mercoledì 18 ottobre 2017

Maschiario cap 10: sopra o sotto?

Perdita possesso e potere portano i maschi verso una ulteriore qualità distintiva: la presunzione.  Li chiamo maschi quando intendo coloro che, qualunque sia la loro inclinazione sessuale, sposano l’dea di una mascolinità fatta di potenza. Ce ne sono del resto molti altri che nascono maschi  non per forza omosessuali che  sviluppano qualità interiori che li rendono uomini di pensiero,  geniali inventori, uomini d’affari dal basso profilo o in casi di estrema ambizione e misoginia, vescovi. 
Dopo essere cresciuti e aver accettato le prove che ci assegnano al tipo di maschio ideale o idealizzato quasi tutti presumiamo di essere pronti. Primo grande errore.
Può bastare un raffreddore o se sei gay,  un semplice brufolo il sabato sera a gettarci nel panico. 
In quei momenti, quando il corpo non ha nessuna intenzione di celebrare la nostra smania e decide di prendersi una pausa dal superlavoro o dagli stravizi, appare una rossa sirena purulenta proprio sulla bocca e noi che facciamo?
Noi presumiamo. Presumiamo di morire a trentasette gradi e sei  di temperatura, tanto quanto di voler morire perché di sicuro, che sia un brufolo da salame, un herpes labiale da carenza vitaminica, o una mononucleosi, si tratta di certo di un affronto personale alla nostra sete di conquista. Chi mai può dirci cosa fare? Nessuno perché noi siamo maschi e prima facciamo, poi ci chiediamo perché o chiediamo perché no. Dopo aver presunto di potere tutto e una volta fottuti dal famoso volere è potere, solo la morte ci può esimere dalla nostra condanna “a fare”e dato che dai 5 anni ai 75  non abbiamo nessuna ciclicità fisica ai cui limiti sottostare, presumiamo solo la fine. On oppure off, punto.
Mentre le femmine fanno esperienze o le assorbono dalle donne che le generano, circa il rischio mortale  incluso nel vivere, pare che a noi non venga mai nemmeno fatto sapere che esista, perciò non appena ci si ammala o se la natura è clemente si invecchia, sentiamo solo di essere come disse qualcuno, “ragazzi con qualcosa che non va”! Che si tratti di influenza o prostatite la domanda resta la stessa: non mi resterà molliccio e appiccicoso per sempre vero?
Presumono il piacere delle donne, i maschi che non controllano il proprio. Presumono il ruolo sessuale che avrà l’altro, i maschi gay  che hanno di fronte un palestrato che li nota. Entrambi i tipi di maschi vanno incontro a una delusione, ignorando le varie sfumature che il piacere  e i ruoli nascondono in ciascuno di noi.
I maschi a cui piacciono le donne, non credono di doversi confrontare coi “gusti” e coi ruoli nel rapporto con loro, perché  se alla fine si mostrano incapaci di cogliere l’eccletticità femminile, una donna, pur di farla finita o di finire un periodo di prolungata astinenza, lascia che facciano un po sempre la stessa cosa. Nei casi di curiosità,  i maschi eterosessuali che esplorano il sesso in modo più fantasioso, lo fanno presumendo di insegnare alle proprie donne..altro grande errore.
Per noi, nonostante si creda sia più facile, ( quella storia che siamo fatti uguali e quindi sappiamo cosa piace all’altro è una stupidaggine) non lo è.
Quella sera, presumevo che fosse il caso di andare in una nota discoteca frequentata da quel tipo di maschi gay che a loro volta presumono di sembrare meno gay se vestiti da boscaioli. Lo feci perché ancora inesperto circa me stesso ero un po innervosito da quel continuo trovarmi a letto con uno che poi voleva quello che volevo io. Ma io sopra o sotto? E’ una domanda che non trova in tutti la versatilità necessaria a eluderla. Di certo non la trovava in me. Ci voleva un incontro di quelli chiari io sotto tu sopra, punto.
Ma le serate in discoteca sono nemiche della chiarezza e quando col mio drink analcolico in mano incontrai il suo sguardo mi guardai bene dal presumere, infatti, mi voltai certo che fosse diretto a qualcun altro. Era già capitato  che una volta avvicinato dal “manzo” di turno, questi, dopo la frase “bevi qualcosa”, tornasse con due bicchieri e mettesse il mio in mano a un altro. Figuriamoci questa volta che ero passato al “quarto di bue”! Alto, muscoloso e senza camicia non c’era bisogno di presumere nulla circa la sua prestanza e in quanto a me la penombra non poteva altro che ridurmi perciò era chiaro che gli piacevano gli sfigati. Buon per me.
Mi prese una sorta di euforia e cominciai a strascinarlo per tutto il locale come un cacciatore di frodo col suo leopardo fino a che si decise di andare da lui. Lo ammetto, era un po alticcio e alle luci della vettura nemmeno tanto bello in viso ma come diceva Battisti “ a quell’ora cosa vuoi, mi va bene pure lui”.
Una volta saliti in casa, lo scartai come un regalo la mattina di natale e buon dio, non restò niente da presumere circa la sua natura generosa a tal punto che spogliarmi a mia volta sembrò come scartare un grissino ad un banchetto. Mi chiesi cosa sarebbe rimasto di me se la sua tensione fosse rimasta così alta ed ebbi la risposta in men che non si dica.
Le avevo comprate quello stesso pomeriggio come facevo di tanto in tanto per consolarmi, un bellissimo paio di scarpe da ginnastica con profili tecnici e suola antishock. Lo shock non mi fu risparmiato nel vedere il colosso completamente sdraiato contorcersi  sulle mie scarpe.  Ebbene si, avevo trovato un inutile feticista di tipo sneaker, di certo l’unico in tutto il locale. Ecco cosa guardava con tanta insistenza, e perché sembrava seguirmi ipnotizzato nel locale. Mi prese una collera furente e un senso di umiliazione così intenso che lo presi a scarpate peggiorando la mia situazione perché prese a mugolare di piacere. Alle quattro del mattino, le luci del taxi evidenziarono un giovane uomo cacchio e scalzo in mezzo a una strada. “ tutto a posto?” chiese il tassista “ per niente” risposi fornendogli l’indirizzo. 
Come potevo essere stato tanto presuntuoso da credere in un normale momento di attrazione fra opposti, che l’estrema differenza fisica chiarisse i ruoli che avremo avuto così come li avevo immaginati? Semplice, avevo pensato da maschio soltanto a ciò che desideravo io. La realtà di quella sera in discoteca pareva darmi ragione quanto il sorriso di una ragazza al bancone viene preso per un invito da un uomo. I maschi presumono ma che siano gay o etero non sanno prevedere e reagire allo scarto naturale  tra presunzione e occasione. Ecco perché se le cose si rivelano più complicate da comprendere o sottili o semplicemente impossibili da ottenere non ci resta che la rabbia.

Parente prossima della perdita che ne segue e del possesso da cui scaturisce,  la rabbia altro non è che la più povera delle forme di presunzione. La più grande debolezza di uno scheletro che mostra i muscoli.

giovedì 12 ottobre 2017

Maschiario cap9: due palle.

Dopo la perdita e  il potere, il possesso è la terza p della trinità maschile. “È mio” dice il bambino dei suoi giochi e lo stesso lo dice il maschio del suo pene, del motorino, della sua automobile, della sua fidanzata, dei soldi, dello spazio, del mondo. Man mano che il maschio aderisce al modello educativo che lo scarna  indurendone la pelle e il cuore, riceve premi materiali e in sintesi, il permesso di possedere ciò che vuole dato ciò che perde spesso senza neanche accorgersene: la sua dimensione interna. Credendo di scalare una vetta  sulla cima della quale incontrerebbe se stesso, il maschio, viene appesantito  da una serie di zavorre “premio” che in realtà, mirano a farlo fallire nello scopo di arrivarci e di crescere. I maschi che invece destano preoccupazione perché sono per natura più inclini a condividere le loro cose o i loro sentimenti, quelli  definiti tanto “buoni” ma in realtà già avviati alla panchina del successo virile, vengono di solito invitati a mostrarsi più crudeli o altrimenti, se incapaci di bruta prepotenza,  inglobati nella nebbia materna che li rende invisibili alla società in modo da coprire l’imbarazzo dei loro genitori. I bambini troppo sensibili, i futuri Mammoni, bamboccioni o come li chiamano i loro coetanei i “ricchioni" se nascono gay.
 In quello spazio angusto a stretto contatto con i propri uomini neri, alcuni sviluppano una crescita verso il proprio interno, un timido possesso di se,  altri la schizofrenia o disturbi sociali di una certa importanza.
Espulsi dalla stanza dei sigari o mai ammessi, ci si ritrova in cucina con mamma o confinati con ogni ben di Dio nella propria cameretta o come me, in una stanzetta da soli a meditare sulla propria natura “sbagliata”.
Mio fratello, che non cresceva in altezza, smaniava dalla voglia di possedere i simboli del successo virile e dal momento che faceva ciò che ci si aspetta da un maschio mostrando aggressività, violenza, gelosia e un talento per le bugie, gli venivano perdonate cose come rubare i motorini, lasciare debiti e non giustificare la provenienza dei soldi che cominciava ad avere, soprattutto da mamma, che in fondo, voleva  che il suo bambino sorridente continuasse ad essere felice, in modo da non venire mai a contatto con la sua realtà limitata. Aveva cominciato camminando in punta di piedi a mostrarsi “grande” e da grande, sulle stesse punte si mostrava fiero della Kawasaki verde che a malapena reggeva, comprata coi soldi delle tasse che l’anno dopo, avrebbero visto papà altrettanto colorato, nell’apprendere che non le aveva pagate. Sempre per colpa di qualcun altro, la sua riuscita personale continuava sfuggirli, e in casa, nessuno si poneva il dubbio che non ne fosse all’altezza dato che, abituato al premio, aveva cominciato a darseli da solo, crescendo in arroganza la statura che non aveva.
Come un pescatore incapace, mio fratello si dotava di esche variopinte da gettare nel bacino della “pesca facilitata” delle femmine dall’occhio di triglia, dedicato ai maschi dalla nostra società, finendo per mentire, come i pescatori, sull’entità della sua pesca. Nel frattempo io, maschio sbagliato, riflettevo sull’unico possesso che ero in grado di esercitare: il mio ciuffo che proprio quando cresceva abbastanza da piacermi, venivo obbligato a tagliare perché ci mancava solo il ciuffo lungo a gridare la mia differenza ai quattro venti. Perché mio fratello poteva esercitare un potere su se stesso che a me veniva negato? Semplice, perché il potere che avrei esercitato io avrebbe esaltato il mio io, la mia unicità, mentre lui con le sue cazzate megalomani esaltava il concetto accettabile di un “noi” maschile che lo rendeva uguale agli altri, anche se di fatto era considerato un coglione e si dimostrava irresponsabile e cieco.
Lo stesso motorino che riuscii a farmi comprare, aveva per me un valore ben diverso da quello  che mio fratello dava alla sua moto: io lo consideravo un mezzo per raggiungere un altrove, per sentirmi padrone di correre incontro al mio destino più velocemente perciò non dedicavo a quell’oggetto nessuna altra attenzione che non riguardasse il pieno del serbatoio. Se fosse stato un calesse, una zattera o una catapulta non avrebbe fatto differenza, tant’è che più di una volta smontavo dalla sella lasciandoci le chiavi attaccate o ero disposto a rompermi l’osso sacro in una strada sgangherata per raggiungere il luogo di osservazione di questo o quell’altro soggetto dei miei desideri. Mio fratello invece, non prendeva le buche, non usciva se pioveva per non sporcarla ed infine, passava più tempo sul piazzale che altrove e col suo pene roboante e spropositato, cercava semplicemente di far apparire il proprio vuoto interiore più carrozzato!
Gli piaceva la Lilliana, come piaceva a tutti la biondina un po oca e carina del secondo piano ma lei passava davanti a lui e alle sue punte dei piedi per infilarsi nella macchina sportiva di un maschio meno in bilico e con un pene più roboante del suo, senza degnarlo di uno sguardo. Le femmine dall’occhio di triglia erano coscienti del potere che esercitavano e della conseguente competizione che instauravano tra i maschi e se c’è una cosa certa tra maschi, è che ce n’è sempre uno che ce l’ha più grosso.
Io ero felice di averlo un fratello e preparavo per noi elaboratissimi schemi di gioco che ovviamente venivano ignorati. Fin qui tutto normale dato che un fratello piccolo, sebbene di poco, resta sempre un fastidio, tuttavia, nella sua naturale insofferenza, si annidava un ombra più oscura della semplice rivalità: il possesso della mamma. Questa era la altissima posta in gioco per lui che la aveva avuta tutta per se, quindi, non gli sarebbe bastato ignorarmi ma doveva spingersi più in la se voleva possedere anche le sue attenzioni. Dimostrare che io non ne fossi degno quanto lui, sorridendo di più, chiedendo di più, o soffrendo di più. I miei si posero il problema della sua gelosia quando eravamo piccoli, ma lo risolsero con l’opportunismo degli adulti e loro propensione alle soluzioni facili e immediate e cioè, dandogliele tutte vinte. Questo, fino a quando la mia netta superiorità intellettiva non finì per oscurarlo anche di fronte agli altri, spingendolo a odiarmi come un Caino odiò Abele.  La faccia da triglia di mia madre al matrimonio di mio fratello resta immortalata in una foto dove mio padre, già malato, sembra non farcela neanche a guardarla e io non ci sono perché feci finta di stare male per andarmene da una allora fidanzata e lasciargli, con una pietà che non avrebbe meritato, le attenzioni degli ospiti che da li a poco non si sarebbero più ricordati neanche  il pietoso cartellino di noleggio che penzolava dal pelliciotto della sua sposa.
“Tuo fratello soffriva tantissimo e così ti abbiamo fatto sentire sempre inadeguato e incapace di soddisfarci fino a quando disperato, sei andato in cerca di approvazione nei posti sbagliati” scrisse mia madre di me  molti anni dopo, mentre di mio fratello, si disse solo che alla fine dopo una logica gelosia, una normale adolescenza turbolenta e un testicolo in meno poverino, aveva trovato una brava ragazza e si era sposato. 
In pratica, nonostante l’ammissione di un piano di svilimento della mia persona si sosteneva che alla fine avevo comunque sbagliato io, come se il mio  fosse stato una specie di errore di mira o peggio ancora una sorta di menomazione da avere per fare il paio con la sua! Si fece di lui un monumento al lieto fine maschile e dopo aver fallito nel tentativo di piazzarlo per conoscenza in un pubblico impiego gli si perdonò anche di aver lasciato un mare di debiti imbarazzanti a cui far fronte ogni volta che faceva “l’imprenditore” e dopo di non aver dato nipoti come a me  fu sempre ricordato di non aver “voluto” fare. Del resto, io, oltre che avercele pari, le avrei  moltiplicate le palle  nella mia idea di “famiglia” con un altro uomo, perciò la mia procreatività mancata era un affronto alla dotazione naturale che avevo ricevuto rispetto al mio povero fratellino, l’ennesima conferma di uno sbaglio utile a farlo sentire un vero maschio!

Ci vollero  davvero le palle per capire che la più alta forma di virilità non era possedere due testicoli, una moglie, o un Kawasaki ma un cuore coraggioso a sufficienza per capire chi tra noi  era davvero disperato e nel posto sbagliato e per smettere di sentirmi  e vivere come serviva a loro. 


mercoledì 4 ottobre 2017

Maschiario cap8: Amebe e Lombrichi

I riti di passaggio imposti ai ragazzi dalla società creavano una idea di virilità fatta di risposte. Risposte assertive tutte centrate su un unico punto: la potenza.
Dalla prima zuffa al servizio di leva, dai passatempi allo sport, dalla sessualità al successo secolare, il punto centrale è mostrarsi forti, vittoriosi guerrieri, spietati conquistatori o almeno abili opportunisti. Il no di una ragazza o del genitore o della società va affrontato come un toro affronta il rosso del mantello e nonostante le regole ci fossero, si perdonava ai soli maschi di infrangerle. A cornate. Come  tori, i maschi, vengono  sospinti a continuare la loro carica anche feriti. Il premio in realtà è l’azzardo,  la resistenza alla ferita, l’ignoranza dei sentimenti dolorosi. 
Come sarebbe stata invece,  una virilità fatta di domande, dove non contasse soltanto vincere  uno scontro o ottenere una attestazione?

Per i maschi della mia generazione un si come risposta era più problematico di un no. Si, puoi andare ma torna alla tale ora. Si, puoi comprarlo ma al posto di qualcos’altro o ancora, si ti voglio bene ma abbi cura dei miei sentimenti. Le responsabilità incluse in un assenso ci impediscono di caricare da tori, trasformandoci  in buoi  e rendendo l’arena a cui siamo soggetti, un campo arato e quotidiano. Dopo averci caricati come molle, arrivava il momento di mettere la testa apposto  e l’aratro sulla schiena senza che nessuno ci avesse abituati al passo e alla cavezza della ragione.
Per una condizione fisica ma più ancora per un precoce modernismo pacifista la visita di leva che dopo anni avrebbe perso la sua obbligatorietà arrivò come uno schiaffo! Una squallida cartolina che ti assegnava al tuo genere senza se e senza ma, con la prospettiva di un eccitante anno di recluta e addestramento virile, proprio mentre avevi appena iniziato a farti la doccia con regolarità.

Per niente campanilisti, noi ragazzi italiani a parte qualche invasato, la consideravamo una bella menata e le famiglie, cercavano tramite conoscenze di far esonerare i propri figli dal gravoso incarico di proteggere una patria che ci era più sconosciuta di un programma di lavaggio. Dopo averci maltrattati e ripetuto in continuazione che dovevamo crescere o di comportarci da uomini, l’arrivo della cartolina ci rassegnava al ruolo di “poveri bambini”. I padri, erano più inclini all’idea che “ci facesse bene” come a loro, che nel frattempo se l’erano dimenticato, le madri invece, non sopportavano l’idea di rimanere senza di noi come scusa per stanchezza varie e opportuni mal di testa. Una virilità fatta di domande avrebbe creato una leva di volontari che sarebbe stata certamente più motivata ma anche il Ministero della Difesa sapeva bene che un maschio doveva essere obbligato a passare un anno di merda del genere, e che l’esercito in fondo, ha sempre bisogno di una “prima linea di deboli da far fuori alla prima occasione. 

Scelsi di non essere accompagnato alla visita di leva e portai malvolentieri con me un paio di certificati del tutto eccessivi che mia madre sperava avrebbero fatto di me lo scarto di quella leva. C'era la possibilità di un esubero e cioè che un numero spropositato di donne avesse partorito maschi come piovesse in quel dato anno, così che l’ordine alfabetico non potesse compiersi del tutto e la domanda di nuovi soldati trovasse soddisfazione ad un certo punto ma il mio cognome era con la quarta lettera dell’alfabeto. Secco, gracile e distratto non sembravo proprio in grado di salvare nessuno ma anche nei camini il fuoco necessita di stecchetti per essere attizzato, quindi varcai il portone della caserma con la lena di una talpa.
Riuniti in uno stanzone tutti i maschi dalla A alla L ,cioè da Amebe a Lombrichi e in un altro dalla M alla Z, ovvero da Manzi a Zorro, pensai che ci fosse già stata una certa selezione naturale, restava solo da scoprire che ne avrebbero fatto di noi. Un marchio a fuoco? Un contingente derelitto? Crocerossine gay magari?

Del tutto ignari sui tempi e i modi che fanno un mucchio di maschi in uno stato di stress condiviso? Si confrontano? No, si dividono prima in due grandi famiglie: chi si tocca le balle e chi si gratta il culo. Ad essere onesti, io e pochi altri accavallammo le gambe ma non è che puoi fare per molto nessuna delle tre cose, perciò, dopo un ora scarsa si diversica. Comincia la fase di quelli “che io lo so come va”, quelli cioè che avevano un fratello più grande che gli parlava. Nell'eloquio tipico dei maschi tra un grugnito e un ripetuto volgare venimmo a capire che saremo stati visitati in mutande. Chi arrossiva non se le era cambiate da giorni, chi lo diceva con fierezza ce le aveva belle gonfie e poi c’ero io che ce le avevo celesti! Cazzo, ma come si fa ad avere le mutande azzurre in una giornata come quella? Non che fossero azzurro aviazione, piuttosto un pallido celeste slavato. Molte madri erano fissate col bianco nella convinzione igienica di doverle lavare ai figli maschi con l’acido o l’acqua santa, la mia, le comprava talmente economiche da non farsi questioni di sorta, infatti le avevo dal celeste al rosso mattone con in comune soltanto una certa slabbratura del giro gamba. Con. Ogni probabilità, le avrò ereditate smesse dai cugini più grandi dato che le zie ci portavano sempre sacchi di stracci che per qualche ragione “ era un peccato buttare” e che pretendevano anche un grazie zia ad ogni giro.

Tornando a noi, un durissimo generale ci informò di allinearci senza spingersi e di avviarci in sala medica solo in calzini e mutande per l’appunto. Soliti scherzi da caserma: un dito nel culo di quello davanti, la cicca nelle calze di quello dietro, lasciandola bella appiccicosa a terra e  i pochi peli ritti dal freddo, avanti Marsch! Un codazzo di corpi non tutti brutti formavano un impaccio unico e rumoroso di fronte a bilance che potevano pesare una mucca, uomini in camice dalle mani più gelide del cuore e strani ferri. Scorrendo di un passo ad ognuno che finiva il giro non ti era dato vedere se fosse stato abbattuto, mangiato o sepolto perciò qualcuno cominciò a manifestare i suoi sentimenti di paura scoreggiando intanto che l’uomo in divisa sembrava passarci al setaccio con lo sguardo non si sa in cerca di quale requisito. C’era una voluta umiliazione in quella procedura, un chiaro modo di farci capire che quei corpi quasi nuovi e ancora da scoprire sarebbero stati di proprietà dell’uomo in divisa e dei suoi simili, perciò tanto valeva che sapessero anche come eravamo fatti. Le mie mutande azzurre in effetti si mostrarono degne di un smorfia che io, inguaribile ottimista ricambiai con un sorrisetto inutile.
“ Ti guardano anche nelle mutande” diceva uno, “ ti schiacciano i coglioni” diceva un altro e solo alcuni rinverdirono la vecchia storia che vince chi ce l’ha più lungo. Il dottore che l’aveva lunghissimo il maledetto cucchiaio che mi ficcò in gola per schiacciarmi la lingua e non so nemmeno se non fosse lo stesso già usato. Alza le braccia, allarga le gambe e dopo un paio di piegamenti che mi rimase il dubbio fossero chiesti per gusto, la visita finì con un foglio e un brutto raffreddore.
Una prova di virilità fatta di risposte sulla propria validità d’uso come maschi: nella società: Abili Arruolati, Rivedibili o Riformati.
 La questione della mia virilità si chiuse alla sua prima occasione pubblica con la sigla “Rivedibile”e mentre gli altri si trovavano nella condizione di potere o non potere più, io ero in un più ampio luogo di probabilità. I soldati sarebbero andati all’Arena della guerra come tori e gli altri, ad arare i campi come buoi e io, un caso di maschio meno determinato dai codici di potere, “potevo” godermi un altro anno di libertà come un vitello indeciso dalle mutande azzurre.

Un concetto di virilità alternativo poteva basarsi su una domanda precisa: un anno dopo cosa  ci sarebbe stato da rivedere ?  

domenica 1 ottobre 2017

Maschiario cap 7: Daniela

Appurato che i sentimenti sono per i maschi l’equivalente del ciclo mestruale per le donne , e cioè una cosa naturale di cui si farebbe a meno volentieri, possiamo affrontare il luogo comune che noi maschi gay siamo più sensibili. 
Nato dall’imbarazzo di padri amorevoli e dal desiderio delle madri di generare un maschio tipo Gesù, questo luogo comune è uno dei più odiosi. Stabilire che un maschio omosessuale sia più sensibile di un altro è anche impedire e quindi, continuare a impedire ai maschi di accedere alla propria sfera emotiva. Dimmi tu qual’è il ragazzo che non nascendo omosessuale se si sente dire che è sensibile, non pensa: ecco ora pensano pure che sia gay. Quale ragazzo gay, d’altra parte, se volesse reagire con rabbia o semplicemente si volesse mostrare determinato a non chiudersi di fronte al mondo o a non sopportare un insulto  non penserebbe: ecco ora penseranno che sono pure uno stronzo.

“Beata la donna che ti sposerà” mi diceva mia nonna. Per anni l’ho liquidata come una semplice pippa romantica perché nonno, sebbene fosse una brava persona, era un maschio di fine 800 perciò, a parte i quattro figli, che dubito siano tutti nati per amore a giudicare dalla foto di mia nonna che la ritraeva sfinita di notte a cucire col mal di testa e una faccia piena di risentimento, passava il suo tempo libero al bar coi maschi  come lui.
Poi però, compresi che nonna intanto aveva notato la mia differenza nel mondo e gli aveva attribuito un valore, inoltre, aveva chiarito che non sono i maschi che sposano le donne ma viceversa, quindi la beata a cui si riferiva doveva essere una beata vera cioè una santa trapassata più simile a Beatrice per Dante, che alla Daniela. O una pazza.

Daniela, era la ragazza che scontrai una domenica pomeriggio, quando, ormai convinto che la mia omosessualità fosse un’arma di distruzione sociale, vagavo per una via dello struscio (passeggio affollato e domenicale). Mi ero scusato perché i gay sono sensibili, ma lei, che era abituata al fare dei maschi di cui andava a caccia, credette che l’avessi scontrata per farmi notare.
Io, in realtà, volevo sparire ma questa ragazzetta spavalda e paffuta, cominciò a girarmi intorno e a burlarsi di me e della mia goffaggine, talmente divertita e sorridente, da convincermi a darle retta.
In quel periodo, dove ormai ero stato bandito da diversi, anzi tutti i miei contesti sociali, a causa della mia “sensibilità" per l’uomo sposato, feci come la celebre canzone e mi dissi “a quest’ora cosa vuoi, mi va bene pure lei”. 
Comunque, nonna aveva RAGIONE, Daniela non mi sposò ma fece di me il suo “ragazzo” dal momento che, come succede a tutti i maschi, fu lei la prima a baciarmi. La mia sensibilità fuori dal comune, mi fece credere che forse avevano ragione gli altri, che quella era la normalità, che avrei potuto dimenticare tutto il casino che la mia altra sensibilità aveva creato e sistemare tutto. Informai così in casa che avevo dato il numero di casa a “una” perciò mamma cambiò le tende e ricominciò a canticchiare ma poco.
 Lei chiamava, si usciva, ci si baciava e una domenica fu invitata a casa, dove papà disse che era carina. Chiariamoci, Daniela non era per niente bella se non per le manine minute e i denti bianchissimi, anzi, aveva una risata sguaiata, era il classico fiasco con le tette e aveva una fastidiosa attaccatura alta, che turbò il nostro rapporto per tutta la sua durata.  Ma come ne aveva voglia lei, poche altre, o forse tutte, non saprei! Oltre un certo pomiciare non c’eravamo spinti e dopo una estate di tramonti e passeggiate, Daniela, voleva essere Beata a tutti i costi. 


“ Finalmente sei diventato il figlio che sognavo di avere” trovai scritto in un biglietto di mamma appoggiato sulla scrivania vicino a due oggetti e a dei soldi, che continuava dicendo “ questi sono uno per te e uno per la Daniela”. Dunque aveva funzionato, avevo vinto la lotteria dei figli prodighi! Un biglietto di prima classe per la fine della guerra interiore e del biasimo sociale, che mi fece restare a lungo pensieroso. Nelle passeggiate con lei, avevo notato come il codice maschile mi avesse mostrato il suo lato lusinghiero: i sorrisi degli altri maschi, le pacche sulle spalle dei fidanzati delle sue amiche, il sorriso dei vecchi che non mi temevano più, come quando camminavo da solo e “sensibile”, le risatine chiocce delle donne mature che immaginavano le mie erezioni, meglio di come avrei mai fatto io stesso. Ma i ragazzi “normali” si accorgevano di tutto ciò? Come lo potevano sopportare quel teatrino? Il desiderio fisico di questa creatura era spaventoso e mi chiesi se i maschi in fondo non vengano fagocitati dal desiderio femminile più che dal proprio, comunque, io temporeggiai fino a innervosirla mica poco.
Talmente tanto, che un giorno se ne uscì dicendo: ma non sarai mica frocio eh? I sentimenti sono come il ciclo mestruale anche per le femmine o è il ciclo mestruale a rendere i sentimenti delle femmine tanto forti? In ogni caso la sua domanda riportò in ordine le mie priorità.
Nel tempo che era trascorso dal biglietto di mamma alla fine di questa storia,  io, non feci altro che vedere i suoi difetti e  sfuggire a quella bocca e alla sensazione che la sua vagina, mi avrebbe tranciato il cazzo per tenerselo come ricordo! Sarei stato un ragazzo sensibile costretto a ritornale dentro ogni sera per ritrovare il mio amico scomparso per tutta la vita! No grazie. 
Ora, un maschio eterosessuale si sarebbe fatto la sua amica, picchiato col rivale e per “sensibilità” avrebbe mentito alla fidanzata fino alle estreme conseguenze, dopo le quali, si sarebbe potuto vantare con gli amici, mentre le ragazze che si sa sono più sensibili, si sarebbero date della puttana fino ai saldi, dove sarebbero tornate amiche. Io invece ero stato capace di dire alla povera ragazza vogliosa e “normale”, delle cose di lei che non avrebbe potuto pensare di se, neanche in piedi su una sedia, confusa  e con una corda in mano.

“Sei proprio uno stronzo” mi disse quando le comunicai che era finita, giustificandomi malamente con il fatto che non l’amavo abbastanza ma in realtà, dicendole che i suoi baci fradici non mi piacevano, che era più stempiata di me, che aveva il culo grosso e che come diceva mio padre, che era un vero uomo, “se gli metti uno straccio sotto il culo ti lava per terra” , cosa che, avrebbe poi detto e non a torto,  anche della moglie di mio fratello. Niente male per uno che doveva essere più sensibile vero?

I maschi gay non sono più sensibili degli altri, del resto, come potrebbero, cresciuti come sono da maschi e con  genitori  capaci di mentirgli solo per togliersi un problema o per risolverlo?