pensare, dopodiché cambiava discorso. Sapendo che si fermava volentieri a parlare con chiunque, sua madre, passata una certa ora lo chiamava e lui allora ti salutava e andava a casa. 
Era una strana epoca quella, perché nonostante si usassero dei termini orribili per definire i ragazzi come lui, si era però portati nei quartieri ad una certa vigilante cura comune della loro incolumità. Mio padre specialmente, lo ascoltava o lo tirava su in macchina se lo vedeva a piedi accomiatandosi da lui con una carezza e vuoi il fatto che era il fratello di Alex, vuoi per la sua bontà, vuoi perché papà mi aveva mostrato un ottimo esempio, anche io presi a non defilarmi incontrandolo. Certo sapeva stonarti il cervello Maurizio con la sua voce chioccia e stridula che ben si adattava al conflitto fra la sua crescita fisica e quella cognitiva, ma sapeva anche toccarti il cuore. 
Certe volte quando era offeso o triste stava fermo con le mani giunte al petto torturandosi le dita mentre gli occhi cercavano conforto da qualcuno che una volta individuato veniva raggiunto e inondato dalle sue rimostranze al riguardo ora dei fratelli o di qualche difficile esercizio scolastico. Nel guardarlo mi chiedevo come facesse la sua mente a sopportare la crescita fisica ma poi ti raccontava della sua fidanzata, di quanto era carina e ti sembrava fosse più sveglio di te! 
Un altro ragazzo particolare era Fabio  figlio dei signori dell'ultimo piano e mio amico speciale. Ci eravamo conosciuti perché le nostre mamme si erano fatte amiche opportunistiche, dato che la Maria Luisa, mia mamma, aveva rinverdito la patente e la mamma di fabio pur di avere un passaggio, sapeva incoraggiarla come nessuno, mentre noi ragazzi dietro la cinquecento facevamo conoscenza. Fabio non diceva molte parole ma i suoi enormi occhi castani e la gentilezza delle sue mani sempre gelate dicevano che era contento di conoscermi. 
Fabio in piazzetta non ci veniva ma non è che sua madre avesse qualcosa in contrario, piuttosto lui non voleva allontanarsi da casa, data la sua patologica timidezza, perciò siccome il suo silenzio e la mia chiacchiera si combinavano bene, prendemmo a vederci a casa sua. Salivo d'inverno specialmente, a giocare con lui che aveva giochi molto belli e costosi essendo figlio unico ma mancava della fantasia per goderne. Di quella io ne avevo da vendere e volta per volta, dopo le prime reticenze, Fabio mostro' di apprezzare la mia compagnia e la discontinuità che questa gli offriva dalla sua principale occupazione: lo studio. 
Quel ragazzo era intelligente oltre la media ma quella che sarebbe stata una capacità di successo nella vita adulta, gli capito' nella prima adolescenza catapultandolo nel contenitore delle persone "strane". Sua madre era una donna dolcissima e talmente premurosa che le sue attenzioni potevano essere anche soffocanti. Aveva desiderato quel figlio più di ogni altra cosa ma i dolci che preparava per la nostra merenda erano intrisi di lacrime e lo capivo dallo sforzo che faceva perché io non mi allontanassi da suo figlio. Fortunatamente io di attenzioni avevo sete e Fabio era perfetto per uno come me in quanto consentiva alla mia immaginazione di scorrere libera e addirittura di trasportare anche lui in luoghi pieni di avventure senza nemmeno uscire di casa. Imbastivo per lui, autentiche sceneggiature con personaggi e dialoghi che ero bravissimo ad alternare tra loro e ruoli epici o romantici coi quali senza saperlo gli insegnavo le emozioni che lui non sapeva mettere a fuoco, e con lui io mi sentivo perfetto così com'ero. 
Sia lui che Maurizio, e perché no, anche io potevamo essere oggetto di imbarazzo per i nostri  adulti i quali con maniere tanto diverse ci amavano di un amore contaminato da qualcosa che non permetteva loro di goderci appieno: la paura. 
Aveva paura la mamma di Alex, che suo figlio con la sua innocente ingenuità fosse deriso o peggio da coloro ai quali si avvicinava tanto facilmente e con fiducia, ne aveva la mamma di Fabio che, nessuno si accorgesse di lui nonostante il successo scolastico che son certo maledicesse, ma che era terrorizzata all'idea di perderlo e ne aveva mia madre della mia fantasia "contorta" come aveva preso a chiamarla da un po, così come della mia diversità ormai difficile da coprire. 
Che ti amassero o che non ne fossero capaci, i genitori del 52 come molti di quelli di allora, non erano preparati alla unicità, alla specificità dei loro figli ma ossessionati piuttosto, da un concetto di "norma" che non causasse loro visibile imbarazzo sociale. Le famiglie normali mandavano i loro figli perfetti e insulsi all'oratorio, come Marcolino che tornava isterico, quelle che avevano figli come noi erano invece  meno inclini a mostrarci.  Capaci di chiudersi o di diventare aggressivi non era più chiaro cosa o chi difendessero con quegli eccessi. I propri figli? Se stessi? In ogni caso, mi sentii di includere sia Fabio che Maurizio nel mio caleidoscopio umano e divisi tanto con loro,quanto con gli altri, la mia quotidianità perché in qualche modo erano anche loro sassolini bianchi tra pietre nere: come me. 

Le critiche del resto, non venivano risparmiate e le persone dietro le loro porte laccate e le piante finte di certo intrattenevano autentici processi volti a determinare le cause di quelle "anomalie" per passare il pomeriggio con le amiche a gongolarsi sulla loro progenie di smidollati senza alcun mordente. "Sarà nato così perché il marito beve" o " dicono che a quattordici anni gli faccia ancora il bagno..per forza quel ragazzo è strano" o nel mio caso " sembra una donnetta quello...se fosse mio figlio lo manderei in collegio"! 
Il mondo del quale volevano facessimo parte ci veniva presentato con tutta la sua contraddizione alla quale, secondo il pensiero comune, la normalità rispondeva come "lasciapassare", ma a mio avviso  un po' come le piante finte dell'androne rispondevano al concetto di "natura": in modo davvero difficile da considerare realistico. 
C'era qualcosa di più interessante nella differenza e nella nostra capacità di entrare in contatto reciproco. Io Alex Giuseppe e Alessandro Maurizio e Fabio  avevamo già affrontato con i nostri giochi, patti e avventure molte delle sfide che la vita futura ci avrebbe riservato e istintivamente appianato il concetto di differenza più efficacemente di come le nostre famiglie credessero: noi eravamo la banda del 52: quello che ad uno di noi mancava, era sovrabbondante nell'altro. Magari la"norma" non era soddisfatta ma lo erano di certo l'equilibrio e l'armonia. 


sabato 10 ottobre 2015

La banda del 52 CAP 17: inutili pene.


Una strana idea degli adulti, circa l'adolescenza, è che sia tutta una elucubrazione ormonale che genera allucinazioni emotive e che rende i ragazzi ingrati, maleducati o fastidiosamente silenziosi o loquaci.  Sarebbero capaci di ritenerti adolescente anche a trentacinque anni se ti capita di non dargli ragione o di agire per tuo conto, ma se di anni, ne hai davvero quattordici,  puoi star certo che si aspettano che tu stia chiuso nella stanza e che parli per monosillabi. Perché non parli? Non parlarmi in quel modo eh?!
In generale, sembrano credere sia tutto nella tua testa. 
C'è invece, in quei silenzi e nella quotidianità' degli adolescenti, qualcosa di prettamente fisico che complica tutte le manifestazioni. Si, parlo di lui, del pene e senza chiamarlo pisello, pisellino, o "quell'affare" come lo chiamava mia madre. Direte ma le femmine sono adolescenti anche loro, perché parlare del pene? Perché alla fine, anche nella quotidianità delle ragazze adolescenti, nella loro irrequietezza, questi, ha un ruolo ben preciso e poi io ero maschio, di che dovrei parlare? 
Ah gia della vagina forse, ma è proprio questo il punto: il ruolo dei genitali nella vita degli adolescenti non e' legato al loro compito riproduttivo o all'erotismo come pensano gli adulti che, siano essi bacchettoni puritani o liberali e modernisti, sono davvero fissati con il sesso in modo imbarazzante. Per i ragazzi, ha a che vedere con un passaggio alla vita adulta nel quale i genitali sembrano farti lo sgambetto proprio quando il colpo di inizio per la corsa verso la libertà è stato sparato. Che ti siano cresciuti due ingombranti seni che ti costringono a camminare gobba o che il tuo pene un certo mattino sembri voler sollevare un comò, tu ti trovi a non provare nessun piacere per i tuoi nuovi prepotenti accessori ma solo l'evidenza fisica del tuo disagio a convivere con la loro individualità.  Come possono gli adulti pensare che questi fenomeni ti spingano ad essere estroverso, comunicativo o sereno? 
Tornando al pene, col quale ho più confidenza, ricordo di aver pensato che rispetto alle ragazze ero più fortunato, perché una volta fatta la pipì al mattino ed evitato di farmi vedere dagli altri componenti della famiglia, lui, se ne tornava abbastanza invisibile mentre le povere ragazze potevano far pipì per tre ore ma le tette non gli si sgonfiavano di certo. A noi i genitori urlavano,  "vai in bagno quando ti alzi", a loro invece, " stai dritta che ti rovini la schiena"!
Ed ecco perché il pene ha un ruolo di primo piano anche nella vita delle adolescenti femmine, perché oltre a rappresentare qualcosa di brutale e attraente al tempo stesso, il pene manifesta tutto il privilegio della società per i maschi dato che appare e scompare come le tette non possono fare: quelle una volta che ti escono dal petto poche o tante che siano e prima che una ne capisca il potere, ti gettano in un imbarazzo costante perché soggette ad un giudizio di "quantità" , che il pene riceve in contesti molto più privati, il che le spinge anche a detestare i maschi per un momento. 
Quando un ragazzo entra a scuola difficilmente verrà canzonato nell'atrio per le sue misure ( che tra maschi vengono confrontate ma in ambiti camerateschi e non vale per tutti ) mentre invece una piatta o pettoruta può star certa di sentire diverse canzonette al riguardo non appena varchi una porta, non mi sorprendo quindi che una volta tornate a casa fossero alquanto più isteriche di noi. Incomincia comunque volente o nolente una difficile convivenza con questi fenomeni in un momento in cui i comportamenti infantili assodati si mischiano a nuovi schemi comportamentali di cui non conosciamo gli esiti: se fare i capricci o cercare coccole suscitava nei nostri adulti reazioni conosciute e affidabili, avere una erezione o un dolore premestruale al seno non  avrebbero significato niente di certo. Avresti potuto ricevere un abbraccio che non potevi ricambiare o una sgridata che non meritavi. 
Molto dipendeva dalla natura delle proprie madri e padri, purtroppo, da ciò che questi avevano imparato dalle reazioni dei loro genitori sommate alle ottuse convinzioni che si erano formati una volta diventati  genitori tuoi e dei tuoi genitali. Mia madre ad esempio, si arrabbiava moltissimo se papà usciva dal bagno in mutande dopo essersi lavato e con me si arrabbiava perché ne uscivo vestito ma senza averlo fatto: mia madre era arrabbiata a tempo pieno. Diceva ad esempio, che sua madre non le aveva spiegato molto sui maschi e me lo disse, come se questo  dovesse spiegare qualcosa ma a me. 
 Fatto sta che  del il mio pene me ne cominciai ad occupare in modo assai discontinuo e sbrigativo eccezion fatta per la masturbazione a cui dedicavo attenzioni più prolungate in quegli anni. 
Siccome ti masturbi,  e i tuoi genitori lo scoprono solo perché non sei attento o perché  dal cesso non esci più o ne esci arrossato come un peperone, ecco che improvvisamente,  sei dichiarato in qualche modo disgustoso o ingiustamente colto da pulsioni inproprie. Ma come?  Ti parlano di sesso prima che ti interessi o neanche te ne parlano, quando sei li che non sai che ti succede, pensano che tu ce l'abbia con loro o che sia colmo di pensieri sull'altro sesso ( di cui ne sai quanto del tuo e cioè niente) ma se diavolo ti masturbi,  allora si che gli fai schifo! Se finalmente e da solo, hai capito a cosa serve, beh quello e' un problema. 
E anche qui il pene ha il suo peso poiché la masturbazione femminile pare essere più discreta in un certo senso e probabilmente, meno facile da ravvisare per un genitore. Forse fu per questo che presi a riempirmi le mutande con i bigodini di mia madre la quale non avrebbe mai scoperto il segreto delle sue messe in piega. Detestavo il disprezzo che le leggevo negli occhi per il mio sesso o per l'idea che se ne era fatta e non potei che ricambiarla a modo mio. Di questo dovrei non andar fiero lo so, ma non posso che provare invece una certa soddisfazione per la creatività con cui mi ero espresso. 
Certe volte avrei voluto essere come Goldrake che pur avendo i magli rotanti, l'alabarda spaziale non ce l'aveva in mezzo alle gambe, o come il Big Jim a cui il pene doveva essere caduto, così come credo mia madre si augurasse per me, invece ero come un supereroe imbranato a cui si sguainava la spada senza controllo.  Un sacco di cose nel mondo erano fatte a forma di pene: gli obelischi, i grattacieli americani, i coni gelato ( che smisi di mangiare) e le penne bic, o così comincio' a sembrarmi. 
Ci mancava anche il pene a dirmi cosa fare e quando...
Non ti senti potente in quei momenti o spregiudicato e malizioso come credono. 
Alla fine io avrei voluto parlare delle mie emozioni al riguardo, del turbamento che non provavo per il sesso ma per la triste fine di quei giorni in cui col pene ci facevo pipì e basta e  per quello che ora avrei dovuto farci secondo l'Enciclopedia Medica che  mi aveva mostrato tempo prima e che non mi convinceva proprio, ma come poteva reagire mia madre al mio interesse per un secondo pene e non per una vagina? 
Quel genio,  dopo aver parlato a mio papà circa il perché della mia improvvisa tristezza e della mia chiusura se ne uscì con la trovata del secolo dicendomi: "senti guarda che data la tua storia e' normale che tu ti senta così ma se vuoi non appena avrai  diciotto anni potrai sapere chi sono i tuoi genitori naturali e se vuoi ti accompagno io a prendere i documenti che saranno necessari". Ricordo ancora il senso di disperazione che mi colse guardando la sua espressione da " io si,che so cosa provi" e riuscii solo a dirle: cazzo mamma, forse è meglio che ti lavi la testa come avevi detto di fare. " smettila di dire parolacce santo cielo". 
Si, i genitori sanno sempre cosa ci succede, lo sanno perché ci sono passati prima di noi, perché sono sopravvissuti all' adolescenza. Lo sanno perché credono di sapere quello che siamo ma preferiscono occuparsi  di ciò che sembriamo, specie se sembriamo diversi da loro. I genitori non capiscono un "cazzo" ma è meglio che non glielo diciate così,  altrimenti penseranno che avete in mente solo quello e, se per caso fosse vero, allora ne  sarebbero di gran lunga più spaventati di voi. 
Perché non ce l'hanno il coraggio di dirvi che possono solo insegnarvi ad essere come loro dal momento che ciò che erano alla vostra età lo hanno dimenticato o rifiutato. Ne l'onesta' di dirvi che il vostro pene o la vostra vagina non determinano chi sarete, chi amerete e chi diventerete. 



martedì 6 ottobre 2015

La banda del 52 CAP 16: il mare dentro.


Il mare a Genova rientrava nella familiarità di ogni gesto . La sua risacca si rifletteva nel "mugugno" della gente per strada, il moto ondoso, nelle salite e nelle discese della città e il salmastro della  acqua, nel carattere forte  dei suoi abitanti come nella ruggine di ogni cardine.  
Per i ragazzi che diventavano grandi, andare al mare senza i genitori, rappresentava la conquista della libertà che avrebbe raggiunto il culmine con l'esplorazione da Levante a Ponente della sua Riviera. 
Da piccoli,  c'eravamo andati al mare ma a causa del frastagliato litorale roccioso, le spiagge adatte a bambini e famiglie impegnavano una giornata di tragitto per essere raggiunte o soldi a sufficienza, per accedere ai lidi privati presenti nella città. Dei miei, solo mio padre sapeva nuotare ma ansioso come era si guardò bene dall'insegnarcelo, mentre la Maria Luisa sfidava la fisica elementare non riuscendo a galleggiare neanche col salvagente. Del mare, da bambino,  ricordo solo la sabbia nel sedere e il fastidioso concetto di digestione, secondo il quale mare e cibo non si potevano coniugare, come anche le parolacce di papà in coda con la macchina a passo d'uomo, nella via del ritorno. 
Il bello del 52 era che essendo un palazzo  di ferrovieri, noi famigliari, godevamo di una preziosa tessera del treno  gratuita e per ragazzi adolescenti e squattrinati come noi, questa era già ricchezza. Ad un certo punto,  dovevamo essere diventati abbastanza grandi o insopportabili  da aver ottenuto il permesso di prendere il treno per andare al mare il pomeriggio. 
Si trattava in realtà di un paio di fermate dalla stazione principale ma di certo, il treno, era più rapido di un bus e gratis. Dopo fiumi di raccomandazioni, si andò zaini in spalla verso lo scoglio di Quarto al mare,  dove c'era una spiaggia libera, una parte ricavata da scogli, e alcune piazzole di vecchio  cemento realizzate anni prima per chissà che,  ormai ricoperte di muschi e  parte del panorama. Come ci sentivamo grandi  seduti nello scompartimento a ridacchiare di questo o quello, o a mostrare le tessere ferroviarie al controllore, che ci sorrideva come avrebbe fatto ai suoi figli. 
Giuseppe e Alessandro sapevano nuotare mentre io invece no, così le prime volte rimanevo sull'asciugamano o li aspettavo sulla battigia per decretare chi di loro era il vincitore del tragitto dalla "piattaforma" alla spiaggia in velocità, ma certo non ero proprio felice del compromesso.
La sensazione di esclusione da loro e da quell'elemento così a portata di mano mi faceva sentire come di fronte ad una torta in vetrina. La sorellina di Giuseppe, che sua madre mandava obbligatoriamente con lui, sembrava capire la mia frustrazione e, forse perché anche lei era un po sola, tornava festosa da me a dirmi ogni cosa che aveva visto con la maschera sotto l'acqua: i ricci di mare, gli oggetti sul fondo, o che altro. Strizzava  i suoi lunghi capelli di ragazzina portandoli di lato con la grazia di una fatina del mare e con la sua voce allegra, mi invitava più volte a scendere in acqua con lei, " vieni di qui che è più facile e si tocca" mi diceva certissima della affidabilità delle sue "ispezioni", e io la seguivo fino magari a sedermi su uno scoglietto mentre lei saliva e scendeva dalla superficie per prendere fiato! 
Mi prendeva conchiglie sempre diverse o vecchi pezzi di vetro che rimestati per anni nel moto ondoso del fondo si erano arrotondati fino a sembrare giade chiarissime e preziose. Tenendoli tra le mani riflettevo su come si fossero trasformati e mi chiedevo se anche io avrei avuto quella occasione, se anche per me ci fosse una trasformazione possibile che da "coccio d mi potesse rendere "gemma".  Il mio sguardo, mentre lei pescava i tesori, si volgeva alle persone che ci circondavano: tutti sembravano sentirsi in dovere di prendere il sole e mostrare così i loro corpi senza l'imbarazzo che provavo io. Come avevano vinto quel senso di vulnerabilità e vergogna che incuteva il costume da bagno? O non lo avevano mai avuto? Si lasciavano bagnare come quei vetri fino a sembrare lucidi e scintillanti al sole. Abbarbicato allo scoglio cercavo di mettere in acqua la maggior parte del mio corpo per essere brillante al sole anche io. 
Di certo quell'imbarazzo, non l'aveva Giuseppe, che ne indossava un costume bianco e fin troppo trasparente se bagnato, e che non appena steso il telo sullo scoglio, si spogliava impaziente con le sue gambe pelose e i bei piedi per correre con Alessandro alla Piattaforma: una lastra di cemento posata tra due scogli da cui le onde potevano coglierti alle spalle, come l'imbarazzo coglieva me in quei momenti. Io ero l'ultimo a rimanere in costume e nonostante fossi agile in pineta, i miei piedi sembravano troppo delicati per i ciottoli della spiaggia o le creste rocciose degli scogli, tra i quali più spesso mi trovavo carponi a tentare di valicarli. 
La naturalezza con cui quella bambina affrontava il mare così vasto e mosso, mi diede coraggio è un giorno mentre i ragazzi si spingevano in acqua dalla piattaforma io e lei, ci mettemmo in un punto riparato dalla confusione e li accadde!
Con la sua mascherina mi indicava dove mettere i piedi e mi trovai con fuori dall'acqua solo la testa. "Vado a controllare com'è sotto" mi disse la sirenetta!
Ci sono momenti magici nella nostra vita che si rivelano in modo inaspettato e che suggellano in noi cambiamenti profondi come il mare: in quell'abbraccio liquido la mia mano si staccò dalla durezza della pietra a cui era aggrappata, senza  che quasi me ne accorgessi. Mi trovai sospeso e  contrariamente a ciò che la paura mi aveva detto circa il mare, questi mi cullava come non mi aspettavo. Per la prima volta, un elemento del mondo che temevo sembrava volermi affrancare da ogni peso, da ogni incapacità dicendomi silente col suo moto, di non far niente, che niente c'era da fare che non fosse già fatto. Eravamo io e lui e mi parve, che tutta la gente chiassosa e i ragazzi spavaldi fossero spariti, come inghiottiti da un silenzio nel quale il mio respiro e le onde si sincronizzavano leggeri. Non sapevo se era l'acqua salata a rigarmi il viso col sapore di una lacrima o le mie  lacrime ad aggiungersi al mare, ma fu come se una cataratta dei cieli si fosse aperta nel cuore ed ogni dolore lavato via dalle onde di quel mare di sale!
Nella bolla di quell'istante di felicità assoluta che poteva sembrare una nascita o una morte senza che ci fosse differenza, una vocina arrivo' chiara alle mie orecchie: " Fabri ma ci tocchi?"
I piedi che fino a quelle parole mi erano parsi fluidi come le alghe, tornarono a pesare nel cercare la risposta e non trovando nulla sotto di essi, si comportarono  da bravi macigni quali erano stati portandomi a fondo. Il battito del cuore e il respiro, stonavano tra loro cercando di vincere uno sull'altro, come se ne bastasse uno soltanto a sopravvivere e di nuovo, mentre l'acqua mi invadeva in ogni vuoto del corpo come un barattolo, un'altra scoperta mi colse sotto le onde. Gli occhi si spalancarono mettendo gradualmente a fuoco un panorama sommerso di suoni, colori e immagini e il fiato misto ad acqua che avevo in bocca mi costrinse a rinunciare all'acqua, trovandomi di nuovo immobile e in pace. La faccina di Federica ingrandita dalla maschera subacquea mi fece addirittura ridere e riemersi in una fragorosa risata come venendo al mondo per la seconda volta ma senza piangere.
Una volta raggiunta la terra ferma, la mia sirenetta mi abbraccio' felice e alle spalle, come le onde, Giuseppe e Alessandro, che avevano visto tutta la scena festeggiarono il mio "varo" da veri compagni. Ancora una volta la banda del 52 si era comportata come una famiglia ma più felice di come sarebbero stati i miei se avessero visto tutto ciò, non immagino neanche quali genere di punizioni e reprimende avrebbero potuto darmi ripetendo che potevo anche morire, senza aggiungere che potevo anche invece, aver imparato a nuotare sebbene non come ci si aspetta che succeda. 
Sul treno di ritorno, mi sembrava di sentire ancora il rullio del mare nello stomaco. Le mele verdi avevano lasciato posto al sale e alla sensazione di aver vinto da solo, le paure che avevo di non essere come gli altri. Di essere per forza destinato a guardare la vita come guardavo il mare prima di quel giorno: senza entrarci dentro con tutto me stesso. Il mare mi aveva fatto morire e rinascere in un solo giorno o forse ero solo pronto a vivere davvero? 



mercoledì 30 settembre 2015

La banda del 52 CAP 15: decisioni decisioni

L'adolescenza non portò soltanto tormenti interiori ma anche scoperte concrete. Dall'esterno, le difficoltà a collocarsi nel mondo, la velocità con cui una strada diventava vicolo cieco e l' ostinazione degli adulti a vederci ricalcare le loro orme, come se, il mondo a cui erano stati presentati loro, non avesse ancora conosciuto il fuoco ne dovesse farlo, ora che toccava a noi. 
Dentro di noi, il fuoco c'era eccome e si chiamava Desiderio. In se, costituiva già l'antidoto ad ogni difficoltà esterna, poiché bruciava dentro più di un castigo ed era infinito, come nessuna punizione avrebbe mai potuto essere. Era però, anche energia propulsiva, combustibile nella camera a scoppio dei nostri cuori giovanili. 
Desiderio di libertà, identità, autonomia, conquista e perché no, anche una serie di rivalse che somigliavano alle ripicche di un povero, che rifiuta un pasto caldo perché offertogli da qualche ricco disprezzabile, anche se ha fame. Quante facce aveva il desiderio nei giorni in cui il nostro corpo ne era custode e prigioniero al tempo stesso!
Lo vedevi negli occhi delle femmine, che un giorno cominciavano a brillare di una luce  invitante e di iniziativa come quella che avevano la sorella di Giuseppe e Marcolino con le loro tettine accennate e i lunghi capelli lucidi, come  anche in quelli dei  maschi il cui sguardo, cominciava ad esprimere  però, solo sete di possesso e  una irruenza sconnessa ed imprecisa negli intenti. 
Per quelli come me, in parte adolescenti come gli altri, c'era un terzo tipo di luce?
Dicevano avessi sempre lo sguardo triste ma non ricordo la tristezza, per come la raccontavano, abitare il mio corpo sgraziato. Io non tenevo gli occhi bassi, non fuggivo lo sguardo degli altri ne gli altri potevano sfuggire il mio, tuttavia, non potevo dirmi ancora un insolente. Direi oggi, che fossi decisamente un polemico perbene. 
Le regole, la verità, le convenzioni tutte, io le avevo assorbite, credute e interiorizzate  ma una ribellione antica me le faceva discutere interiormente. Non essendo considerato ancora degno di un confronto verbale paritario con gli adulti, mi limitavo ad interpretare fisicamente i ruoli che dovevo ma nella testa una vocina: non può essere tutto qui. 
Le delusioni circa l'avere  un fratello o dei genitori avevano ridimensionato di molto e precocemente la mia idea di famiglia. Rimaneva invitante come una mela rossa, ma avevo assaggiato anche il veleno del suo bisogno. 
Mi era chiaro che ciò che sentivo circa la vita, la curiosità di essa che ne avevo, non mi avrebbe facilitato  in una casa di persone come la mia, che dicevano di "accontentarsi", né in una religione che aspirava a nient'altro che ad una esistenza monotona e del tutto assoggettata al pensiero di un ristretto gruppo di eletti. 
Certo, anche i miei amici provarono  la stessa sensazione di estraneità ad un certo punto, ma se loro erano considerati irresponsabili e impulsivi quanto me, c'era nei loro adulti una sorta di fierezza per la loro sete di conquista che non vedevo nei miei. 
Il mio alto rendimento scolastico nelle scuole medie era visto al massimo come un dovere assolto come ci si aspettava che fosse, per cui la mia intelligenza non era una specialità rilevante, come non lo erano la sensibilità o la gentilezza. 
Mentre Alessandro e Giuseppe erano sul ciglio di un mondo che sembrava loro aperto, io venivo invitato a non scoprirlo,  a temere le sue lusinghe e le persone che non facevano parte della cerchia di sicurezza che mi  era stata "approntata". Inutile dire che effetto possa avere su un giovane la proibizione. 
Il freno di questi divieti genero' in me una altra emozione propulsiva: la rabbia. La sentivo crescere come crescevano le mie ossa e di tanto in tanto, prendeva il sopravvento, limitando la prudenza con cui mi ero, fino a quel momento, lasciato inquadrare. 
Le cose che avevo accettato mi definissero come l'essere "distratto" o "goffo" ma anche "obbediente" e " maturo" formavano di me uno strano personaggio nel quale non riconoscevo alcuna vitalità. Io mi sentivo tale solo correndo a rotta di collo per la pineta con la mia banda, o sul divano a far finta di fare la lotta con Giuseppe o con una cucciolata di orfani miagolanti di cui essere quotidianamente responsabile e nei disegni dell'ora di artistica che mi vedevano creare figure umane e bestiali fuse insieme che probabilmente oggi mi avrebbero spedito dallo psicologo ma allora, esprimevano soltanto la mia domanda principale: le persone possono essere bestiali? 
Questi due me, quello obbediente e quello ribelle non potevano convivere senza fare di me uno squilibrato, per cui uno dei due sarebbe dovuto venire meno prima o poi. Uno dei due non sarebbe stato "adatto alla vita" che avrei scoperto esserci nel mondo e che volevo raggiungere al più presto, come tutti i ragazzi.  La libertà di cui mio fratello di soli tre anni più grande godeva, era spropositata rispetto ai mille limiti a cui io,  ero invece soggetto. Perché?
Pur avendo anche lui dei tratti ribelli, sembrava che i miei non li vedessero, o che addirittura li temessero o se ne sentissero responsabili, al punto da non ostacolarlo. Di lui sembravano fieri o di certo meno preoccupati che di me. 
"Quando sei arrivato tu lui ha avuto le convulsioni per giorni, temevo che morisse" mi disse una volta mia madre. Io lo cercavo molto da piccolo, preparavo per noi dei giochi e poi lo chiamavo ma non veniva mai. Le uniche attenzioni di cui mi faceva oggetto erano violenti scontri in cui, gracile com'ero, finivo per subire fino a piangere dal male. Che stupidi i giochi dei fratelli, sembrava logico che ci fosse una certa gelosia in lui, che la esprimesse come poteva. "Non siete mai andati d'accordo" disse mia madre molti anni dopo aver dimenticato che il motivo per cui andò così fu il suo egoismo. Fino a che punto la gelosia è solo un modo in cui vogliamo sapere se saremo amati come prima? 
Non è vero che una madre ama i suoi figli tutti nello stesso modo, sarebbe come dire che non ne ama nessuno in modo personale. Lui fu il primo a rispondere al suo bisogno di normalità, a farla sentire una "donna come tutte le altre": capace di essere madre, ma come in tutte le cose degli adulti non seppe "accontentarsi" come diceva a noi di fare. Volle vedere se quella sensazione che la metteva finalmente al centro di qualcosa non potesse essere ancora più intensa. Qualcuno disse che lei era stata meglio di una madre normale avendoci adottati ma non lo fece per noi, lo fece per se stessa e per se stessa, fece anche tutto il resto.
Così per placare il fallimento del suo piano "materno"di normalità personale  non corresse la pericolosa deriva del suo favorito, discutendo sempre più accesamente con mio padre, il quale desiderava porgli un limite e si incarico' di gestire me, in qualche modo, a quel punto,  considerato se non colpevole, almeno causa di un grande disturbo per tutti. Il tutto ignorando la singolarità di ognuno di noi. 
I miei problemi di salute da piccolo, rendevano il suo accudimento stretto apparentemente motivato da amore ma nei gesti con cui provvedeva a me sin da piccolo c'era la tensione di chi è costretto a farlo suo malgrado e forse anche malvolentieri. Troppo imbarazzanti le mie domande infantili e dopo da ragazzo l'imbarazzo crebbe a vista d'occhio. Superai mio fratello in ogni campo e senza sforzo e mi guadagnai loro malgrado molto apprezzamento da chiunque ma niente non bastava ancora. Forse era vero che eravamo una famiglia normale ma non avevano considerato che il bisogno di essere amati in modo esclusivo di ognuno di noi due, era ben al di sopra della loro "norma" al riguardo e che per tale ragione ci avrebbe fatto agire al di là delle normali regole stabilite da loro o dal mondo. Soddisfatto o frustrato quel bisogno avrebbe insieme all'adolescenza sviluppato il suo potenziale. 
Dentro di me cominciai a disgustarmi di tutti loro, delle loro bugie, del piatto sul tavolo messo lì senza gioia, della finzione con cui tutti sembravano aver trovato il modo di "usarmi" convenientemente ai loro scopi. 
Ma anche io avevo fallito in un certo senso. Non ero riuscito a capire che figlio dovessi essere per piacergli e mi mostrai talmente desideroso di diventarlo da non accontentarli mai abbastanza ne  abbastanza a lungo per essere felice anch'io, senza dover rinunciare completamente a me stesso. Chi di loro aveva mai fatto tanto perché io lo amassi? Nessuno. 
"Ti abbiamo fatto sempre sentire inadeguato, perché tuo fratello soffriva troppo" scrisse molti anni più tardi mia madre " tu avevi solo bisogno di essere amato e quando me ne accorsi eri già andato a cercarlo nel posto sbagliato". Non conosco un posto più sbagliato della famiglia da cui provengo, come di quella in cui crebbi, infatti,  queste parole  non costituirono  mai una richiesta di perdono. Mi resi conto più tardi che altro non erano che la sentenza di essere "perduto" ormai sporcato da un amore sbagliato, l'ennesima maniera di quella madre  di sentirsi a posto.  Lei aveva fatto la sua scelta, dovevo fare la mia. Ne feci una, forse la più infelice ma da ragazzi si agisce "normalmente"  per estremi.
Se non puoi essere soddisfazione diventa il più gran  tormento che puoi e diciamocelo, non c'è nulla che un ragazzo deluso e arrabbiato sappia far meglio, tanto più se dotato di una certa intelligenza istintiva. 
Ma c'era una cosa che desideravo fare prima di diventare "problematico", e cioè imparare a nuotare, dato che i miei due genitori "normali", non ce lo avevano insegnato fino a quella età. 
Giuseppe e sua sorella furono in modo assai curioso i migliori maestri che avrei potuto avere e ancora una volta la Banda del 52 si sarebbe presa cura di me!!



martedì 22 settembre 2015

La banda del 52 cap14: barattoli


Tutto il pudore che avevo e il timore di essere "scoperto" andavano a farsi benedire con la presenza del Principe tapparellista in casa. Lo seguivo ovunque e mi inventavo mille modi di essere utile di dare senso al fatto che gli stessi alle calcagna: prendigli il martello prima che lo chieda, vai in garage a prendere quella vite col cuore in gola e mille altre premure pur di farsi notare. Avrà sete o fame? Vuole una banana? Oddio una banana e' meglio di no!
Il mio "rendermi utile" non era cosa nuova in casa, perché se c'è una cosa che un giovane farà, se avverte di essere "strano" per i suoi famigliari,  sarà quella di trovarsi uno scopo qualsiasi. O di chiudersi come un riccio. Oliver Twist, fece il ladro prima di diventare principe e Cenerentola la sguattera gratis, prima del ballo.
Il debito che sentivo di avere coi miei genitori e  insieme la sensazione di non adempierlo mai abbastanza, mi spingeva a indossare etichette a profusione. Come un barattolo vuoto  cercai di essere ora   "bravo ragazzo", poi " ragazzo "sensibile" o  " tanto intelligente" o "premuroso". Tutte, purché vagamente  positive mi andavano bene, tutte,  pur di non diventare un vuoto a rendere. Mia nonna ripeteva sempre: beata la moglie che sposerai!
Mio fratello, pur avendo lo stesso debito, aveva scelto la modalità del riccio. Sua moglie sarebbe stata meno fortunata. 
Di questo, con la banda del 52 non avevo mai parlato. Con loro non c'era stato bisogno di essere "accettabile", bastava condividere al meglio le nostre risorse senza troppi perché ma con tutti i come possibili. 
In quei giorni non potei proprio scendere in piazza e ai fischi dei compagni mi affacciavo dicendomi occupato, che dovevo aiutare "in casa". 
La mia  foga ormonale non ci mise molto a suscitare le preoccupazioni di mia madre la quale da un pezzo mi "sorvegliava", infatti, mi costrinse   a fare i compiti in cucina o ad un certo punto, prese a  invitare persone noiose, che non so con che autorità,  mi dicevano cosa sarei dovuto diventare, come camminare e altre cazzate del genere. Erano persone che sapevano di naftalina dai modi gentili ma che incutevano timore con quei libri in mano e le facce da Padri e Madri.  Io ce l'avevo un papà, ma in quel tempo sembrava che non andasse più bene. Quelle visite, da sporadiche si fecero settimanali e obbligatorie per me, ma non ebbi mai il coraggio di oppormi perché l'astuto genitore, faceva sempre il budino di biscotti quando venivano, ed io ascoltando i loro sermoni senza senso per me, non pensavo che a quello e al tapparellista. 
Ci vollero un po di giorni perché il 52 avesse le tapparelle  più azzurre mai viste, e venne il giorno che il mio Principe se andò con lo stesso sorriso con cui era venuto. A me invece,  il sorriso, scomparve dal viso per un bel po', soprattutto perché una nuova etichetta stava per essermi appiccicata mio malgrado. 
Non so a quale processo avremo dovuto testimoniare, ma si trattava di questo: ad un certo punto, mia madre decise di essere Testimone di qualcosa o qualcuno e che anche noi figli, lo saremo dovuti essere.  Nonostante mio padre le avesse chiaramente detto che lui di fare il Testimone non ne voleva sapere, non le impedì di fare quello che voleva anche con noi. Così per un qualche fatto avvenuto dopo la morte di mio nonno, lei la nonna e gli zii divennero tutti Testimoni. Chissà in cosa era coinvolto mio nonno? 
Di fatto, sparirono compleanni ed ogni genere di festività e mi trovai coinvolto con una serie di famiglie la domenica pomeriggio in un qualcosa che somigliava alle messe cattoliche ma più semplice.  Nel mio armadio spuntarono orribili cravatte e giacche domenicali  e il mio poster di Boy George fu dichiarato "immorale". 
Vestito come un impiegato,  non fu facile uscire la domenica dietro a mia madre e davanti ai miei amici, i quali mi prendevano in giro dandomi bonariamente del damerino. Da quel giorno la domenica fu il giorno più schifoso della settimana, ma da bravo barattolo, reagii a quella faccenda come a tutte le etichette che avevo già indossato. Mi volevano così e sarei stato così, almeno fino al più possibile. Di ritorno da quelle domeniche, condite di sermoni e strette di mano sconosciute mi spogliavo di gran fretta e andavo coi ragazzi a giocare a rigori. 
I miei calci al pallone erano carichi di tutta la frustrazione accumulata ma mi resero ancora più amato dalla banda. Per loro, se essere un Testimone, migliorava la mia performance calcistica,  che lo fossi pure. Ci avevo provato qualche domenica a sperare che mio padre mi portasse con lui al Parco di Nervi, dove andava mentre noi eravamo a "testimoniarci" per forza ma non me lo chiese mai. 
Venni a sapere che per essere un buon testimone dovevo fare un sacco di cose e convincere altri a diventarlo persino se neppure io sapevo ancora cosa volesse dire, ma soprattutto non dovevo mentire. È sempre la stessa cosa coi grandi, alzano la posta sempre di più fino a trasformarti in quello che gli serve per fare la bella figura o per sentirsi giusti e migliori di altri. Si dividono gli adulti, si combattono, si separano e mentono pur di vincere non so quale premio, e se in questo sei coinvolto, non hai scampo: ti useranno come credono. 
Quelle persone avevano bei modi, vestiti nuovi e curati e si chiamavano tutti fratello e sorella ma per me erano un po troppo vecchi per esserlo tutti  davvero. . Ero un ragazzo mite e facevo in modo che mia madre fosse fiera di me, persino quando ad ascoltare certe voci e certe cose, mi venivano sonno o una ansia incontenibili. Il mondo che avevo scoperto con i miei amici era malvagio e doveva finire, secondo loro, da un giorno o l'altro. Che razza di sfortuna avevo? Proprio ora? Potevo smettere di andare a scuola? 
Certe volte questo mi riempiva di rabbia talmente tanto che invece che salvarmi e rimanere con quelli, avrei preferito morire con i miei amici e la bocca sporca di Nutella.  Con le loro figlie in crinoline che mi guardavano maliziose  tanto quanto le ragazze a scuola...e le madri che mi stringevano la mano come fossi un avvocato, mi sentivo più scomodo che in piedi su chiodi.   Povera mamma, si era creduta che il nonno sarebbe tornato dai morti se ci fossimo tutti "testimoniati", che lo avrebbe rivisto e che sarebbero vissuti per sempre in un giardino. Eppure in campeggio con papà si era tanto lamentata della natura e di quanto fosse scomoda. 
Lo sapeva Dio che la mamma era bugiarda? Che si leggeva gli Sturmtruppen?
Inutile dire, che quel contesto che separava i giovani di sesso opposto per questioni morali mi mise in contatto con uomini adulti con cui potevo passare del tempo, e per quello i permessi si sprecavano. Per la maggior parte erano vecchi noiosi, ma alcuni uomini catturarono la mia "attenzione" o io la loro. 
Nella bontà di chi è conforme si annidano più ombre che altrove. Le famiglie che vedevo avevano lo stesso aspetto di quelle che uscivano dalla chiesa di quartiere: quadretti composti e decorati in cornici di odio e menzogna. Come facevo a saperlo? Bastava leggere le facce degli adulti per accorgersi della forzatura di quei sorrisi, o vedere come le madri stringevano le mani dei propri figli scalmanati fino a ficcargli le unghie nella carne per la paura che tutti vedessero il fallimento della loro "educazione". 
Per me, che in quella finzione ci ero cresciuto,  era  così evidente la sceneggiata, da incontrare e riconoscere  facilmente lo sguardo rassegnato o rabbioso di altri "prigionieri" come me, con la differenza che io avevo già imparato il prezzo della ribellione e perciò imparato a mimetizzarmi in modo opportuno. Ma del resto lo dicevano che i figli dovevano ubbidire ai propri genitori e questi a Dio. 
Dio però non viveva in casa coi nostri genitori e non ci risparmiava nessuna delle loro prevaricazioni. Mi fu chiarito in fretta, data la mia età che per testimoniare come si deve bisognava avere una moglie e dei figli e che gli "uomini che giacciono con altri uomini" erano peccatori degni di una severa punizione. Ecco bello e pronto un Nuovo Mondo dove, come quello che secondo loro doveva finire, ero l'unico della mia "specie". Una specie non gradita neanche a Dio che ci aveva fatti a "sua immagine e somiglianza" ma che si vede che nel mio caso si era distratto. Invece che sbagliato cominciai a sentirmi sporco. 
La verità vi renderà liberi diceva la Bibbia, ma la verità, era l'unica cosa che non potevo testimoniare onestamente e visto il comportamento degli adulti cominciai a pensare che nemmeno loro volessero farlo,  perciò mi sentii meno in colpa. Ci mancava anche la Bibbia a far casino dopo il libro di scienze e naturalmente quello di matematica di gran lunga più incomprensibile degli altri due. 
Solo Alessandro, Giuseppe, Alex e la signora gattara con la barba, costituivano la mia "oasi" dall'asfissiante sensazione di bugia che mi circondava, dalla sgradevole possibilità di essere stato  fatto con gli avanzi di una ricetta "perfetta". Con loro potevo ridere, camminare come potevo e sentirmi qualche ora al giorno davvero felice e trasparente. La felicità al tempo divenne un attimo di dimenticanza della verità che si faceva largo non più solo dentro di me,  ma anche fuori. Una verità che anche io speravo mi rendesse libero prima possibile ma che anche temevo. 
Paradossalmente crescere stava diventando un problema senza sbocco. All'improvviso,  sarei diventato qualcosa, ma di certo con conseguenze che non lasciavano presagire niente di buono: sbagliato o sporco che fossi comunque non avrei potuto nascondermi più da nessuna parte, ora che anche Dio si era accorto di me.  
Dai barattoli di conserva, mia madre staccava le etichette con l'acqua fredda, perché se avesse usato quella calda la colla che le appiccicava al vetro, avrebbe reso il tutto assai più difficile e il barattolo, non sarebbe mai stato del tutto trasparente in quel punto. Si era messa a fare i peperoni sott'olio perché da quando era Testimone non aveva più tempo per fare da mangiare, ma tanto non le era mai piaciuto farne. Naturalmente le ero "utile" in queste faccende. 
"Mamma ma se anche rimane opaco fuori dentro e' pulito. Non va bene lo stesso?"chiesi stanco di fregare. 
"Certo che no, che sciocchezze vai dicendo, l'alone farebbe sembrare guasto il contenuto e poi niente può dirsi pulito se lo è solo a metà"
La somma delle etichette che mi ero lasciato appiccicare, comincio' a pesarmi davvero, ora che sapevo come la pensava al riguardo. Quella sera, mi venne una gran voglia di una doccia fredda e di fregarmi un bel po'. Nel mio letto,  tra una fine del mondo e l'inizio di un altro, non avevo idea di dove piazzare la nostra casetta nell'orto e la mia banda di amici. 


Inviato da iPad

venerdì 18 settembre 2015

La banda del 52 CAP 13: la natura e il cuculo.


Era stato relativamente  facile, comprendere l'amicizia tra noi, lo spazio ambiguo che al suo interno ci comprendeva tutti e nel quale,  gli approcci consentivano ad ognuno di "sperimentare" ruoli di preda o cacciatore, che avremo poi rivolto fuori da quel cerchio magico e sicuro.
Difficile invece, sarebbe stato comprendere quando il cerchio si sarebbe spezzato, quando il guscio della nostra banda implume, si sarebbe sgretolato spinto dal nostro bisogno di comunicare al mondo la nostra identità e dal suo di metterci alla prova.
Maggiore diventava il bisogno che gli altri sembravano provare, di quella "nascita", minore si faceva il mio di affrontarla. Se loro volevano venire al mondo, io avrei voluto impedirglielo con tutto me stesso, per paura di perderli. 
Sarei stato come quei cuccioli gracili, che la natura condanna a morte certa, perché non abbastanza forti per la loro prima lotta? O come il cuculo il mio uovo conteneva un ospite pericoloso una volta schiuso nel nido di una specie a lui estranea?
La scuola superiore, le femmine, la città, come le avrei affrontate senza il loro aiuto?
Ci saremmo magari trovati, nella casetta nell'orto a parlarne, a celebrare il commiato come soldati di leva verso il fronte che promettono di rimanere vivi per ritrovarsi, forse invece, uno ad uno saremo mancati all'appello senza alcuna spiegazione che l'assenza. Quel vuoto di cui nessuno parla, perché imminente definitivo e insopportabile, come la  morte.
Il povero 52, la nostra madre di cemento, sembrava sapere di aver compiuto in qualche modo il suo compito. Quello, l'ultimo suo grembo di umani da svezzare tra le braccia dei suoi muraglioni, resi ormai decrepiti da pallonate e risa e qualche pianto.
Le sue palpebre di tapparella cominciavano a mostrare i segni del tempo che era passato, a non chiudersi ed aprirsi con la stessa prontezza!
L'arrivo del serramentista nel condominio suscitò un vespaio di reazioni. 
Per cambiarle tutte avrebbe dovuto rimanere per molti giorni, perché il 52 aveva occhi ovunque, solo a casa mia contavo sette finestre, che moltiplicate per almeno dieci appartamenti nella scala A e circa ventiquattro  nella scala Vip, quella B, facevano qualcosa come duecentotrentotto tapparelle da togliere e rimettere! 
I padri discutevano preoccupati della spesa che avrebbero trovato nelle bollette, le madri, della polvere che avrebbero dovuto pulire per  quel lavoro. 
E noi? 
Noi eravamo curiosi di sapere come diavolo si fa a toglierle e metterle ma io, avevo anche una curiosità in più, mi sentivo in quei giorni come in attesa di un ospite misterioso. Un po contento e un po preoccupato, ad esempio, che dovesse entrare nella mia "stanzetta".
Una piccola dispensa, un budello stretto e lungo con una finestra, era stato arredato per me come un posto dove giocare da piccolo, in modo che mio fratello, potesse avere la camera che condividevamo la notte, tutta per se di giorno! Il lusso di essere stato il primo di noi due ad arrivare a casa. 
Un tentativo dei miei di farlo sentire più importante affinché non soffrisse di gelosia che costo' loro molto caro in seguito, quando, una volta convinto della sua "primogenitura" effettiva comincio' a sentirsi stretto comunque. Ad alzare la posta del suo valore, accordatogli con troppo anticipo sui tempi e sulla realtà.
In quello spazio, avevo i miei giochi, come anche i quaderni o la radio un poster di Boy George e una bambola di pezza di nome Rosaria. Le pareti erano state celesti ma anche rosa per un po, una volta anche bianche ma per poco perché il bianco si sporca...come la coscienza. Cosa avrebbe pensato di quel posto il serramentista? Di chi avrebbe pensato fosse? 
Papà, non so bene perché,  disse che avrebbe prestato il garage a questo signore in modo che avesse un posto dove preparare i pezzi necessari e sporcare di meno nelle case. Credo che in quel momento, mio padre sia stato l'uomo più amato dalle signore del 52. 
Arrivo' in un pomeriggio presto,  un furgone, proprio mentre mia madre, stava comprando di nascosto delle lenzuola dalla merciaia che veniva a domicilio,  papà era a fare "il pomeriggio", e il primogenito forse altrove  a vendere un motorino rubato.
 Lo avevo visto da dietro la tenda della finestra. Imbarazzata dal suono inaspettato, rispose al citofono e disse: ora gliele mando giù! Era curioso come, a casa mia, seppur ritenuto un deficiente distratto e inaffidabile, io fossi all'abbisogna promosso al ruolo di "meglio che niente"!
"Allora ascolta bene, vai giù e tieni le chiavi del box ben strette, che non ti cadano nel tombino e apri il garage all'operaio, poi le porti su di nuovo senza inciamparti! Capito?".
Pronta più di Cenerentola, ma senza farla tanto lunga quanto lei, scesi gli scalini a due per volta mentre lei, gridava come una matrigna di non correre. Ma come potevo non correre, con la fortuna che avevo avuto?
L'invito a forma di chiave, e il ballo nel garage con uno sconosciuto dalle braccia come due rami di quercia, era toccato a me!!! A me soltanto. Alessandro Alex e Giuse non erano ancora liberi di scendere, come non lo sarei stato neppure io, se la fata Merciaia non mi avesse fatto quella magia!
Sorpreso di vedersi un ragazzino invece di un adulto, il Principe tapparellista mi accolse con un sorriso dicendo " ciao sono .."  Lo so chi sei, ma come hai rubato il sorriso di Giuseppe?
"Devo aprirle il garage" dissi invece.
Ero alto quanto lui, per cui era basso il mio Principe, pazienza, potevo guardarlo negli occhi senza sforzo, se solo ci fossi riuscito. Una maglietta verde  militare un po sdrucita copriva il suo petto ampio di uomo fatto, non come la mia ridicola fila di costole e dal pantaloncino al ginocchio,  due cosce altrettanto fatte si muovevano forti come macine di pietra in direzione del garage. Fortuna che il nostro garage non era sotto le finestre di casa, perché altrimenti, mia mamma affacciandosi mi avrebbe visto del colore Magenta che ero in faccia. 
Già chioccia, la mia voce non usciva premuta in gola  dal maledetto pomo di Adamo, come un tappo preme la bocca della damigiana, quindi  con le mani tremanti armeggiai con la serratura del box. 
"Prendo il furgone e lo parcheggio li vicino così posso scaricare il materiale" disse mentre tentavo di indovinare il meccanismo della maniglia annuendo. 
Il rombo del motore, mi colse come la mezzanotte a Cenerentola: scappa o vedrà che sei una zucca. Non ci riuscivo ad aprirlo e sudando, cominciai a puzzare come al solito, ma dov'erano i topini del cazzo di Cenerentola?  E se non ci riuscivo e mi avesse detto "lascia stare frocetto, faccio io che sono un uomo? 
Con la coda dell'occhio, feci appena in tempo a vedere un ramo di quercia che mi afferrava la mano,  ormai saldata dal sudore alla maniglia del merdoso box di mio padre, e che con una delicatezza impossibile per un ramo la girava aprendola. Il Principe tapparellista mi era alle spalle come mai nessuno prima di lui,  tanto vicino da sentirne il fiato caldo sul collo.  
"E' solo un po dura" disse con l'alito alla menta e aggiunse " dovrai spostarti un momento così tiro su la ribalta. Certo, spostarsi dove? Come?
La sala da ballo fu aperta, lui entro' e io con lui. " comincerò domani da casa tua" annuncio', sorridendo ancora. 
Inebetito, lo fissavo come mia mamma mi ingiungeva sempre di non fare sui mezzi, poi dissi devo tornare a casa, buongiorno. " quando ho finito vi citofono così potete chiudere e grazie".
Le mele verdi d'un tratto  non profumano tanto quanto la menta, e pur sentendomi in pericolo o in colpa per quel fuoco che sentivo mi prese una specie di determinazione a bruciarmi prima possibile. 
Una volta su, diedi le chiavi alla matrigna, salutai la fata Merciaia e mi chiusi in bagno, dove mi fu chiaro che cosa fare. Seduto sul cesso cominciai nella mente a parlare.  
"Caro uomo di carta, e' stato bellissimo stare insieme tutto questo tempo anche se a furia di piegarti non sei più quello di un tempo e tutte quelle crepe bianche hanno spezzato il tuo bel corpo come un puzzle, che ormai sono stanco di ricomporre. Forse è arrivato il momento di separarci perché se domani il mio principe volesse venire qui a far pipì non vorrei che ti trovasse. Grazie ma ora ho un corpo vero da guardare. 
Lo scarico, lo porto via come aveva portato via il mio pulcino di peluche di Pasqua, quand'ero così piccolo, che seduto sul cesso, mi era caduto nella cacca che stavo facendo. Per il pulcino ne feci una tragedia mentre il mio uomo di carta non mi provocava più niente.  
Nel pomeriggio, mi trovai coi ragazzi, ma il mio sguardo controllava il garage in attesa che il suo occupante  uscisse a prendere qualcosa per scorgerne questo o quel dettaglio. Sentendosi osservato ogni tanto mi sorrideva e io potevo respirare. Giocando a palla avvelenata, i miei tiri finivano sempre da quella parte, col disappunto di Giuseppe che di perdere, non aveva voglia e che un po scocciato, mi pianto' li per la prima volta. Ma neanche questo mi tocco' come avrebbe dovuto. Cosa mi rendeva tanto crudele in quel momento? Era il peccato come dicevano alla funzione della domenica, o era l'amore delle canzoni? 
Dovetti preparare la ricerca di scienze per il giorno dopo anche se la testa era altrove, così aprii la pagina del libro. 
"E’ straordinario come i genitori adottivi non si accorgano della presenza dell’ospite, continuando imperturbabili la cova. La natura ha assegnato un ruolo particolare al piccolo cuculo: non solo si trova in un nido di un’altra specie, ma, a poche ore dalla nascita, ancora nudo e cieco, istintivamente espelle dal nido tutte le altre uova. Con il suo piccolo corpo, ma grande rispetto alle uova vicine, fa perno su di esse e uno alla volta le fa cadere dal nido.
Posando la penna mi feci pensieroso. Ma vuoi vedere che e' tutta colpa della natura? 


martedì 15 settembre 2015

La banda del 52 CAP 12: Laura


Le ragazze della nostra età, sembravano crescere il doppio di noi. Un giorno arrivavano e i  loro fianchi si erano improvvisamente arrotondati,  così come il petto sotto le magliette. 
Altrettanto improvvisamente, non era più possibile scherzarci:  spintonale o canzonarle come goffamente facevamo per cercare di avvicinarle, poteva innescare pianti epici o veri ceffoni. Qualcosa in loro sembrava diventato talmente fragile o prezioso, non saprei, da dover essere difeso con ogni forza. Se prima erano loro a cercarci, scappando tra mille gridolini, ora non ci degnavano di uno sguardo che non fosse una minaccia! 
Nello stesso modo i maschi, pur rimanendo legati al proprio gruppo, diventavano più audaci e pesanti nei loro scherzi, come se quella minaccia, fosse invece un richiamo a farsi sentire di più. Io non partecipavo a quel genere di scorribande, non gli alzavo la gonna, non le fischiavo gridandogli "ah bona", non gli sporcavo i capelli con le tempere all'ora di artistica.
Io ero una terra di nessuno destinata a nessuno in quell'ambiente. Per qualche strano motivo, comunque, le femmine mi avvicinavano facilmente.
Alcune di loro, facevano con me le cretine, solo per stimolare un altro ragazzo. Che cazzo di destino schifoso, mi era toccato. Ero come lo sciroppo ricostituente della felicità altrui: ragazzi e ragazze impedite mi usavano per raggiungersi, dato che da soli non ne avevano la forza.
Era questo lo scopo di un "frocio" di un culattone di un ricchione? Per quale motivo avrei dovuto alzarmi la mattina? Per aiutare il mondo degli altri a rimorchiare? Meglio studiare e finirla in fretta questa scuola. 
Suonata la campanella di fine lezione, tutte le classi confluivano al cortile che infilandosi in un lungo corridoio esterno, portava al piazzale di ingresso, il mio sguardo scandagliava quotidianamente quel banco di acciughe umane, alla ricerca di uno come me. Avevo letto nel libro di scienze, che i salmoni, percorrono i fiumi controcorrente e che la loro carne era rosa. Come l'avrei potuto riconoscere? 
Il bullo, il secchione, la mignotta, la ragazza di chiesa, il mongolo ( stupida parola giovanile che descriveva la persona troppo timida o  disabile), quelli li riconoscevo ma perché non riuscivo a vedere uno "come me"? Passando per le ante traslucide dell'atrio, ogni tanto mi piantavo a guardarmi fare una sorta di scanner di me stesso, se mai avessi saputo cosa fosse.
Ma quel flusso umano non perdonava esitazioni, tutti coloro che sapevano chi erano spingevano impazienti di congiungersi ai propri simili, certi com'erano, di farne già parte. Non come me me,  che come un detrito fluviale finivo incastrato da qualche parte o nella migliore delle ipotesi, giungevo all'esterno in tempo per schizzare di lato e poter rallentare il passo. Dovrei dire, che il passo in quei tempi, avevo imparato a cederlo a quella umanità acerba e tanto arrogante, da voler addirittura correre incontro al proprio futuro. Già, il futuro.
Il mio futuro più plausibile sarebbe stato, per quel che vedevo ai tempi, simile a quello di un clown grottesco che fa ridere, o come quel signore che abitava "da solo" ai Tre Pini, quello coi pantaloni troppo stretti e colorati che portava un borsello come le donne portano la borsa e nel quale frugava di continuo con le sue manone in cerca del fazzoletto. Sudava d'estate ma anche d'inverno Mario, così si chiamava.
Lo avevo visto spesso coi ragazzi, aspettare il 50, o la mattina, quando anche io lo prendevo per andare  all'odiosa scuola, lo avevo notato ma non era certo acume, il mio, le sue camicie erano tipo quelle dei turisti americani, piene di paesaggi caraibici impossibili da ignorare. Paesaggi che forse aveva visto, o nei quali avrebbe voluto trovarsi, chissà. Ridacchiavano tutti i ragazzi, le signore lo guardavano penosamente e gli uomini gli voltavano le spalle. Io lo scrutavo preoccupato.
Com'eri tu alla mia età Mario? Glielo avrei voluto chiedere mille volte, ma mia madre diceva di stargli lontano, che non era "normale". Ce l'aveva però il coraggio Mario, lasciava sedere gli anziani, salutava le sue vicine anche sapendole false,  e se gli dicevano "ricchione" diceva solo "Maleducati". 
Ma Mario era sempre da solo, senza un Giovanni o un Franco qualsiasi, al massimo, aveva una signora con cui, di tanto in tanto,  lo si vedeva camminare e ridere passandosi il fazzoletto sulla fronte come le attrici. Pensai che tra il diventare Mario, e l'uomo di carta non mi sarebbe piaciuto nessuno dei due. Non mi restava che diventare "invisibile".
Certo ormai del frocio me l'avevano dato, come facevo a non essere visto? Bastò cambiare banco e andare in fondo, in modo che una volta finite le lezioni fossi ultimo ad uscire, tanto non c'era niente da raggiungere, poi una volta fuori, prendere il cancello laterale e invece di seguire il flusso girare all'esterno della scuola in senso contrario. Di seguito per evitare il bus, Mario, o gli scherzi, bastava farla a piedi fino in cima. Alle lezioni di ginnastica, invece, imparai a mettere i pantaloncini sotto gli altri, in modo da non dovermi spogliare, l'ora di religione non la facevo, così anche Dio non poteva farmi star male con la sua menata dei peccati da confessare e per la ricreazione beh bastava non andare al cesso, e andarci durante le lezioni da solo.
Bella vita, non c'è che dire la scuola media per quelli come me, che evidentemente ce n'era uno per ogni scuola se andava bene. Per fortuna una volta arrivato al 52 c'erano i ragazzi della banda, che per qualche meraviglioso motivo, mi avevano escluso solo dalle partite di pallone, ma più perché ci cadevo sopra che per altro. 
Durante uno dei miei svicoli scolastici, mi si parò davanti lei. Di tutte era la meno bella, ma già alle elementari, Laura, mi faceva simpatia col suo naso davvero troppo largo! Siccome aveva avuto un grave problema cardiaco da bambina e quando era tornata a scuola elementare ci dissero che era "delicata",  finì che in molti la evitavano, esattamente come succedeva a Patrizia che aveva sempre i pidocchi. Purtroppo, durante una ricreazione, giocando all'elastico, non ci capimmo o forse mi disse che non potevo giocare perché non ero una femmina, beh, io le tirai uno spintone in pieno petto e la sua ferita cominciò a sanguinare.
Diamine, cosa mi era girato di farle? Come quando la maestra elementare mi prendeva in braccio perché avevo la gamba "gigia" e non ancora operata, ed io, la colpivo sulle gambe vare con le scarpette ortopediche! Comunque, sepolto questo fatto infantile e spiacevole me l'ero ritrovata  in classe alle medie. La ferita era ben chiusa ormai, ma io, ironia della sorte, non l'avrei più toccata con un dito comunque.
"ciao vieni anche tu alla gita al  Museo di Scienze naturali?" esclamò a debita distanza.
" Non so se mi lasciano i miei" risposi laconico.
" io vado, se vieni ti tengo il posto sul pulman" disse coraggiosa. Ne aveva di fegato la ragazza operata al cuore!
Coi suoi capelli unti il nasone e a cicatrice, Laura mi fissava con due splendidi occhi azzurri che non ammettevano un rifiuto in risposta, e con la maglietta non troppo piena. La mia determinazione ad essere invisibile ma ancor più a togliermi d'impaccio mi spinse a dire solo "va bene". Nel tornare a casa a piedi non sapevo cosa provare per prima tra la vergogna e la vergogna di essere contento. Poteva essere che non fossi come dicevano? D'accordo era un pò conciata la fanciulla, ma non era mica cieca? L'aveva visto il brufolo viola al centro dei miei occhi bassi?
Senza un vero motivo insistei a lungo con mamma per partecipare alla gita, ma non dissi niente a Giuseppe ne agli altri. Mia mamma, oltre ad avermi esonerato da religione e per un pelo anche da ginnastica, non era molto dell'idea di spendere i soldi necessari all'acquisto del biglietto del Museo, ma si vede che Dio, magari  per convincerla della sua esistenza, le fece dire di si.
Il giorno della gita, mi disse di mettere i vestiti buoni, quelli da "tener da conto", con le ovvie raccomandazioni di non sporcarli. Mi preparò due panini e mi accompagnò a scuola.
Il grande pullman lucido sembrava dovesse portarci chissà dove, sebbene il Museo fosse in centro. Laura, era li che si guardava intorno con le labbra dipinte e quando mi vide mi abbracciò entusiasta col suo orrendo maglione verde acqua con le maniche a pipistrello e una gonna a quadri ne lunga ne corta. Le porte del pullman si chiusero e la maestra fece l'appello: D'Asdia? Presente.
Ero presente cazzo, c'ero anche io in quel viaggio, magari la mia grande occasione per essere come gli altri.
Passando tra le vie della città, palline di carta e strilli della mestra facevano da sottofondo alla nostra coppietta improbabile. Mi avevano detto che ci si fidanzava con una, mettendole sulle spalle un braccio, ma io a malapena respiravo, così fu lei a " fidanzarmi". Era così che succedeva? 
In fila per due ordinati, ci fu detto di stare vicini di fronte al grande portone di legno del Museo di Scienze Naturali, che aperto su di noi, mostrava la sua voglia di ingoiarci tutti. Ci fu spiegato che avremo fatto un viaggio nel tempo e che avremo visto cose straordinarie e misteriose, e che le creature dietro ai vetri, per quanto realistiche, non potevano nuocerci in alcun modo. Eccitante! Laura era elettrizzata a tal punto che mi prese la mano. Sperai che non rimanesse incinta, anche se i giornaletti porno avevano indebolito quella mia convinzione, ma sfortunato com'ero poteva anche succedere che i giornaletti si sbagliassero. 
Le sale del Museo puzzavano di spirito, come chiamava l'alcool mia nonna, e scheletri di dinosauri fingevano di minacciarci retti da stampelle di ferro. Non gliene fregava a nessuno di quelle cose, nessuno tranne me, che mi sentii di poter trovare li che ne so, lo scheletro di un " frocio" preistorico!
Laura se ne stava vicino a me con la sua mano sudaticcia sempre ben stretta nella mia, ma talmente che io mi ero già infastidito...ma ormai mi aveva fidanzato, che potevo farci? Le diedi anche uno dei miei due panini, tanto per suggellare il momento. Mangiammo.
Dopo piante, scheletri, uccelli e pesci, giungemmo in una delle stanze più cupe del museo: sul pesante cornicione di legno c'era una targhetta che diceva: Rettili e mammiferi
In lunghi vasi di vetro lucertole e serpenti se ne stavano immobili e sospesi in un liquido talvolta giallo talvolta rosa e facevano abbastanza schifo, non come il pipistrello che avevo colpito con la racchetta, ma quasi. In quel momento di discreto rabbrividire, Laura trovò invece il suo coraggio, e mi sospinse nel fondo di una delle anse tra una teca e l'altra.
"Non avrai mica paura?" dissi per farmi coraggio. 
Si avvicinò moltissimo a me, e per confortarla l'abbracciai, poi le sue labbra mi furono talmente vicine da gettarmi nel panico, perché in quella posizione il suo naso era davvero impossibile da ignorare!  Dopo una morbida pressione delle sue sulle mie fui io a irrigidirmi, ma non dove mi aspettavo di farlo.
Si faceva largo una cosa bagnata che sembrava volesse scivolarmi in gola. Ma vuoi vedere che mi sono fatto fidanzare da un rettile, le  avevo viste le lingue dei serpenti e se mi morde e c'ha il veleno? Forse vuole uccidermi o mangiarmi, ma che schifo! 
Tra l'altro, respirare è un casino, se ti baci in apnea con una col naso grosso che ti ottura una narice! Poi accadde. Di nuovo. Un bello spintone per riprendere fiato. 
Al ritorno, si andò a sedere in fondo con le ragazze,col maglione sporco, piangente a dirotto per colpa mia, una seconda volta. Non eravamo più fidanzati suppongo. Parlando con un compagno che mi chiedeva cosa fosse successo ebbi solo la forza di fargli una domanda.
" tu sai se due fidanzati si fanno robe con la lingua?" - " certo, si limonano se lui non è ricchione" mi rispose,  poi aggiunse " te la sei limonata?"
" Forse" - " ma allora è una che ci sta! Fico, domani ci provo anche io, tanto mi sa che a te non ti vuole più".
Io,  la bocca l'avevo aperta ma la lingua non sapevo dove metterla, e nel casino le avevo vomitato addosso il panino, perché lo sguardo mi si era posato su un flacone che conteneva un bambino o qualcosa di simile, o solo sui suoi occhi aperti e voraci.
Rieccomi qui, su un sedile, inchiodato e senza più nessuno con cui scoprire qualcosa. Avrei voluto morire e diventare il primo scheletro di "ricchione" della Scuola media, almeno nel futuro, semai qualcun'altro come me, fosse andato al museo, avrebbe visto che ero fatto come lui. Una sala magnifica piena di stelle con solo il mio scheletro al centro, piegato in due come l'uomo di Neanderthal, ma per altro motivo. Una targa dorata avrebbe portato inciso: Homus vomitus frocius non erectus.
Nei giorni seguenti fu un trionfo di sfottò come mai prima. Presi una nota sul registro per essermi appartato con lei, come se a volerlo fossi stato io, perché dopo il mio vomito, ci beccarono i prof, mia madre però pareva più disponibile da quando aveva saputo che ero con lei. Canticchiò per una settimana, fino a quando le dissi, come credevo volesse, che non l'avrei fatto mai più!
Laura aveva raccontato a tutti della mia figuraccia e di come era stata rifiutata? O il mio sguardo, da quel giorno, annunciava a tutti che le femmine non mi piacevano come piacevano a tutti? Io a chi potevo raccontare come mi ero sentito? Che non era stata  lei a farmi schifo, o il feto nel barattolo, quanto la menzogna di quel bacio che mi dava per sentirsi anche lei normale, la precisa sensazione di servirle per rendersi più appetibile agli altri, perché con me era più facile. La crudeltà con cui lei si pigliava il suo futuro con la lingua, lasciandomi nel mio stesso vomito senza una risposta precisa. L'adolescenza e le sue pulsioni sono crudeli e avide come io non sarei mai riuscito ad essere. 

Le ragazze crescevano il doppio di noi, e altrettanto cresceva la loro linguaccia! 


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