I riti di passaggio imposti ai ragazzi dalla società creavano una idea di virilità fatta di risposte. Risposte assertive tutte centrate su un unico punto: la potenza.
Dalla prima zuffa al servizio di leva, dai passatempi allo sport, dalla sessualità al successo secolare, il punto centrale è mostrarsi forti, vittoriosi guerrieri, spietati conquistatori o almeno abili opportunisti. Il no di una ragazza o del genitore o della società va affrontato come un toro affronta il rosso del mantello e nonostante le regole ci fossero, si perdonava ai soli maschi di infrangerle. A cornate. Come tori, i maschi, vengono sospinti a continuare la loro carica anche feriti. Il premio in realtà è l’azzardo, la resistenza alla ferita, l’ignoranza dei sentimenti dolorosi.
Come sarebbe stata invece, una virilità fatta di domande, dove non contasse soltanto vincere uno scontro o ottenere una attestazione?
Per i maschi della mia generazione un si come risposta era più problematico di un no. Si, puoi andare ma torna alla tale ora. Si, puoi comprarlo ma al posto di qualcos’altro o ancora, si ti voglio bene ma abbi cura dei miei sentimenti. Le responsabilità incluse in un assenso ci impediscono di caricare da tori, trasformandoci in buoi e rendendo l’arena a cui siamo soggetti, un campo arato e quotidiano. Dopo averci caricati come molle, arrivava il momento di mettere la testa apposto e l’aratro sulla schiena senza che nessuno ci avesse abituati al passo e alla cavezza della ragione.
Per una condizione fisica ma più ancora per un precoce modernismo pacifista la visita di leva che dopo anni avrebbe perso la sua obbligatorietà arrivò come uno schiaffo! Una squallida cartolina che ti assegnava al tuo genere senza se e senza ma, con la prospettiva di un eccitante anno di recluta e addestramento virile, proprio mentre avevi appena iniziato a farti la doccia con regolarità.
Per niente campanilisti, noi ragazzi italiani a parte qualche invasato, la consideravamo una bella menata e le famiglie, cercavano tramite conoscenze di far esonerare i propri figli dal gravoso incarico di proteggere una patria che ci era più sconosciuta di un programma di lavaggio. Dopo averci maltrattati e ripetuto in continuazione che dovevamo crescere o di comportarci da uomini, l’arrivo della cartolina ci rassegnava al ruolo di “poveri bambini”. I padri, erano più inclini all’idea che “ci facesse bene” come a loro, che nel frattempo se l’erano dimenticato, le madri invece, non sopportavano l’idea di rimanere senza di noi come scusa per stanchezza varie e opportuni mal di testa. Una virilità fatta di domande avrebbe creato una leva di volontari che sarebbe stata certamente più motivata ma anche il Ministero della Difesa sapeva bene che un maschio doveva essere obbligato a passare un anno di merda del genere, e che l’esercito in fondo, ha sempre bisogno di una “prima linea di deboli da far fuori alla prima occasione.
Scelsi di non essere accompagnato alla visita di leva e portai malvolentieri con me un paio di certificati del tutto eccessivi che mia madre sperava avrebbero fatto di me lo scarto di quella leva. C'era la possibilità di un esubero e cioè che un numero spropositato di donne avesse partorito maschi come piovesse in quel dato anno, così che l’ordine alfabetico non potesse compiersi del tutto e la domanda di nuovi soldati trovasse soddisfazione ad un certo punto ma il mio cognome era con la quarta lettera dell’alfabeto. Secco, gracile e distratto non sembravo proprio in grado di salvare nessuno ma anche nei camini il fuoco necessita di stecchetti per essere attizzato, quindi varcai il portone della caserma con la lena di una talpa.
Riuniti in uno stanzone tutti i maschi dalla A alla L ,cioè da Amebe a Lombrichi e in un altro dalla M alla Z, ovvero da Manzi a Zorro, pensai che ci fosse già stata una certa selezione naturale, restava solo da scoprire che ne avrebbero fatto di noi. Un marchio a fuoco? Un contingente derelitto? Crocerossine gay magari?
Del tutto ignari sui tempi e i modi che fanno un mucchio di maschi in uno stato di stress condiviso? Si confrontano? No, si dividono prima in due grandi famiglie: chi si tocca le balle e chi si gratta il culo. Ad essere onesti, io e pochi altri accavallammo le gambe ma non è che puoi fare per molto nessuna delle tre cose, perciò, dopo un ora scarsa si diversica. Comincia la fase di quelli “che io lo so come va”, quelli cioè che avevano un fratello più grande che gli parlava. Nell'eloquio tipico dei maschi tra un grugnito e un ripetuto volgare venimmo a capire che saremo stati visitati in mutande. Chi arrossiva non se le era cambiate da giorni, chi lo diceva con fierezza ce le aveva belle gonfie e poi c’ero io che ce le avevo celesti! Cazzo, ma come si fa ad avere le mutande azzurre in una giornata come quella? Non che fossero azzurro aviazione, piuttosto un pallido celeste slavato. Molte madri erano fissate col bianco nella convinzione igienica di doverle lavare ai figli maschi con l’acido o l’acqua santa, la mia, le comprava talmente economiche da non farsi questioni di sorta, infatti le avevo dal celeste al rosso mattone con in comune soltanto una certa slabbratura del giro gamba. Con. Ogni probabilità, le avrò ereditate smesse dai cugini più grandi dato che le zie ci portavano sempre sacchi di stracci che per qualche ragione “ era un peccato buttare” e che pretendevano anche un grazie zia ad ogni giro.
Tornando a noi, un durissimo generale ci informò di allinearci senza spingersi e di avviarci in sala medica solo in calzini e mutande per l’appunto. Soliti scherzi da caserma: un dito nel culo di quello davanti, la cicca nelle calze di quello dietro, lasciandola bella appiccicosa a terra e i pochi peli ritti dal freddo, avanti Marsch! Un codazzo di corpi non tutti brutti formavano un impaccio unico e rumoroso di fronte a bilance che potevano pesare una mucca, uomini in camice dalle mani più gelide del cuore e strani ferri. Scorrendo di un passo ad ognuno che finiva il giro non ti era dato vedere se fosse stato abbattuto, mangiato o sepolto perciò qualcuno cominciò a manifestare i suoi sentimenti di paura scoreggiando intanto che l’uomo in divisa sembrava passarci al setaccio con lo sguardo non si sa in cerca di quale requisito. C’era una voluta umiliazione in quella procedura, un chiaro modo di farci capire che quei corpi quasi nuovi e ancora da scoprire sarebbero stati di proprietà dell’uomo in divisa e dei suoi simili, perciò tanto valeva che sapessero anche come eravamo fatti. Le mie mutande azzurre in effetti si mostrarono degne di un smorfia che io, inguaribile ottimista ricambiai con un sorrisetto inutile.
“ Ti guardano anche nelle mutande” diceva uno, “ ti schiacciano i coglioni” diceva un altro e solo alcuni rinverdirono la vecchia storia che vince chi ce l’ha più lungo. Il dottore che l’aveva lunghissimo il maledetto cucchiaio che mi ficcò in gola per schiacciarmi la lingua e non so nemmeno se non fosse lo stesso già usato. Alza le braccia, allarga le gambe e dopo un paio di piegamenti che mi rimase il dubbio fossero chiesti per gusto, la visita finì con un foglio e un brutto raffreddore.
Una prova di virilità fatta di risposte sulla propria validità d’uso come maschi: nella società: Abili Arruolati, Rivedibili o Riformati.
La questione della mia virilità si chiuse alla sua prima occasione pubblica con la sigla “Rivedibile”e mentre gli altri si trovavano nella condizione di potere o non potere più, io ero in un più ampio luogo di probabilità. I soldati sarebbero andati all’Arena della guerra come tori e gli altri, ad arare i campi come buoi e io, un caso di maschio meno determinato dai codici di potere, “potevo” godermi un altro anno di libertà come un vitello indeciso dalle mutande azzurre.
Un concetto di virilità alternativo poteva basarsi su una domanda precisa: un anno dopo cosa ci sarebbe stato da rivedere ?
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