L'adolescenza non portò soltanto tormenti interiori ma anche scoperte concrete. Dall'esterno, le difficoltà a collocarsi nel mondo, la velocità con cui una strada diventava vicolo cieco e l' ostinazione degli adulti a vederci ricalcare le loro orme, come se, il mondo a cui erano stati presentati loro, non avesse ancora conosciuto il fuoco ne dovesse farlo, ora che toccava a noi.
Dentro di noi, il fuoco c'era eccome e si chiamava Desiderio. In se, costituiva già l'antidoto ad ogni difficoltà esterna, poiché bruciava dentro più di un castigo ed era infinito, come nessuna punizione avrebbe mai potuto essere. Era però, anche energia propulsiva, combustibile nella camera a scoppio dei nostri cuori giovanili.
Desiderio di libertà, identità, autonomia, conquista e perché no, anche una serie di rivalse che somigliavano alle ripicche di un povero, che rifiuta un pasto caldo perché offertogli da qualche ricco disprezzabile, anche se ha fame. Quante facce aveva il desiderio nei giorni in cui il nostro corpo ne era custode e prigioniero al tempo stesso!
Lo vedevi negli occhi delle femmine, che un giorno cominciavano a brillare di una luce invitante e di iniziativa come quella che avevano la sorella di Giuseppe e Marcolino con le loro tettine accennate e i lunghi capelli lucidi, come anche in quelli dei maschi il cui sguardo, cominciava ad esprimere però, solo sete di possesso e una irruenza sconnessa ed imprecisa negli intenti.
Per quelli come me, in parte adolescenti come gli altri, c'era un terzo tipo di luce?
Dicevano avessi sempre lo sguardo triste ma non ricordo la tristezza, per come la raccontavano, abitare il mio corpo sgraziato. Io non tenevo gli occhi bassi, non fuggivo lo sguardo degli altri ne gli altri potevano sfuggire il mio, tuttavia, non potevo dirmi ancora un insolente. Direi oggi, che fossi decisamente un polemico perbene.
Le regole, la verità, le convenzioni tutte, io le avevo assorbite, credute e interiorizzate ma una ribellione antica me le faceva discutere interiormente. Non essendo considerato ancora degno di un confronto verbale paritario con gli adulti, mi limitavo ad interpretare fisicamente i ruoli che dovevo ma nella testa una vocina: non può essere tutto qui.
Le delusioni circa l'avere un fratello o dei genitori avevano ridimensionato di molto e precocemente la mia idea di famiglia. Rimaneva invitante come una mela rossa, ma avevo assaggiato anche il veleno del suo bisogno.
Mi era chiaro che ciò che sentivo circa la vita, la curiosità di essa che ne avevo, non mi avrebbe facilitato in una casa di persone come la mia, che dicevano di "accontentarsi", né in una religione che aspirava a nient'altro che ad una esistenza monotona e del tutto assoggettata al pensiero di un ristretto gruppo di eletti.
Certo, anche i miei amici provarono la stessa sensazione di estraneità ad un certo punto, ma se loro erano considerati irresponsabili e impulsivi quanto me, c'era nei loro adulti una sorta di fierezza per la loro sete di conquista che non vedevo nei miei.
Il mio alto rendimento scolastico nelle scuole medie era visto al massimo come un dovere assolto come ci si aspettava che fosse, per cui la mia intelligenza non era una specialità rilevante, come non lo erano la sensibilità o la gentilezza.
Mentre Alessandro e Giuseppe erano sul ciglio di un mondo che sembrava loro aperto, io venivo invitato a non scoprirlo, a temere le sue lusinghe e le persone che non facevano parte della cerchia di sicurezza che mi era stata "approntata". Inutile dire che effetto possa avere su un giovane la proibizione.
Il freno di questi divieti genero' in me una altra emozione propulsiva: la rabbia. La sentivo crescere come crescevano le mie ossa e di tanto in tanto, prendeva il sopravvento, limitando la prudenza con cui mi ero, fino a quel momento, lasciato inquadrare.
Le cose che avevo accettato mi definissero come l'essere "distratto" o "goffo" ma anche "obbediente" e " maturo" formavano di me uno strano personaggio nel quale non riconoscevo alcuna vitalità. Io mi sentivo tale solo correndo a rotta di collo per la pineta con la mia banda, o sul divano a far finta di fare la lotta con Giuseppe o con una cucciolata di orfani miagolanti di cui essere quotidianamente responsabile e nei disegni dell'ora di artistica che mi vedevano creare figure umane e bestiali fuse insieme che probabilmente oggi mi avrebbero spedito dallo psicologo ma allora, esprimevano soltanto la mia domanda principale: le persone possono essere bestiali?
Questi due me, quello obbediente e quello ribelle non potevano convivere senza fare di me uno squilibrato, per cui uno dei due sarebbe dovuto venire meno prima o poi. Uno dei due non sarebbe stato "adatto alla vita" che avrei scoperto esserci nel mondo e che volevo raggiungere al più presto, come tutti i ragazzi. La libertà di cui mio fratello di soli tre anni più grande godeva, era spropositata rispetto ai mille limiti a cui io, ero invece soggetto. Perché?
Pur avendo anche lui dei tratti ribelli, sembrava che i miei non li vedessero, o che addirittura li temessero o se ne sentissero responsabili, al punto da non ostacolarlo. Di lui sembravano fieri o di certo meno preoccupati che di me.
"Quando sei arrivato tu lui ha avuto le convulsioni per giorni, temevo che morisse" mi disse una volta mia madre. Io lo cercavo molto da piccolo, preparavo per noi dei giochi e poi lo chiamavo ma non veniva mai. Le uniche attenzioni di cui mi faceva oggetto erano violenti scontri in cui, gracile com'ero, finivo per subire fino a piangere dal male. Che stupidi i giochi dei fratelli, sembrava logico che ci fosse una certa gelosia in lui, che la esprimesse come poteva. "Non siete mai andati d'accordo" disse mia madre molti anni dopo aver dimenticato che il motivo per cui andò così fu il suo egoismo. Fino a che punto la gelosia è solo un modo in cui vogliamo sapere se saremo amati come prima?
Non è vero che una madre ama i suoi figli tutti nello stesso modo, sarebbe come dire che non ne ama nessuno in modo personale. Lui fu il primo a rispondere al suo bisogno di normalità, a farla sentire una "donna come tutte le altre": capace di essere madre, ma come in tutte le cose degli adulti non seppe "accontentarsi" come diceva a noi di fare. Volle vedere se quella sensazione che la metteva finalmente al centro di qualcosa non potesse essere ancora più intensa. Qualcuno disse che lei era stata meglio di una madre normale avendoci adottati ma non lo fece per noi, lo fece per se stessa e per se stessa, fece anche tutto il resto.
Così per placare il fallimento del suo piano "materno"di normalità personale non corresse la pericolosa deriva del suo favorito, discutendo sempre più accesamente con mio padre, il quale desiderava porgli un limite e si incarico' di gestire me, in qualche modo, a quel punto, considerato se non colpevole, almeno causa di un grande disturbo per tutti. Il tutto ignorando la singolarità di ognuno di noi.
I miei problemi di salute da piccolo, rendevano il suo accudimento stretto apparentemente motivato da amore ma nei gesti con cui provvedeva a me sin da piccolo c'era la tensione di chi è costretto a farlo suo malgrado e forse anche malvolentieri. Troppo imbarazzanti le mie domande infantili e dopo da ragazzo l'imbarazzo crebbe a vista d'occhio. Superai mio fratello in ogni campo e senza sforzo e mi guadagnai loro malgrado molto apprezzamento da chiunque ma niente non bastava ancora. Forse era vero che eravamo una famiglia normale ma non avevano considerato che il bisogno di essere amati in modo esclusivo di ognuno di noi due, era ben al di sopra della loro "norma" al riguardo e che per tale ragione ci avrebbe fatto agire al di là delle normali regole stabilite da loro o dal mondo. Soddisfatto o frustrato quel bisogno avrebbe insieme all'adolescenza sviluppato il suo potenziale.
Dentro di me cominciai a disgustarmi di tutti loro, delle loro bugie, del piatto sul tavolo messo lì senza gioia, della finzione con cui tutti sembravano aver trovato il modo di "usarmi" convenientemente ai loro scopi.
Ma anche io avevo fallito in un certo senso. Non ero riuscito a capire che figlio dovessi essere per piacergli e mi mostrai talmente desideroso di diventarlo da non accontentarli mai abbastanza ne abbastanza a lungo per essere felice anch'io, senza dover rinunciare completamente a me stesso. Chi di loro aveva mai fatto tanto perché io lo amassi? Nessuno.
"Ti abbiamo fatto sempre sentire inadeguato, perché tuo fratello soffriva troppo" scrisse molti anni più tardi mia madre " tu avevi solo bisogno di essere amato e quando me ne accorsi eri già andato a cercarlo nel posto sbagliato". Non conosco un posto più sbagliato della famiglia da cui provengo, come di quella in cui crebbi, infatti, queste parole non costituirono mai una richiesta di perdono. Mi resi conto più tardi che altro non erano che la sentenza di essere "perduto" ormai sporcato da un amore sbagliato, l'ennesima maniera di quella madre di sentirsi a posto. Lei aveva fatto la sua scelta, dovevo fare la mia. Ne feci una, forse la più infelice ma da ragazzi si agisce "normalmente" per estremi.
Se non puoi essere soddisfazione diventa il più gran tormento che puoi e diciamocelo, non c'è nulla che un ragazzo deluso e arrabbiato sappia far meglio, tanto più se dotato di una certa intelligenza istintiva.
Ma c'era una cosa che desideravo fare prima di diventare "problematico", e cioè imparare a nuotare, dato che i miei due genitori "normali", non ce lo avevano insegnato fino a quella età.
Giuseppe e sua sorella furono in modo assai curioso i migliori maestri che avrei potuto avere e ancora una volta la Banda del 52 si sarebbe presa cura di me!!
mercoledì 30 settembre 2015
martedì 22 settembre 2015
La banda del 52 cap14: barattoli
Tutto il pudore che avevo e il timore di essere "scoperto" andavano a farsi benedire con la presenza del Principe tapparellista in casa. Lo seguivo ovunque e mi inventavo mille modi di essere utile di dare senso al fatto che gli stessi alle calcagna: prendigli il martello prima che lo chieda, vai in garage a prendere quella vite col cuore in gola e mille altre premure pur di farsi notare. Avrà sete o fame? Vuole una banana? Oddio una banana e' meglio di no!
Il mio "rendermi utile" non era cosa nuova in casa, perché se c'è una cosa che un giovane farà, se avverte di essere "strano" per i suoi famigliari, sarà quella di trovarsi uno scopo qualsiasi. O di chiudersi come un riccio. Oliver Twist, fece il ladro prima di diventare principe e Cenerentola la sguattera gratis, prima del ballo.
Il debito che sentivo di avere coi miei genitori e insieme la sensazione di non adempierlo mai abbastanza, mi spingeva a indossare etichette a profusione. Come un barattolo vuoto cercai di essere ora "bravo ragazzo", poi " ragazzo "sensibile" o " tanto intelligente" o "premuroso". Tutte, purché vagamente positive mi andavano bene, tutte, pur di non diventare un vuoto a rendere. Mia nonna ripeteva sempre: beata la moglie che sposerai!
Mio fratello, pur avendo lo stesso debito, aveva scelto la modalità del riccio. Sua moglie sarebbe stata meno fortunata.
Di questo, con la banda del 52 non avevo mai parlato. Con loro non c'era stato bisogno di essere "accettabile", bastava condividere al meglio le nostre risorse senza troppi perché ma con tutti i come possibili.
In quei giorni non potei proprio scendere in piazza e ai fischi dei compagni mi affacciavo dicendomi occupato, che dovevo aiutare "in casa".
La mia foga ormonale non ci mise molto a suscitare le preoccupazioni di mia madre la quale da un pezzo mi "sorvegliava", infatti, mi costrinse a fare i compiti in cucina o ad un certo punto, prese a invitare persone noiose, che non so con che autorità, mi dicevano cosa sarei dovuto diventare, come camminare e altre cazzate del genere. Erano persone che sapevano di naftalina dai modi gentili ma che incutevano timore con quei libri in mano e le facce da Padri e Madri. Io ce l'avevo un papà, ma in quel tempo sembrava che non andasse più bene. Quelle visite, da sporadiche si fecero settimanali e obbligatorie per me, ma non ebbi mai il coraggio di oppormi perché l'astuto genitore, faceva sempre il budino di biscotti quando venivano, ed io ascoltando i loro sermoni senza senso per me, non pensavo che a quello e al tapparellista.
Ci vollero un po di giorni perché il 52 avesse le tapparelle più azzurre mai viste, e venne il giorno che il mio Principe se andò con lo stesso sorriso con cui era venuto. A me invece, il sorriso, scomparve dal viso per un bel po', soprattutto perché una nuova etichetta stava per essermi appiccicata mio malgrado.
Non so a quale processo avremo dovuto testimoniare, ma si trattava di questo: ad un certo punto, mia madre decise di essere Testimone di qualcosa o qualcuno e che anche noi figli, lo saremo dovuti essere. Nonostante mio padre le avesse chiaramente detto che lui di fare il Testimone non ne voleva sapere, non le impedì di fare quello che voleva anche con noi. Così per un qualche fatto avvenuto dopo la morte di mio nonno, lei la nonna e gli zii divennero tutti Testimoni. Chissà in cosa era coinvolto mio nonno?
Di fatto, sparirono compleanni ed ogni genere di festività e mi trovai coinvolto con una serie di famiglie la domenica pomeriggio in un qualcosa che somigliava alle messe cattoliche ma più semplice. Nel mio armadio spuntarono orribili cravatte e giacche domenicali e il mio poster di Boy George fu dichiarato "immorale".
Vestito come un impiegato, non fu facile uscire la domenica dietro a mia madre e davanti ai miei amici, i quali mi prendevano in giro dandomi bonariamente del damerino. Da quel giorno la domenica fu il giorno più schifoso della settimana, ma da bravo barattolo, reagii a quella faccenda come a tutte le etichette che avevo già indossato. Mi volevano così e sarei stato così, almeno fino al più possibile. Di ritorno da quelle domeniche, condite di sermoni e strette di mano sconosciute mi spogliavo di gran fretta e andavo coi ragazzi a giocare a rigori.
I miei calci al pallone erano carichi di tutta la frustrazione accumulata ma mi resero ancora più amato dalla banda. Per loro, se essere un Testimone, migliorava la mia performance calcistica, che lo fossi pure. Ci avevo provato qualche domenica a sperare che mio padre mi portasse con lui al Parco di Nervi, dove andava mentre noi eravamo a "testimoniarci" per forza ma non me lo chiese mai.
Venni a sapere che per essere un buon testimone dovevo fare un sacco di cose e convincere altri a diventarlo persino se neppure io sapevo ancora cosa volesse dire, ma soprattutto non dovevo mentire. È sempre la stessa cosa coi grandi, alzano la posta sempre di più fino a trasformarti in quello che gli serve per fare la bella figura o per sentirsi giusti e migliori di altri. Si dividono gli adulti, si combattono, si separano e mentono pur di vincere non so quale premio, e se in questo sei coinvolto, non hai scampo: ti useranno come credono.
Quelle persone avevano bei modi, vestiti nuovi e curati e si chiamavano tutti fratello e sorella ma per me erano un po troppo vecchi per esserlo tutti davvero. . Ero un ragazzo mite e facevo in modo che mia madre fosse fiera di me, persino quando ad ascoltare certe voci e certe cose, mi venivano sonno o una ansia incontenibili. Il mondo che avevo scoperto con i miei amici era malvagio e doveva finire, secondo loro, da un giorno o l'altro. Che razza di sfortuna avevo? Proprio ora? Potevo smettere di andare a scuola?
Certe volte questo mi riempiva di rabbia talmente tanto che invece che salvarmi e rimanere con quelli, avrei preferito morire con i miei amici e la bocca sporca di Nutella. Con le loro figlie in crinoline che mi guardavano maliziose tanto quanto le ragazze a scuola...e le madri che mi stringevano la mano come fossi un avvocato, mi sentivo più scomodo che in piedi su chiodi. Povera mamma, si era creduta che il nonno sarebbe tornato dai morti se ci fossimo tutti "testimoniati", che lo avrebbe rivisto e che sarebbero vissuti per sempre in un giardino. Eppure in campeggio con papà si era tanto lamentata della natura e di quanto fosse scomoda.
Lo sapeva Dio che la mamma era bugiarda? Che si leggeva gli Sturmtruppen?
Inutile dire, che quel contesto che separava i giovani di sesso opposto per questioni morali mi mise in contatto con uomini adulti con cui potevo passare del tempo, e per quello i permessi si sprecavano. Per la maggior parte erano vecchi noiosi, ma alcuni uomini catturarono la mia "attenzione" o io la loro.
Nella bontà di chi è conforme si annidano più ombre che altrove. Le famiglie che vedevo avevano lo stesso aspetto di quelle che uscivano dalla chiesa di quartiere: quadretti composti e decorati in cornici di odio e menzogna. Come facevo a saperlo? Bastava leggere le facce degli adulti per accorgersi della forzatura di quei sorrisi, o vedere come le madri stringevano le mani dei propri figli scalmanati fino a ficcargli le unghie nella carne per la paura che tutti vedessero il fallimento della loro "educazione".
Per me, che in quella finzione ci ero cresciuto, era così evidente la sceneggiata, da incontrare e riconoscere facilmente lo sguardo rassegnato o rabbioso di altri "prigionieri" come me, con la differenza che io avevo già imparato il prezzo della ribellione e perciò imparato a mimetizzarmi in modo opportuno. Ma del resto lo dicevano che i figli dovevano ubbidire ai propri genitori e questi a Dio.
Dio però non viveva in casa coi nostri genitori e non ci risparmiava nessuna delle loro prevaricazioni. Mi fu chiarito in fretta, data la mia età che per testimoniare come si deve bisognava avere una moglie e dei figli e che gli "uomini che giacciono con altri uomini" erano peccatori degni di una severa punizione. Ecco bello e pronto un Nuovo Mondo dove, come quello che secondo loro doveva finire, ero l'unico della mia "specie". Una specie non gradita neanche a Dio che ci aveva fatti a "sua immagine e somiglianza" ma che si vede che nel mio caso si era distratto. Invece che sbagliato cominciai a sentirmi sporco.
La verità vi renderà liberi diceva la Bibbia, ma la verità, era l'unica cosa che non potevo testimoniare onestamente e visto il comportamento degli adulti cominciai a pensare che nemmeno loro volessero farlo, perciò mi sentii meno in colpa. Ci mancava anche la Bibbia a far casino dopo il libro di scienze e naturalmente quello di matematica di gran lunga più incomprensibile degli altri due.
Solo Alessandro, Giuseppe, Alex e la signora gattara con la barba, costituivano la mia "oasi" dall'asfissiante sensazione di bugia che mi circondava, dalla sgradevole possibilità di essere stato fatto con gli avanzi di una ricetta "perfetta". Con loro potevo ridere, camminare come potevo e sentirmi qualche ora al giorno davvero felice e trasparente. La felicità al tempo divenne un attimo di dimenticanza della verità che si faceva largo non più solo dentro di me, ma anche fuori. Una verità che anche io speravo mi rendesse libero prima possibile ma che anche temevo.
Paradossalmente crescere stava diventando un problema senza sbocco. All'improvviso, sarei diventato qualcosa, ma di certo con conseguenze che non lasciavano presagire niente di buono: sbagliato o sporco che fossi comunque non avrei potuto nascondermi più da nessuna parte, ora che anche Dio si era accorto di me.
Dai barattoli di conserva, mia madre staccava le etichette con l'acqua fredda, perché se avesse usato quella calda la colla che le appiccicava al vetro, avrebbe reso il tutto assai più difficile e il barattolo, non sarebbe mai stato del tutto trasparente in quel punto. Si era messa a fare i peperoni sott'olio perché da quando era Testimone non aveva più tempo per fare da mangiare, ma tanto non le era mai piaciuto farne. Naturalmente le ero "utile" in queste faccende.
"Mamma ma se anche rimane opaco fuori dentro e' pulito. Non va bene lo stesso?"chiesi stanco di fregare.
"Certo che no, che sciocchezze vai dicendo, l'alone farebbe sembrare guasto il contenuto e poi niente può dirsi pulito se lo è solo a metà"
La somma delle etichette che mi ero lasciato appiccicare, comincio' a pesarmi davvero, ora che sapevo come la pensava al riguardo. Quella sera, mi venne una gran voglia di una doccia fredda e di fregarmi un bel po'. Nel mio letto, tra una fine del mondo e l'inizio di un altro, non avevo idea di dove piazzare la nostra casetta nell'orto e la mia banda di amici.
Inviato da iPad
venerdì 18 settembre 2015
La banda del 52 CAP 13: la natura e il cuculo.
Era stato relativamente facile, comprendere l'amicizia tra noi, lo spazio ambiguo che al suo interno ci comprendeva tutti e nel quale, gli approcci consentivano ad ognuno di "sperimentare" ruoli di preda o cacciatore, che avremo poi rivolto fuori da quel cerchio magico e sicuro.
Difficile invece, sarebbe stato comprendere quando il cerchio si sarebbe spezzato, quando il guscio della nostra banda implume, si sarebbe sgretolato spinto dal nostro bisogno di comunicare al mondo la nostra identità e dal suo di metterci alla prova.
Maggiore diventava il bisogno che gli altri sembravano provare, di quella "nascita", minore si faceva il mio di affrontarla. Se loro volevano venire al mondo, io avrei voluto impedirglielo con tutto me stesso, per paura di perderli.
Sarei stato come quei cuccioli gracili, che la natura condanna a morte certa, perché non abbastanza forti per la loro prima lotta? O come il cuculo il mio uovo conteneva un ospite pericoloso una volta schiuso nel nido di una specie a lui estranea?
La scuola superiore, le femmine, la città, come le avrei affrontate senza il loro aiuto?
Ci saremmo magari trovati, nella casetta nell'orto a parlarne, a celebrare il commiato come soldati di leva verso il fronte che promettono di rimanere vivi per ritrovarsi, forse invece, uno ad uno saremo mancati all'appello senza alcuna spiegazione che l'assenza. Quel vuoto di cui nessuno parla, perché imminente definitivo e insopportabile, come la morte.
Il povero 52, la nostra madre di cemento, sembrava sapere di aver compiuto in qualche modo il suo compito. Quello, l'ultimo suo grembo di umani da svezzare tra le braccia dei suoi muraglioni, resi ormai decrepiti da pallonate e risa e qualche pianto.
Le sue palpebre di tapparella cominciavano a mostrare i segni del tempo che era passato, a non chiudersi ed aprirsi con la stessa prontezza!
L'arrivo del serramentista nel condominio suscitò un vespaio di reazioni.
Per cambiarle tutte avrebbe dovuto rimanere per molti giorni, perché il 52 aveva occhi ovunque, solo a casa mia contavo sette finestre, che moltiplicate per almeno dieci appartamenti nella scala A e circa ventiquattro nella scala Vip, quella B, facevano qualcosa come duecentotrentotto tapparelle da togliere e rimettere!
I padri discutevano preoccupati della spesa che avrebbero trovato nelle bollette, le madri, della polvere che avrebbero dovuto pulire per quel lavoro.
E noi?
Noi eravamo curiosi di sapere come diavolo si fa a toglierle e metterle ma io, avevo anche una curiosità in più, mi sentivo in quei giorni come in attesa di un ospite misterioso. Un po contento e un po preoccupato, ad esempio, che dovesse entrare nella mia "stanzetta".
Una piccola dispensa, un budello stretto e lungo con una finestra, era stato arredato per me come un posto dove giocare da piccolo, in modo che mio fratello, potesse avere la camera che condividevamo la notte, tutta per se di giorno! Il lusso di essere stato il primo di noi due ad arrivare a casa.
Un tentativo dei miei di farlo sentire più importante affinché non soffrisse di gelosia che costo' loro molto caro in seguito, quando, una volta convinto della sua "primogenitura" effettiva comincio' a sentirsi stretto comunque. Ad alzare la posta del suo valore, accordatogli con troppo anticipo sui tempi e sulla realtà.
In quello spazio, avevo i miei giochi, come anche i quaderni o la radio un poster di Boy George e una bambola di pezza di nome Rosaria. Le pareti erano state celesti ma anche rosa per un po, una volta anche bianche ma per poco perché il bianco si sporca...come la coscienza. Cosa avrebbe pensato di quel posto il serramentista? Di chi avrebbe pensato fosse?
Papà, non so bene perché, disse che avrebbe prestato il garage a questo signore in modo che avesse un posto dove preparare i pezzi necessari e sporcare di meno nelle case. Credo che in quel momento, mio padre sia stato l'uomo più amato dalle signore del 52.
Arrivo' in un pomeriggio presto, un furgone, proprio mentre mia madre, stava comprando di nascosto delle lenzuola dalla merciaia che veniva a domicilio, papà era a fare "il pomeriggio", e il primogenito forse altrove a vendere un motorino rubato.
Lo avevo visto da dietro la tenda della finestra. Imbarazzata dal suono inaspettato, rispose al citofono e disse: ora gliele mando giù! Era curioso come, a casa mia, seppur ritenuto un deficiente distratto e inaffidabile, io fossi all'abbisogna promosso al ruolo di "meglio che niente"!
"Allora ascolta bene, vai giù e tieni le chiavi del box ben strette, che non ti cadano nel tombino e apri il garage all'operaio, poi le porti su di nuovo senza inciamparti! Capito?".
Pronta più di Cenerentola, ma senza farla tanto lunga quanto lei, scesi gli scalini a due per volta mentre lei, gridava come una matrigna di non correre. Ma come potevo non correre, con la fortuna che avevo avuto?
L'invito a forma di chiave, e il ballo nel garage con uno sconosciuto dalle braccia come due rami di quercia, era toccato a me!!! A me soltanto. Alessandro Alex e Giuse non erano ancora liberi di scendere, come non lo sarei stato neppure io, se la fata Merciaia non mi avesse fatto quella magia!
Sorpreso di vedersi un ragazzino invece di un adulto, il Principe tapparellista mi accolse con un sorriso dicendo " ciao sono .." Lo so chi sei, ma come hai rubato il sorriso di Giuseppe?
"Devo aprirle il garage" dissi invece.
Ero alto quanto lui, per cui era basso il mio Principe, pazienza, potevo guardarlo negli occhi senza sforzo, se solo ci fossi riuscito. Una maglietta verde militare un po sdrucita copriva il suo petto ampio di uomo fatto, non come la mia ridicola fila di costole e dal pantaloncino al ginocchio, due cosce altrettanto fatte si muovevano forti come macine di pietra in direzione del garage. Fortuna che il nostro garage non era sotto le finestre di casa, perché altrimenti, mia mamma affacciandosi mi avrebbe visto del colore Magenta che ero in faccia.
Già chioccia, la mia voce non usciva premuta in gola dal maledetto pomo di Adamo, come un tappo preme la bocca della damigiana, quindi con le mani tremanti armeggiai con la serratura del box.
"Prendo il furgone e lo parcheggio li vicino così posso scaricare il materiale" disse mentre tentavo di indovinare il meccanismo della maniglia annuendo.
Il rombo del motore, mi colse come la mezzanotte a Cenerentola: scappa o vedrà che sei una zucca. Non ci riuscivo ad aprirlo e sudando, cominciai a puzzare come al solito, ma dov'erano i topini del cazzo di Cenerentola? E se non ci riuscivo e mi avesse detto "lascia stare frocetto, faccio io che sono un uomo?
Con la coda dell'occhio, feci appena in tempo a vedere un ramo di quercia che mi afferrava la mano, ormai saldata dal sudore alla maniglia del merdoso box di mio padre, e che con una delicatezza impossibile per un ramo la girava aprendola. Il Principe tapparellista mi era alle spalle come mai nessuno prima di lui, tanto vicino da sentirne il fiato caldo sul collo.
"E' solo un po dura" disse con l'alito alla menta e aggiunse " dovrai spostarti un momento così tiro su la ribalta. Certo, spostarsi dove? Come?
La sala da ballo fu aperta, lui entro' e io con lui. " comincerò domani da casa tua" annuncio', sorridendo ancora.
Inebetito, lo fissavo come mia mamma mi ingiungeva sempre di non fare sui mezzi, poi dissi devo tornare a casa, buongiorno. " quando ho finito vi citofono così potete chiudere e grazie".
Le mele verdi d'un tratto non profumano tanto quanto la menta, e pur sentendomi in pericolo o in colpa per quel fuoco che sentivo mi prese una specie di determinazione a bruciarmi prima possibile.
Una volta su, diedi le chiavi alla matrigna, salutai la fata Merciaia e mi chiusi in bagno, dove mi fu chiaro che cosa fare. Seduto sul cesso cominciai nella mente a parlare.
"Caro uomo di carta, e' stato bellissimo stare insieme tutto questo tempo anche se a furia di piegarti non sei più quello di un tempo e tutte quelle crepe bianche hanno spezzato il tuo bel corpo come un puzzle, che ormai sono stanco di ricomporre. Forse è arrivato il momento di separarci perché se domani il mio principe volesse venire qui a far pipì non vorrei che ti trovasse. Grazie ma ora ho un corpo vero da guardare.
Lo scarico, lo porto via come aveva portato via il mio pulcino di peluche di Pasqua, quand'ero così piccolo, che seduto sul cesso, mi era caduto nella cacca che stavo facendo. Per il pulcino ne feci una tragedia mentre il mio uomo di carta non mi provocava più niente.
Nel pomeriggio, mi trovai coi ragazzi, ma il mio sguardo controllava il garage in attesa che il suo occupante uscisse a prendere qualcosa per scorgerne questo o quel dettaglio. Sentendosi osservato ogni tanto mi sorrideva e io potevo respirare. Giocando a palla avvelenata, i miei tiri finivano sempre da quella parte, col disappunto di Giuseppe che di perdere, non aveva voglia e che un po scocciato, mi pianto' li per la prima volta. Ma neanche questo mi tocco' come avrebbe dovuto. Cosa mi rendeva tanto crudele in quel momento? Era il peccato come dicevano alla funzione della domenica, o era l'amore delle canzoni?
Dovetti preparare la ricerca di scienze per il giorno dopo anche se la testa era altrove, così aprii la pagina del libro.
"Allora ascolta bene, vai giù e tieni le chiavi del box ben strette, che non ti cadano nel tombino e apri il garage all'operaio, poi le porti su di nuovo senza inciamparti! Capito?".
Pronta più di Cenerentola, ma senza farla tanto lunga quanto lei, scesi gli scalini a due per volta mentre lei, gridava come una matrigna di non correre. Ma come potevo non correre, con la fortuna che avevo avuto?
L'invito a forma di chiave, e il ballo nel garage con uno sconosciuto dalle braccia come due rami di quercia, era toccato a me!!! A me soltanto. Alessandro Alex e Giuse non erano ancora liberi di scendere, come non lo sarei stato neppure io, se la fata Merciaia non mi avesse fatto quella magia!
Sorpreso di vedersi un ragazzino invece di un adulto, il Principe tapparellista mi accolse con un sorriso dicendo " ciao sono .." Lo so chi sei, ma come hai rubato il sorriso di Giuseppe?
"Devo aprirle il garage" dissi invece.
Ero alto quanto lui, per cui era basso il mio Principe, pazienza, potevo guardarlo negli occhi senza sforzo, se solo ci fossi riuscito. Una maglietta verde militare un po sdrucita copriva il suo petto ampio di uomo fatto, non come la mia ridicola fila di costole e dal pantaloncino al ginocchio, due cosce altrettanto fatte si muovevano forti come macine di pietra in direzione del garage. Fortuna che il nostro garage non era sotto le finestre di casa, perché altrimenti, mia mamma affacciandosi mi avrebbe visto del colore Magenta che ero in faccia.
Già chioccia, la mia voce non usciva premuta in gola dal maledetto pomo di Adamo, come un tappo preme la bocca della damigiana, quindi con le mani tremanti armeggiai con la serratura del box.
"Prendo il furgone e lo parcheggio li vicino così posso scaricare il materiale" disse mentre tentavo di indovinare il meccanismo della maniglia annuendo.
Il rombo del motore, mi colse come la mezzanotte a Cenerentola: scappa o vedrà che sei una zucca. Non ci riuscivo ad aprirlo e sudando, cominciai a puzzare come al solito, ma dov'erano i topini del cazzo di Cenerentola? E se non ci riuscivo e mi avesse detto "lascia stare frocetto, faccio io che sono un uomo?
Con la coda dell'occhio, feci appena in tempo a vedere un ramo di quercia che mi afferrava la mano, ormai saldata dal sudore alla maniglia del merdoso box di mio padre, e che con una delicatezza impossibile per un ramo la girava aprendola. Il Principe tapparellista mi era alle spalle come mai nessuno prima di lui, tanto vicino da sentirne il fiato caldo sul collo.
"E' solo un po dura" disse con l'alito alla menta e aggiunse " dovrai spostarti un momento così tiro su la ribalta. Certo, spostarsi dove? Come?
La sala da ballo fu aperta, lui entro' e io con lui. " comincerò domani da casa tua" annuncio', sorridendo ancora.
Inebetito, lo fissavo come mia mamma mi ingiungeva sempre di non fare sui mezzi, poi dissi devo tornare a casa, buongiorno. " quando ho finito vi citofono così potete chiudere e grazie".
Le mele verdi d'un tratto non profumano tanto quanto la menta, e pur sentendomi in pericolo o in colpa per quel fuoco che sentivo mi prese una specie di determinazione a bruciarmi prima possibile.
Una volta su, diedi le chiavi alla matrigna, salutai la fata Merciaia e mi chiusi in bagno, dove mi fu chiaro che cosa fare. Seduto sul cesso cominciai nella mente a parlare.
"Caro uomo di carta, e' stato bellissimo stare insieme tutto questo tempo anche se a furia di piegarti non sei più quello di un tempo e tutte quelle crepe bianche hanno spezzato il tuo bel corpo come un puzzle, che ormai sono stanco di ricomporre. Forse è arrivato il momento di separarci perché se domani il mio principe volesse venire qui a far pipì non vorrei che ti trovasse. Grazie ma ora ho un corpo vero da guardare.
Lo scarico, lo porto via come aveva portato via il mio pulcino di peluche di Pasqua, quand'ero così piccolo, che seduto sul cesso, mi era caduto nella cacca che stavo facendo. Per il pulcino ne feci una tragedia mentre il mio uomo di carta non mi provocava più niente.
Nel pomeriggio, mi trovai coi ragazzi, ma il mio sguardo controllava il garage in attesa che il suo occupante uscisse a prendere qualcosa per scorgerne questo o quel dettaglio. Sentendosi osservato ogni tanto mi sorrideva e io potevo respirare. Giocando a palla avvelenata, i miei tiri finivano sempre da quella parte, col disappunto di Giuseppe che di perdere, non aveva voglia e che un po scocciato, mi pianto' li per la prima volta. Ma neanche questo mi tocco' come avrebbe dovuto. Cosa mi rendeva tanto crudele in quel momento? Era il peccato come dicevano alla funzione della domenica, o era l'amore delle canzoni?
Dovetti preparare la ricerca di scienze per il giorno dopo anche se la testa era altrove, così aprii la pagina del libro.
"E’ straordinario come i genitori adottivi non si accorgano della presenza dell’ospite, continuando imperturbabili la cova. La natura ha assegnato un ruolo particolare al piccolo cuculo: non solo si trova in un nido di un’altra specie, ma, a poche ore dalla nascita, ancora nudo e cieco, istintivamente espelle dal nido tutte le altre uova. Con il suo piccolo corpo, ma grande rispetto alle uova vicine, fa perno su di esse e uno alla volta le fa cadere dal nido.
Posando la penna mi feci pensieroso. Ma vuoi vedere che e' tutta colpa della natura?
martedì 15 settembre 2015
La banda del 52 CAP 12: Laura
Le ragazze della nostra età, sembravano crescere il doppio di noi. Un giorno arrivavano e i loro fianchi si erano improvvisamente arrotondati, così come il petto sotto le magliette.
Altrettanto improvvisamente, non era più possibile scherzarci: spintonale o canzonarle come goffamente facevamo per cercare di avvicinarle, poteva innescare pianti epici o veri ceffoni. Qualcosa in loro sembrava diventato talmente fragile o prezioso, non saprei, da dover essere difeso con ogni forza. Se prima erano loro a cercarci, scappando tra mille gridolini, ora non ci degnavano di uno sguardo che non fosse una minaccia!
Nello stesso modo i maschi, pur rimanendo legati al proprio gruppo, diventavano più audaci e pesanti nei loro scherzi, come se quella minaccia, fosse invece un richiamo a farsi sentire di più. Io non partecipavo a quel genere di scorribande, non gli alzavo la gonna, non le fischiavo gridandogli "ah bona", non gli sporcavo i capelli con le tempere all'ora di artistica.
Io ero una terra di nessuno destinata a nessuno in quell'ambiente. Per qualche strano motivo, comunque, le femmine mi avvicinavano facilmente.
Alcune di loro, facevano con me le cretine, solo per stimolare un altro ragazzo. Che cazzo di destino schifoso, mi era toccato. Ero come lo sciroppo ricostituente della felicità altrui: ragazzi e ragazze impedite mi usavano per raggiungersi, dato che da soli non ne avevano la forza.
Era questo lo scopo di un "frocio" di un culattone di un ricchione? Per quale motivo avrei dovuto alzarmi la mattina? Per aiutare il mondo degli altri a rimorchiare? Meglio studiare e finirla in fretta questa scuola.
Suonata la campanella di fine lezione, tutte le classi confluivano al cortile che infilandosi in un lungo corridoio esterno, portava al piazzale di ingresso, il mio sguardo scandagliava quotidianamente quel banco di acciughe umane, alla ricerca di uno come me. Avevo letto nel libro di scienze, che i salmoni, percorrono i fiumi controcorrente e che la loro carne era rosa. Come l'avrei potuto riconoscere?
Il bullo, il secchione, la mignotta, la ragazza di chiesa, il mongolo ( stupida parola giovanile che descriveva la persona troppo timida o disabile), quelli li riconoscevo ma perché non riuscivo a vedere uno "come me"? Passando per le ante traslucide dell'atrio, ogni tanto mi piantavo a guardarmi fare una sorta di scanner di me stesso, se mai avessi saputo cosa fosse.
Ma quel flusso umano non perdonava esitazioni, tutti coloro che sapevano chi erano spingevano impazienti di congiungersi ai propri simili, certi com'erano, di farne già parte. Non come me me, che come un detrito fluviale finivo incastrato da qualche parte o nella migliore delle ipotesi, giungevo all'esterno in tempo per schizzare di lato e poter rallentare il passo. Dovrei dire, che il passo in quei tempi, avevo imparato a cederlo a quella umanità acerba e tanto arrogante, da voler addirittura correre incontro al proprio futuro. Già, il futuro.
Il mio futuro più plausibile sarebbe stato, per quel che vedevo ai tempi, simile a quello di un clown grottesco che fa ridere, o come quel signore che abitava "da solo" ai Tre Pini, quello coi pantaloni troppo stretti e colorati che portava un borsello come le donne portano la borsa e nel quale frugava di continuo con le sue manone in cerca del fazzoletto. Sudava d'estate ma anche d'inverno Mario, così si chiamava.
Lo avevo visto spesso coi ragazzi, aspettare il 50, o la mattina, quando anche io lo prendevo per andare all'odiosa scuola, lo avevo notato ma non era certo acume, il mio, le sue camicie erano tipo quelle dei turisti americani, piene di paesaggi caraibici impossibili da ignorare. Paesaggi che forse aveva visto, o nei quali avrebbe voluto trovarsi, chissà. Ridacchiavano tutti i ragazzi, le signore lo guardavano penosamente e gli uomini gli voltavano le spalle. Io lo scrutavo preoccupato.
Com'eri tu alla mia età Mario? Glielo avrei voluto chiedere mille volte, ma mia madre diceva di stargli lontano, che non era "normale". Ce l'aveva però il coraggio Mario, lasciava sedere gli anziani, salutava le sue vicine anche sapendole false, e se gli dicevano "ricchione" diceva solo "Maleducati".
Ma Mario era sempre da solo, senza un Giovanni o un Franco qualsiasi, al massimo, aveva una signora con cui, di tanto in tanto, lo si vedeva camminare e ridere passandosi il fazzoletto sulla fronte come le attrici. Pensai che tra il diventare Mario, e l'uomo di carta non mi sarebbe piaciuto nessuno dei due. Non mi restava che diventare "invisibile".
Certo ormai del frocio me l'avevano dato, come facevo a non essere visto? Bastò cambiare banco e andare in fondo, in modo che una volta finite le lezioni fossi ultimo ad uscire, tanto non c'era niente da raggiungere, poi una volta fuori, prendere il cancello laterale e invece di seguire il flusso girare all'esterno della scuola in senso contrario. Di seguito per evitare il bus, Mario, o gli scherzi, bastava farla a piedi fino in cima. Alle lezioni di ginnastica, invece, imparai a mettere i pantaloncini sotto gli altri, in modo da non dovermi spogliare, l'ora di religione non la facevo, così anche Dio non poteva farmi star male con la sua menata dei peccati da confessare e per la ricreazione beh bastava non andare al cesso, e andarci durante le lezioni da solo.
Bella vita, non c'è che dire la scuola media per quelli come me, che evidentemente ce n'era uno per ogni scuola se andava bene. Per fortuna una volta arrivato al 52 c'erano i ragazzi della banda, che per qualche meraviglioso motivo, mi avevano escluso solo dalle partite di pallone, ma più perché ci cadevo sopra che per altro.
Durante uno dei miei svicoli scolastici, mi si parò davanti lei. Di tutte era la meno bella, ma già alle elementari, Laura, mi faceva simpatia col suo naso davvero troppo largo! Siccome aveva avuto un grave problema cardiaco da bambina e quando era tornata a scuola elementare ci dissero che era "delicata", finì che in molti la evitavano, esattamente come succedeva a Patrizia che aveva sempre i pidocchi. Purtroppo, durante una ricreazione, giocando all'elastico, non ci capimmo o forse mi disse che non potevo giocare perché non ero una femmina, beh, io le tirai uno spintone in pieno petto e la sua ferita cominciò a sanguinare.
Diamine, cosa mi era girato di farle? Come quando la maestra elementare mi prendeva in braccio perché avevo la gamba "gigia" e non ancora operata, ed io, la colpivo sulle gambe vare con le scarpette ortopediche! Comunque, sepolto questo fatto infantile e spiacevole me l'ero ritrovata in classe alle medie. La ferita era ben chiusa ormai, ma io, ironia della sorte, non l'avrei più toccata con un dito comunque.
"ciao vieni anche tu alla gita al Museo di Scienze naturali?" esclamò a debita distanza.
" Non so se mi lasciano i miei" risposi laconico.
" io vado, se vieni ti tengo il posto sul pulman" disse coraggiosa. Ne aveva di fegato la ragazza operata al cuore!
Coi suoi capelli unti il nasone e a cicatrice, Laura mi fissava con due splendidi occhi azzurri che non ammettevano un rifiuto in risposta, e con la maglietta non troppo piena. La mia determinazione ad essere invisibile ma ancor più a togliermi d'impaccio mi spinse a dire solo "va bene". Nel tornare a casa a piedi non sapevo cosa provare per prima tra la vergogna e la vergogna di essere contento. Poteva essere che non fossi come dicevano? D'accordo era un pò conciata la fanciulla, ma non era mica cieca? L'aveva visto il brufolo viola al centro dei miei occhi bassi?
Senza un vero motivo insistei a lungo con mamma per partecipare alla gita, ma non dissi niente a Giuseppe ne agli altri. Mia mamma, oltre ad avermi esonerato da religione e per un pelo anche da ginnastica, non era molto dell'idea di spendere i soldi necessari all'acquisto del biglietto del Museo, ma si vede che Dio, magari per convincerla della sua esistenza, le fece dire di si.
Il giorno della gita, mi disse di mettere i vestiti buoni, quelli da "tener da conto", con le ovvie raccomandazioni di non sporcarli. Mi preparò due panini e mi accompagnò a scuola.
Il grande pullman lucido sembrava dovesse portarci chissà dove, sebbene il Museo fosse in centro. Laura, era li che si guardava intorno con le labbra dipinte e quando mi vide mi abbracciò entusiasta col suo orrendo maglione verde acqua con le maniche a pipistrello e una gonna a quadri ne lunga ne corta. Le porte del pullman si chiusero e la maestra fece l'appello: D'Asdia? Presente.
Ero presente cazzo, c'ero anche io in quel viaggio, magari la mia grande occasione per essere come gli altri.
Passando tra le vie della città, palline di carta e strilli della mestra facevano da sottofondo alla nostra coppietta improbabile. Mi avevano detto che ci si fidanzava con una, mettendole sulle spalle un braccio, ma io a malapena respiravo, così fu lei a " fidanzarmi". Era così che succedeva?
In fila per due ordinati, ci fu detto di stare vicini di fronte al grande portone di legno del Museo di Scienze Naturali, che aperto su di noi, mostrava la sua voglia di ingoiarci tutti. Ci fu spiegato che avremo fatto un viaggio nel tempo e che avremo visto cose straordinarie e misteriose, e che le creature dietro ai vetri, per quanto realistiche, non potevano nuocerci in alcun modo. Eccitante! Laura era elettrizzata a tal punto che mi prese la mano. Sperai che non rimanesse incinta, anche se i giornaletti porno avevano indebolito quella mia convinzione, ma sfortunato com'ero poteva anche succedere che i giornaletti si sbagliassero.
Le sale del Museo puzzavano di spirito, come chiamava l'alcool mia nonna, e scheletri di dinosauri fingevano di minacciarci retti da stampelle di ferro. Non gliene fregava a nessuno di quelle cose, nessuno tranne me, che mi sentii di poter trovare li che ne so, lo scheletro di un " frocio" preistorico!
Laura se ne stava vicino a me con la sua mano sudaticcia sempre ben stretta nella mia, ma talmente che io mi ero già infastidito...ma ormai mi aveva fidanzato, che potevo farci? Le diedi anche uno dei miei due panini, tanto per suggellare il momento. Mangiammo.
Dopo piante, scheletri, uccelli e pesci, giungemmo in una delle stanze più cupe del museo: sul pesante cornicione di legno c'era una targhetta che diceva: Rettili e mammiferi
In lunghi vasi di vetro lucertole e serpenti se ne stavano immobili e sospesi in un liquido talvolta giallo talvolta rosa e facevano abbastanza schifo, non come il pipistrello che avevo colpito con la racchetta, ma quasi. In quel momento di discreto rabbrividire, Laura trovò invece il suo coraggio, e mi sospinse nel fondo di una delle anse tra una teca e l'altra.
"Non avrai mica paura?" dissi per farmi coraggio.
Si avvicinò moltissimo a me, e per confortarla l'abbracciai, poi le sue labbra mi furono talmente vicine da gettarmi nel panico, perché in quella posizione il suo naso era davvero impossibile da ignorare! Dopo una morbida pressione delle sue sulle mie fui io a irrigidirmi, ma non dove mi aspettavo di farlo.
Si faceva largo una cosa bagnata che sembrava volesse scivolarmi in gola. Ma vuoi vedere che mi sono fatto fidanzare da un rettile, le avevo viste le lingue dei serpenti e se mi morde e c'ha il veleno? Forse vuole uccidermi o mangiarmi, ma che schifo!
Tra l'altro, respirare è un casino, se ti baci in apnea con una col naso grosso che ti ottura una narice! Poi accadde. Di nuovo. Un bello spintone per riprendere fiato.
Al ritorno, si andò a sedere in fondo con le ragazze,col maglione sporco, piangente a dirotto per colpa mia, una seconda volta. Non eravamo più fidanzati suppongo. Parlando con un compagno che mi chiedeva cosa fosse successo ebbi solo la forza di fargli una domanda.
" tu sai se due fidanzati si fanno robe con la lingua?" - " certo, si limonano se lui non è ricchione" mi rispose, poi aggiunse " te la sei limonata?"
" Forse" - " ma allora è una che ci sta! Fico, domani ci provo anche io, tanto mi sa che a te non ti vuole più".
Io, la bocca l'avevo aperta ma la lingua non sapevo dove metterla, e nel casino le avevo vomitato addosso il panino, perché lo sguardo mi si era posato su un flacone che conteneva un bambino o qualcosa di simile, o solo sui suoi occhi aperti e voraci.
Rieccomi qui, su un sedile, inchiodato e senza più nessuno con cui scoprire qualcosa. Avrei voluto morire e diventare il primo scheletro di "ricchione" della Scuola media, almeno nel futuro, semai qualcun'altro come me, fosse andato al museo, avrebbe visto che ero fatto come lui. Una sala magnifica piena di stelle con solo il mio scheletro al centro, piegato in due come l'uomo di Neanderthal, ma per altro motivo. Una targa dorata avrebbe portato inciso: Homus vomitus frocius non erectus.
Nei giorni seguenti fu un trionfo di sfottò come mai prima. Presi una nota sul registro per essermi appartato con lei, come se a volerlo fossi stato io, perché dopo il mio vomito, ci beccarono i prof, mia madre però pareva più disponibile da quando aveva saputo che ero con lei. Canticchiò per una settimana, fino a quando le dissi, come credevo volesse, che non l'avrei fatto mai più!
Laura aveva raccontato a tutti della mia figuraccia e di come era stata rifiutata? O il mio sguardo, da quel giorno, annunciava a tutti che le femmine non mi piacevano come piacevano a tutti? Io a chi potevo raccontare come mi ero sentito? Che non era stata lei a farmi schifo, o il feto nel barattolo, quanto la menzogna di quel bacio che mi dava per sentirsi anche lei normale, la precisa sensazione di servirle per rendersi più appetibile agli altri, perché con me era più facile. La crudeltà con cui lei si pigliava il suo futuro con la lingua, lasciandomi nel mio stesso vomito senza una risposta precisa. L'adolescenza e le sue pulsioni sono crudeli e avide come io non sarei mai riuscito ad essere.
Le ragazze crescevano il doppio di noi, e altrettanto cresceva la loro linguaccia!
Inviato da iPad
domenica 13 settembre 2015
La banda del 52 cap11: il patto
Solo in quel tempo della vita chiamato adolescenza, si aprono scenari misteriosi su chi siamo, e sulla relativa reazione degli altri a questo. Forse perché, una parte delle informazioni già accumulate circa noi stessi riguarda le caratteristiche che "dobbiamo" avere, e non quelle che, direttamente si collegheranno alla nostra unicità nel mondo.
I genitori ti dicono che sei bravo o meno, se sei bello o brutto, se sono fieri di te o no solo in base a ciò che si aspettano, ma sono in parte coscienti che è un blando tentativo di difesa contro la paura che la domanda "chi sono?" fa a loro, come a te.
Da bambino, ti affidi ai responsi che ti arrivano e seppur soffri se sono negativi o contraddittori, non hai altra scelta che crederci. Sai come ti vogliono. Come conviene che sia.
C'è uno stallo delle informazioni che avviene proprio nella pre-adolescenza, dove, le informazioni assodate non sono più sufficienti, ne adeguate e sembra che non ne arrivino di nuove. I genitori, anche loro, paiono rendersi conto di questo "vuoto" ma certamente molto dopo di te. un tempo dove per qualche stupida ragione smettono di toccarti, e cominciano a guardarti di sottecchi con sospetto.
La sete di risposta del giovane aumenta in modo inversamente proporzionale al margine di onestà consentito ai genitori per soddisfarla. Alcuni genitori infatti, finiscono per non farlo in tempo o affatto. Ma che potrebbero dire? Che cosa davvero sono in grado di scorgere nella nebbia di un giovane prima di lui? Solo ombre, come quelle che ti dicono che non esistano quando sei piccolo. Quelle che da grandi temono più dei loro piccoli figli. Ciò che tu vorresti sapere di te, di cosa ti stia succedendo, se sia "normale"o no, importa più a te che a loro, perché loro hanno dimenticato e fingono di ricordare, come fingono di sapere.
Per un po, il mio uomo di carta era bastato a darmi una idea "materiale" di ciò che era un uomo, ma finì anche lui per deludermi, per perdere di interesse, perché quegli uomini di carta hanno solo un cazzo per le mani e una faccia che sembra dirti che può bastare!
Non ho mai detto nulla, non volevo essere diverso,ma sentivo come a fare la differenza non era la mia pelle e le sue sensazioni ma alcuni sentimenti, che non sapevo abbinare tra loro. A volte ero pieno di tristezza anche se la verifica era andata bene o troppo euforico, in momenti in cui non sembrava esserci spazio, ma di tutti i sentimenti, uno era davvero difficile da amministrare: l'angoscia di essere unico, di non sapere se da qualche parte qualcuno era sopravvissuto dopo averla provata. Si localizzava nel petto poco prima della gola oppure era capace di avvamparmi le cosce come di somigliare alla vertigine. La sensazione che mi separasse dagli altri era netta. Talvolta mi impediva di muovermi.
Ma come potevo, anche con la massima fiducia, andare da mia madre e dirle cosa provavo? Lei, che sembrava dirmi con ogni suo gesto "non potrei sopportare oltre", lei, che ritraeva quasi subito la mano quando trovavo il coraggio di prendergliela sul tavolo, dicendomi: non c'ho testa. Eppure da bambino mi schiacciava dolcemente l'unghia del pollice come una cocccola.
O mio padre, che era capace di non parlarmi per un giorno intero se la sera prima, dimenticavo di dargli la buona notte con un bacio sulla guancia, ma che sapevo che mi riteneva fatto male, perché da me voleva solo gratitudine ma non mi insegnava a fare niente.
Dovevo restare bambino, con la mia gambetta malandata, le guanciotte e gli occhi lucidi fissi su di lei, col desiderio delle braccia di lui che mi sollevano, capace di accontentarmi di poco. Invece sono cresciuto e devo avere un aspetto orribile coi miei peli di troppo, il sudore, i brufoli e quel coso in mezzo alle gambe che mi ossessiona ma che sembra funzionare solo quando mi accarezzo da solo. Quando ripetendomi che sarò magro, sembro l'unico capace di amore per quel corpo disgraziato.
No, lo sapevo io e lo sapevano anche loro, eravamo sotto lo stesso tetto ma per forza. Nessuno escluso. Lo sapevo di più ancora quando entravo in camera loro, di quelli che sanno tutto, che hanno già deciso se gli vai a genio o no. Una camera ordinata e senza odore, dove le collane di mamma sono carine, mai usate, eppure tutte li nel ciotolino. Come me, anche loro si erano sforzate inutilmente di piacergli, ottenendo solo di poter rimanerle intorno. Di mio padre niente, l'ordine maniacale di una donna ne cancellava ogni traccia ad eccezione di una cravatta amaranto poggiata sulla sedia a dondolo per non sgualcirsi: la cravatta di un ferroviere che fa il suo dovere.
Nei pomeriggi d'inverno sul comodo divano di velluto a casa di Giuseppe, avrei voluto chiedergli se succedeva anche a lui, ma quante volte vi ho già detto che sorrideva? Sorrideva ai suoi peli che invece di portargli disagio, sembravano adornarlo perfettamente, sorrideva alle mie frasi, e qualche volta, nella scompostezza della libertà di un divano e di una età indefinita, sorrideva anche appoggiato a me, per poi spostarsi senza disagio solo per accomodarsi meglio. Sorrideva senza il disgusto con cui sorridevano gli adulti, anche quando, prendevo una sua ciocca di capelli fino a tenderla per poi mollarla e vederla rituffarsi nel mare gioioso dei suoi riccioli.
Era un pomeriggio perfetto quello in cui la mia vicina salì le scale come invasata. Vestita di grigio, era talmente magra che pareva impossibile che fosse tanto svelta. Il campanello suonò e mia madre dopo due parole, uscì sul pianerottolo con lei, accostando la porta in modo che non fossero udibili: morta impiccata. E' incredibile come l'idea protezione degli adulti sia direttamente collegata al loro crederci stupidi, ma io le avevo sentite quelle due parole, eccome se le avevo sentite.
In breve tempo rumori di altre serrature e di ciabatte sulle scale, testimoniarono la gravità di un fatto che andava oltre l'abitudine di farsi i fatti propri. Per un istante ebbi timore che qualcuno avesse trovato l'orribile risposta alla mia domanda, che sciocco. Solo uno sciocco ragazzo poteva augurarsi di essere lui al centro della loro attenzione solo per non affrontare il peso della parola morte.
Ci ero andato ai funerali, quello del nonno per esempio, ma ero piccolo e ricordavo solo di stare zitto e avvinghiato ad un braccio senza poter chiedere niente. Avevo visto morire i gattini d'inverno o sotto una macchina, la loro madre ma nonostante avessi pianto per l'inanimata fragilità di quelle creature non comprendevo come questo mi riguardasse.
Nel caos della notizia io e gli altri della banda, sgattaiolammo dalle porte di casa e ci riunimmo di fronte alle cantine nel sottoscala, dato che, l'atrio era già pieno di adulti nei loro abiti da casa. Che avete capito voi? chiesi.
Alessandro disse che sua madre, era svenuta in casa non appena aveva visto dal balcone tutte quelle persone dirigersi verso l'imbocco della pineta, e che perciò non poteva trattarsi di un animale. Giuseppe, visibilmente spaventato aveva smesso di sorridere e aveva gli occhi lucidi quando Alex, disse che sua madre aveva saputo di una ragazza grande trovata morta in pineta.
Ma morta come? Era caduta? E' scivolosa la pineta, lo sapevamo noi. Inutile chiedere ai genitori, per tutti la risposta fu: vai a giocare di là. Vai a giocare? E a cosa, al morto in pineta?
Come potevano anche solo pensare che ne avessimo la capacità? Che fossimo così vuoti da non sapere che quella ragazza, era inanimata come un gattino proprio nella nostra pineta? Da non sapere che una madre stava cercando di rianimarla o di fare qualcosa, proprio come le gatte facevano coi loro piccini assiderati? Ci guardammo come consapevoli di un orrore senza nome, un orrore che mi parve persino peggiore del mio. Gli adulti erano le regole, la menzogna, noi la verità.
Così da altri come noi riuscimmo a sapere che la ragazza, era la sorella grande di una bambina che vedevamo ai Tre Pini di tanto in tanto, a sapere che uno dei vecchi che si recavano agli orti abusivi l'aveva vista penzolare da un albero: morta impiccata.
Una drogata, un cane randagio dei pastori, una matta, una ribelle. Nei giorni seguenti, la ragazza morta divenne tutto ciò di bocca in bocca, come se ognuno potesse scegliere come disprezzarla invece di portarle un fiore, come se bastasse dichiararla diversa da loro per sentirsi meglio. Mia madre stessa, disse solo che quella era la fine che facevano i ragazzi che non danno retta ai genitori. Altri dissero che sarebbe andata all'inferno senza tanti complimenti.
Quella notte il buio fu più difficile da accogliere. provai a trattenere il respiro fino a che potevo per cercare di capire cosa avesse provato soffocando ma la mia bocca si spalancò come i polmoni, e maledicendo quel modo i adulti insieme all'aria qualcos'altro salì dal mio profondo. Il giorno seguente guardai i miei amici negli occhi come non avevo mai fatto prima. Non dissi niente, ma fissai le iridi azzurre di Alessandro, quelle dorate di Giuseppe e quelle nere di Alex, e ci vidi la mia stessa decisione. Andammo esattamente sotto l'albero maledetto, raccogliemmo qualche fiore spontaneo e Io tirai fuori un nastro che avevo preso dal cassetto delle carte regalo in dispensa. Alla bene e meglio, formai un mazzetto acconcio e lo deposi li sotto, sulla terra ancora smossa dagli inutili soccorsi. Dovremmo dire una preghiera? chiese Alex che andava a catechismo. No facciamo un patto, proposi io. Che genere di patto? chiese Alessandro.
Promettiamo di non diventare come loro, falsi come i nostri, dissi io. Promettiamo che se qualcuno di noi avesse un segreto che gli fa male potrà tenerlo per se fino a che può, ma se proprio non ce la fa più, allora venga qui a scriverlo col suo nome e sotterrarlo, tanto per un bel pò qui non ci verrà più nessuno a curiosare. Ogni mese futuro, verremo qui e se ci saranno i foglietti ognuno deciderà se dirlo o no, se ancora valido o meno. Se non ce li troviamo allora uno di noi avrà tradito la banda. Comincio io e ci lascio il mio fino al mese prossimo. Finimmo abbracciandoci e dai loro abbracci fui sollevato più che da ogni parola. non mi chiesero quale fosse il mio segreto ed ebbi la netta sensazione che non ce ne fosse bisogno.
Al funerale ci andarono tutti, ma ogni volta che la signora prendeva l'autobus tutti la evitavano, dicevano per rispetto del suo dolore. Mi chiesi se anche quella ragazza era stata lasciata talmente in pace da andarsela a cercare per sempre.
C'era fuori dalla chiesa, uno di quegli odiosi marmocchi del 50 A, uno che senza un perché ce l'aveva con me.
" Frocio" mi disse sibilando mentre mi passava a fianco. Ora avevo avuto la mia risposta, e anche se lo sapevo cos'era un "frocio" non mi piaceva quella parola su di me. Rimasi immobile sperando che nessuno lo avesse sentito o impaurito di voltarmi e vederli allontanarsi da me, , ma i miei amici mi avevano già superato e Giuseppe cominciò a spingerlo dicendogli: a chi hai detto frocio? A lui, disse indicandomi e aggiunse: e a te che cazzo te ne frega?
Sorrideva sempre Giuseppe, ma non quel giorno, quel giorno c'era poco da ridere e non solo perché nella bara che aspettavamo c'era una ragazza, ma anche perché era il giorno dopo il nostro patto. Lo gonfiarono di botte sebbene io cercai di calmarli. "Ora finirete nei casini appena torna a casa quello lì". Nessuno deve dirti quella cosa, fu la risposta e basta.
Non avevo l'età per spiegare a loro e a me la non violenza, o la differenza tra alzar le mani e rispondere ma fui solo felice. Mi augurai che ci fosse una altra parola per definire ciò che ero, che non fosse quella, mentre tornavamo a casa, ma più tardi, sotto quell'albero, solo e accovacciato a riflettere, mi parve di vederla sorridere, quella ragazza. con un foglio tra le mani.
Inviato da iPad
I genitori ti dicono che sei bravo o meno, se sei bello o brutto, se sono fieri di te o no solo in base a ciò che si aspettano, ma sono in parte coscienti che è un blando tentativo di difesa contro la paura che la domanda "chi sono?" fa a loro, come a te.
Da bambino, ti affidi ai responsi che ti arrivano e seppur soffri se sono negativi o contraddittori, non hai altra scelta che crederci. Sai come ti vogliono. Come conviene che sia.
C'è uno stallo delle informazioni che avviene proprio nella pre-adolescenza, dove, le informazioni assodate non sono più sufficienti, ne adeguate e sembra che non ne arrivino di nuove. I genitori, anche loro, paiono rendersi conto di questo "vuoto" ma certamente molto dopo di te. un tempo dove per qualche stupida ragione smettono di toccarti, e cominciano a guardarti di sottecchi con sospetto.
La sete di risposta del giovane aumenta in modo inversamente proporzionale al margine di onestà consentito ai genitori per soddisfarla. Alcuni genitori infatti, finiscono per non farlo in tempo o affatto. Ma che potrebbero dire? Che cosa davvero sono in grado di scorgere nella nebbia di un giovane prima di lui? Solo ombre, come quelle che ti dicono che non esistano quando sei piccolo. Quelle che da grandi temono più dei loro piccoli figli. Ciò che tu vorresti sapere di te, di cosa ti stia succedendo, se sia "normale"o no, importa più a te che a loro, perché loro hanno dimenticato e fingono di ricordare, come fingono di sapere.
Per un po, il mio uomo di carta era bastato a darmi una idea "materiale" di ciò che era un uomo, ma finì anche lui per deludermi, per perdere di interesse, perché quegli uomini di carta hanno solo un cazzo per le mani e una faccia che sembra dirti che può bastare!
Non ho mai detto nulla, non volevo essere diverso,ma sentivo come a fare la differenza non era la mia pelle e le sue sensazioni ma alcuni sentimenti, che non sapevo abbinare tra loro. A volte ero pieno di tristezza anche se la verifica era andata bene o troppo euforico, in momenti in cui non sembrava esserci spazio, ma di tutti i sentimenti, uno era davvero difficile da amministrare: l'angoscia di essere unico, di non sapere se da qualche parte qualcuno era sopravvissuto dopo averla provata. Si localizzava nel petto poco prima della gola oppure era capace di avvamparmi le cosce come di somigliare alla vertigine. La sensazione che mi separasse dagli altri era netta. Talvolta mi impediva di muovermi.
Ma come potevo, anche con la massima fiducia, andare da mia madre e dirle cosa provavo? Lei, che sembrava dirmi con ogni suo gesto "non potrei sopportare oltre", lei, che ritraeva quasi subito la mano quando trovavo il coraggio di prendergliela sul tavolo, dicendomi: non c'ho testa. Eppure da bambino mi schiacciava dolcemente l'unghia del pollice come una cocccola.
O mio padre, che era capace di non parlarmi per un giorno intero se la sera prima, dimenticavo di dargli la buona notte con un bacio sulla guancia, ma che sapevo che mi riteneva fatto male, perché da me voleva solo gratitudine ma non mi insegnava a fare niente.
Dovevo restare bambino, con la mia gambetta malandata, le guanciotte e gli occhi lucidi fissi su di lei, col desiderio delle braccia di lui che mi sollevano, capace di accontentarmi di poco. Invece sono cresciuto e devo avere un aspetto orribile coi miei peli di troppo, il sudore, i brufoli e quel coso in mezzo alle gambe che mi ossessiona ma che sembra funzionare solo quando mi accarezzo da solo. Quando ripetendomi che sarò magro, sembro l'unico capace di amore per quel corpo disgraziato.
No, lo sapevo io e lo sapevano anche loro, eravamo sotto lo stesso tetto ma per forza. Nessuno escluso. Lo sapevo di più ancora quando entravo in camera loro, di quelli che sanno tutto, che hanno già deciso se gli vai a genio o no. Una camera ordinata e senza odore, dove le collane di mamma sono carine, mai usate, eppure tutte li nel ciotolino. Come me, anche loro si erano sforzate inutilmente di piacergli, ottenendo solo di poter rimanerle intorno. Di mio padre niente, l'ordine maniacale di una donna ne cancellava ogni traccia ad eccezione di una cravatta amaranto poggiata sulla sedia a dondolo per non sgualcirsi: la cravatta di un ferroviere che fa il suo dovere.
Nei pomeriggi d'inverno sul comodo divano di velluto a casa di Giuseppe, avrei voluto chiedergli se succedeva anche a lui, ma quante volte vi ho già detto che sorrideva? Sorrideva ai suoi peli che invece di portargli disagio, sembravano adornarlo perfettamente, sorrideva alle mie frasi, e qualche volta, nella scompostezza della libertà di un divano e di una età indefinita, sorrideva anche appoggiato a me, per poi spostarsi senza disagio solo per accomodarsi meglio. Sorrideva senza il disgusto con cui sorridevano gli adulti, anche quando, prendevo una sua ciocca di capelli fino a tenderla per poi mollarla e vederla rituffarsi nel mare gioioso dei suoi riccioli.
Era un pomeriggio perfetto quello in cui la mia vicina salì le scale come invasata. Vestita di grigio, era talmente magra che pareva impossibile che fosse tanto svelta. Il campanello suonò e mia madre dopo due parole, uscì sul pianerottolo con lei, accostando la porta in modo che non fossero udibili: morta impiccata. E' incredibile come l'idea protezione degli adulti sia direttamente collegata al loro crederci stupidi, ma io le avevo sentite quelle due parole, eccome se le avevo sentite.
In breve tempo rumori di altre serrature e di ciabatte sulle scale, testimoniarono la gravità di un fatto che andava oltre l'abitudine di farsi i fatti propri. Per un istante ebbi timore che qualcuno avesse trovato l'orribile risposta alla mia domanda, che sciocco. Solo uno sciocco ragazzo poteva augurarsi di essere lui al centro della loro attenzione solo per non affrontare il peso della parola morte.
Ci ero andato ai funerali, quello del nonno per esempio, ma ero piccolo e ricordavo solo di stare zitto e avvinghiato ad un braccio senza poter chiedere niente. Avevo visto morire i gattini d'inverno o sotto una macchina, la loro madre ma nonostante avessi pianto per l'inanimata fragilità di quelle creature non comprendevo come questo mi riguardasse.
Nel caos della notizia io e gli altri della banda, sgattaiolammo dalle porte di casa e ci riunimmo di fronte alle cantine nel sottoscala, dato che, l'atrio era già pieno di adulti nei loro abiti da casa. Che avete capito voi? chiesi.
Alessandro disse che sua madre, era svenuta in casa non appena aveva visto dal balcone tutte quelle persone dirigersi verso l'imbocco della pineta, e che perciò non poteva trattarsi di un animale. Giuseppe, visibilmente spaventato aveva smesso di sorridere e aveva gli occhi lucidi quando Alex, disse che sua madre aveva saputo di una ragazza grande trovata morta in pineta.
Ma morta come? Era caduta? E' scivolosa la pineta, lo sapevamo noi. Inutile chiedere ai genitori, per tutti la risposta fu: vai a giocare di là. Vai a giocare? E a cosa, al morto in pineta?
Come potevano anche solo pensare che ne avessimo la capacità? Che fossimo così vuoti da non sapere che quella ragazza, era inanimata come un gattino proprio nella nostra pineta? Da non sapere che una madre stava cercando di rianimarla o di fare qualcosa, proprio come le gatte facevano coi loro piccini assiderati? Ci guardammo come consapevoli di un orrore senza nome, un orrore che mi parve persino peggiore del mio. Gli adulti erano le regole, la menzogna, noi la verità.
Così da altri come noi riuscimmo a sapere che la ragazza, era la sorella grande di una bambina che vedevamo ai Tre Pini di tanto in tanto, a sapere che uno dei vecchi che si recavano agli orti abusivi l'aveva vista penzolare da un albero: morta impiccata.
Una drogata, un cane randagio dei pastori, una matta, una ribelle. Nei giorni seguenti, la ragazza morta divenne tutto ciò di bocca in bocca, come se ognuno potesse scegliere come disprezzarla invece di portarle un fiore, come se bastasse dichiararla diversa da loro per sentirsi meglio. Mia madre stessa, disse solo che quella era la fine che facevano i ragazzi che non danno retta ai genitori. Altri dissero che sarebbe andata all'inferno senza tanti complimenti.
Quella notte il buio fu più difficile da accogliere. provai a trattenere il respiro fino a che potevo per cercare di capire cosa avesse provato soffocando ma la mia bocca si spalancò come i polmoni, e maledicendo quel modo i adulti insieme all'aria qualcos'altro salì dal mio profondo. Il giorno seguente guardai i miei amici negli occhi come non avevo mai fatto prima. Non dissi niente, ma fissai le iridi azzurre di Alessandro, quelle dorate di Giuseppe e quelle nere di Alex, e ci vidi la mia stessa decisione. Andammo esattamente sotto l'albero maledetto, raccogliemmo qualche fiore spontaneo e Io tirai fuori un nastro che avevo preso dal cassetto delle carte regalo in dispensa. Alla bene e meglio, formai un mazzetto acconcio e lo deposi li sotto, sulla terra ancora smossa dagli inutili soccorsi. Dovremmo dire una preghiera? chiese Alex che andava a catechismo. No facciamo un patto, proposi io. Che genere di patto? chiese Alessandro.
Promettiamo di non diventare come loro, falsi come i nostri, dissi io. Promettiamo che se qualcuno di noi avesse un segreto che gli fa male potrà tenerlo per se fino a che può, ma se proprio non ce la fa più, allora venga qui a scriverlo col suo nome e sotterrarlo, tanto per un bel pò qui non ci verrà più nessuno a curiosare. Ogni mese futuro, verremo qui e se ci saranno i foglietti ognuno deciderà se dirlo o no, se ancora valido o meno. Se non ce li troviamo allora uno di noi avrà tradito la banda. Comincio io e ci lascio il mio fino al mese prossimo. Finimmo abbracciandoci e dai loro abbracci fui sollevato più che da ogni parola. non mi chiesero quale fosse il mio segreto ed ebbi la netta sensazione che non ce ne fosse bisogno.
Al funerale ci andarono tutti, ma ogni volta che la signora prendeva l'autobus tutti la evitavano, dicevano per rispetto del suo dolore. Mi chiesi se anche quella ragazza era stata lasciata talmente in pace da andarsela a cercare per sempre.
C'era fuori dalla chiesa, uno di quegli odiosi marmocchi del 50 A, uno che senza un perché ce l'aveva con me.
" Frocio" mi disse sibilando mentre mi passava a fianco. Ora avevo avuto la mia risposta, e anche se lo sapevo cos'era un "frocio" non mi piaceva quella parola su di me. Rimasi immobile sperando che nessuno lo avesse sentito o impaurito di voltarmi e vederli allontanarsi da me, , ma i miei amici mi avevano già superato e Giuseppe cominciò a spingerlo dicendogli: a chi hai detto frocio? A lui, disse indicandomi e aggiunse: e a te che cazzo te ne frega?
Sorrideva sempre Giuseppe, ma non quel giorno, quel giorno c'era poco da ridere e non solo perché nella bara che aspettavamo c'era una ragazza, ma anche perché era il giorno dopo il nostro patto. Lo gonfiarono di botte sebbene io cercai di calmarli. "Ora finirete nei casini appena torna a casa quello lì". Nessuno deve dirti quella cosa, fu la risposta e basta.
Non avevo l'età per spiegare a loro e a me la non violenza, o la differenza tra alzar le mani e rispondere ma fui solo felice. Mi augurai che ci fosse una altra parola per definire ciò che ero, che non fosse quella, mentre tornavamo a casa, ma più tardi, sotto quell'albero, solo e accovacciato a riflettere, mi parve di vederla sorridere, quella ragazza. con un foglio tra le mani.
Inviato da iPad
venerdì 11 settembre 2015
La banda del 52 CAP 10: la Spuma
Era chiaro a tutti. Ci scrutavamo fingendoci distratti per scorgere nell'altro i segni del cambiamento. I vestiti erano uguali ma non calzavano più come prima e nei movimenti o nelle voci, facevano a turno capolino, toni gravi e goffaggine. Un brufolo viola ci condannava ad ammetterlo: eravamo adolescenti.
Giuseppe non era cresciuto in altezza come me Alessandro e Alex, a lui, era aumentata la peluria, talmente tanto che, come i suoi capelli, i peli si erano arricciati. Un meraviglioso orsacchiotto sorridente. Il nostro Perseo Ale invece mostrava nel comportamento la sua trasformazione, perché biondino com'era, i peli se ce li aveva non si notavano. Era diventato più imbronciato e pensieroso mentre Alex, stava perdendo le sue tettine di bambino grasso, asciugate dalla premura di essere uomo, come il vento di scirocco asciuga la terra.
I giochi e le corse avevano cominciato a trasformarsi in lotte manesche e scherzose in cui, nel tentativo di schienare l'avversario, ci si smanacciava un bel po'.
In quanto a me, i miei cambiamenti ad eccezione di un vistoso Pomo di Adamo, si chiamavano dubbi, ed erano tutti nella mia testa.
Non è che mi sentissi Eva, per carità, ma mi chiedevo se essere Adamo fosse proprio il mio destino, d'altra parte, per quel che ne sapevo nel giardino di Eden non c'era molta scelta e anche io mi sentivo incalzato. La sensazione continua di un pomo in gola, ma di traverso!
Col fatto che negli anni precedenti il mio deficit fisico, la mia gambetta "gigia" come si dice a Genova di una gamba difettosa, non mi aveva precluso di far parte della banda, pensai che forse il disagio che sentivo fosse solo mio, che magari non si vedesse.
Le lotte con me, erano molto gratificanti per loro, perché non costituivo una minaccia al loro bisogno virile di vincermi. A perdere ci ero abituato: persino a pari e dispari non vincevo mai.
Nel groviglio greco-romano che assumevano questi confronti fisici, potevi trovarti in bocca un ginocchio o un gomito o cercare con le mani un appiglio per ribaltare la situazione, che somigliava un po a dove prendo prendo. Questa deroga al pudore, che come adolescenti potevamo forzare solo con la lotta, al principio mi imbarazzo' moltissimo, ma anche era stranamente piacevole trovarsi lì.
In verità solo con uno di loro, lo era. Gli altri, quando perdevano costretti sulla schiena e immobilizzati dal peso del "nemico", dipingevano la frustrazione con smorfie rabbiose nel viso, specie Marcolino, che addirittura schiumava, non mi era chiaro perché invece io, sentissi di dovermi arrendere con tutto me stesso, senza fare troppe storie. Delle volte, le nostre labbra erano talmente vicino, che arrossivo ma non per lo sforzo. Nella lotta con me Giuseppe continuava a ridere e io a sentire le mele verdi nello stomaco.
Forse Adamo avrà anche avuto Eva ma di certo una soddisfazione così lei non gliela avrebbe mai potuta dare perché come succedeva alle femmine, si sarebbe messa a piangere come una fontana.
Non potevamo continuare a pestarci come il sale, per cui un pomeriggio decidemmo di avventurarci ai limiti estremi del nostro mondo di ragazzi. Sapevamo dai grandi che, proprio al principio della nostra via tortuosa, c'era un circolo sportivo e che il bar al suo interno si diceva essere malfamato. I genitori infatti, il gelato c'è lo compravano in latteria dalla zozzona.
Ormai eravamo uomini, e dovevamo dimostrarlo!
La tranquillità pomeridiana in un condominio come il 52 di gente che faceva le notti, era una condizione talmente auspicabile che le persone erano vigili solo se infastidite. Ottima copertura per noi.
Si ma quanto potevamo metterci ad andare e tornare?
Con le scalette di scorciatoia tutto sommato non ci sarebbe voluto molto, ma occorreva evitare che qualcuno ci riconoscesse e facesse la spia. La Marisa ad esempio, la cartolaia impicciona e laccata come le annunciatrici TV avrà venduto due quaderni al giorno e se ne stava fuori dal suo negozio a farsi i fatti degli altri. Purtroppo l'ultima scaletta era troppo a ridosso del negozio perché non ci vedesse. Bisognava inventarsi qualcosa.
I miei amici le scalette non le avevano mai fatte tutte mentre io, con mia mamma si. La Maria Luisa non brillava su niente ma dio che stambecco che era!!! Di ritorno dalle commissioni me la faceva fare tutta fin da piccolo. Le avevano detto che le scale mi facevano bene al tendine d'Achille che mi avevano allungato a 8 anni.
" Non ci vuole più di tre quarti d'ora tra andare e venire ma solo se il cancello del 48 non è chiuso sennò bisogna fare la curva a piedi" sentenziai da esperto!
" ma se ci sono i drogati?" disse Alex.
I drogati non erano persone per noi, erano solo "i drogati". Erano gli anni della eroina che noi sapevamo solo che ti faceva venire le croste mica sapevamo cosa fosse. Chi si drogava si nascondeva per farlo e nelle scalette non era difficile trovare le siringhe con cui si iniettavano la droga, specie l'ultima che era talmente lunga e ripida che di solito non la saliva nessuno, tranne io la mamma e Achille, il mio mezzo tendine.
Scendemmo giù fino ai Tre Pini, e coperti dal catafalco dell'autobus passammo non visti verso il 48 e il suo cancello. Non ci è dato sapere chi chiudesse il cancello che per altro non delimitava alcuna zona privata ma di tanto in tanto lo trovavi chiuso. Mia madre non scavalcava ma noi si. Uno ad uno gli atleti della banda scavalcarono tranne me che secco com'ero e anche più furbo, mi feci strada tra il malandato cardine e il muro e con questo aumentai il mio prestigio!
Ora potevamo vedere la Marisa con la sua parruccona bionda di vedetta. Che si fa? Ci avrà già visto? Secondo noi, lei la cartoleria, l'aveva aperta perché non era riuscita a fare l'insegnante, che ogni volta che compravi i protocolli per i compiti in classe ti faceva pure la ramanzina sulla scuola per cinquanta lire di foglio.
Aspettare una cliente che la impegnasse era fuori discorso, era talmente cara che lavorava solo per le liste dei libri all'inizio dell'anno quindi ci venne in mente che la sua Fiat cinquecento se la scontravi suonava come la sirena di una fabbrica. Si vantava la Marisa che a lei "i drogati" mica glie l'avrebbero rubata la macchina, perché lei aveva l'antifurto. Brava Marisa!!!
Giuseppe che era più toro spinse il cofano e la sirena non si fece attendere. Uaoooooo
La Marisa scatto' come un gatto, chiusa la porta della cartoleria, corse sul piazzale che sovrastava il negozio urlando al ladro, mentre noi guadagnammo la scaletta proprio a fianco a lei. C'erano dei ragazzi disse qualcuno, mentre la banda scendeva veloce.
Il circolino stava al fondo alla discesa del meccanico e da fuori non ci vedevi dentro dal fumo di sigaretta. Ci aggiustammo alla bene meglio fingendo la sicurezza dei bulli di quartiere, se non che io inciampai sulla soglia e un gridolino fesso mi rovino' la sceneggiata. Alcune facce della mala le avevo viste da noi, con le moto e le magliette da metallari. Appoggiati al bancone sembravano pericolosissimi e affascinanti.
Dalla sala adiacente i vecchi bestemmiavano sui tavoli delle carte urlando incomprensibili punteggi e chiamandone " un altro". Odor di vino sigarette e peccato! C'erano pure le ragazze poco di buono, come le diceva la mamma, che le capivi perché erano bionde ossigenate e con le croci al collo.
"Cosa vi do?" Disse il barista.
Ci prese un colpo, e chi ci aveva pensato a quella domanda? In quattro non avevamo più di qualche moneta...e nessuna idea di che cosa bevessero i veri uomini.
I vecchi catarrosi smisero di tossire, le poco di buono cominciarono a fissarci come si fissa una merda, i metallari erano lì lì per sfotterci quando Alex si fece avanti con la faccia di quello che risolve la battaglia, dicendo: prendiamo questo!!!
Il fragore di una risata ci indispettì fino a voltarci, ormai prossimi alla rissa verso il nostro amico. Teneva in mano un gelato. No, ma non dico un gelato qualsiasi, che comunque a quel punto sarebbe stata una zattera nella tempesta, lui, teneva in mano un enorme piede di gelato rosa!!!
Si chiamava Piedone ed era il gelato più da sfigati mai visto, che neanche la coppa del Nonno lo batteva. Il barista, divertito dalla nostra umiliazione, ci guardo stavolta con l'aria di un fratellone conciliante e verso' una bibita colorata di giallo fosforescente, nei bicchieri in cui i metallari bevevano altro, poi disse: una Bionda per i gringos, offro io!
La Bionda era una "spuma", così si chiamavano le bibite al bicchiere bevute al bar, al gusto cedrata. Buonissima.
Uscimmo tra l'affranto e il divertito ma anche dissetati e pure aggratis. Ma dov'erano i delinquenti di cui tutti parlavano? In ogni caso Alex si prese quattro calci in culo: era il primo che ho visto che dovevo fare, disse in sua difesa. "Forse dovevamo fumare e non ci avrebbero sgamato soggiunse il mio lottatore orsetto
" Giust'appunto, feci io, voi avete mai fumato? Io no. Una sera proviamo su nell'orto. Si va bene, ma ci conviene correre perché dobbiamo arrivare su in cinque minuti. Minchia ma non ce la facciamo, disse Ale.
Correte raga, arriva il 50 saliamo senza biglietto, ingiunsi io, siamo uomini ormai che ce ne frega!
martedì 8 settembre 2015
La banda del 52 CAP 9: innocenti evasioni.
Il mattino era trascorso e anche il pranzo odioso della domenica. La superclassifica che ascoltavo di solito a quell'ora non mi aveva appassionato come al solito con le sue canzoni, così in quel limbo tra la una e le tre, nel silenzio del dopopranzo sonnolento degli adulti, mi ero appartato col mio uomo di carta in bagno.
Quella volta non era l'eccitazione a governarmi ma la curiosità: mi chiedevo che forma avrei assunto in definitiva, se per esempio, sarei diventato grasso come mio zio Riccardo o se non sarei cresciuto in altezza come mio fratello, nel farlo mi misi in piedi sullo sgabello per potermi vedere nel misero specchio che sembrava non voler dar troppo spazio alla vanità. Tirando via la maglietta guardavo il mio torace di ragazzino e non vedevo segni di muscolo.
Le ossa del busto sembravano voler essere contate una ad una e la pelle, leggermente accapponata da un brivido, mi faceva sembrare un pollo spiumato ma io dovevo assolutamente trovare un segno che mi dicesse qualcosa del futuro o del presente. Gli occhi scorrevano la pelle pallida in cerca di un pelo, magari nero, anche uno ma solo sotto le ascelle, un alone grigio, ne testimoniava la futura presenza. Anche loro, come me, parevano indecisi ne lunghi ne corti se ne stavano li vili e puzzolenti a dirmi, fai schifo. Quelli come me nascevano con un corpo come questo? Chissà com'eri uomo di carta alla mia età?
Mi voltai sperando che alle mie spalle il corpo avesse un aspetto migliore, e in effetti c'era una curva quasi armoniosa nella mia schiena che scivolava fino a sparire tra le natiche sode e rotonde del mio culo acerbo. La mano che di solito serviva per pulirmi, quella mano sgarbata che mi avevano insegnato a infilare tra le chiappe piena di sapone per cancellare la vergogna dello "sporco", indugiò stavolta con garbo, come la risacca sulla battigia, per poi ritirarsi. Ero bello da dietro.
Mi guardai di nuovo stavolta più clemente, cercando di trattenere quella sensazione di piacevolezza sulla mano, come temessi di ripiombare nello schifo che avevo imparato facilmente a provare per me, e una frase uscì dalle mie labbra: io sarò sempre magro!
Non so perché dissi magro, forse la prima parola che riuscii a trovare, ma curiosamente persino oggi il mio corpo sembra aver risposto proprio a quel comando. Ancora oggi, lotta contro il tempo con le sue sole forze, per mantenere quella promessa. E ci riesce.
Forse non sarei mai stato come l'uomo di carta, ma cominciai a pensare che non importasse.
Non credo che i miei amici si ponessero queste questioni, perché non parlavamo mai dei nostri corpi, noi li usavamo per l'avventura come le nostre bici sgangherate: com'erano erano.
Il suono del citofono mi raggiunse che ero già felice, non potei che esserlo di più sentendo Giuseppe che diceva: Vieni giù? Come ogni giorno. Certo che ci vengo!
Ci sono giornate a Genova in cui il vento soffia dai monti e dal mare, come a ricordarle l'origine bifronte del suo nome. In quei giorni non c'è molto che puoi fare: i palloni non tengono la linea del calcio, le bici sbandano e la pineta ti schiaffeggia il volto con la terra, i gatti si nascondono, quindi la banda del 52 era solita trovare riparo nell'esterno del portone essendo sotto il livello della strada e cinto dai muri.
Erano le volte in cui Alex ci intratteneva con le sue imitazioni e quelle in cui ci si inventava di saltare i quattro gradini a piè pari con un balzo: l'ideale per correre ancora qualche rischio che non rendesse il pomeriggio troppo noioso. Ma il passatempo più interessante era quello di aspettare che uno dei ragazzi grandi passasse tra noi per uscire. Soprattutto di Domenica, erano soliti uscire con le ragazze e lo sapevamo perché, come mio fratello, uscivano tutti perfettini, col gel nei capelli tutti indietro come Fonzie, e il profumo che non deve chiedere mai.
Alessandro in particolare, proprio non resisteva e cominciava a seguirli chiedendo: mi fai accendere il motorino? Pieni di disprezzo per noi pidocchi, non ce n'era uno che dicesse di si ma anzi con la mano, ci facevano cenno di sparire, senza nemmeno parlarci, allora alessandro e Giuseppe cominciavano a canzonarli. Io non ero così audace, quelli grandi mi intimorivano troppo. Uno di questi in particolare era un tipo irascibile e Alessandro l'aveva preso di mira, provandoci gusto. "Tamarindo" continuava a ripetergli fino a che quello scattava ad inseguirlo per dargliele di santa ragione! Il tamarindo, che era una bibita in realtà era sinonimo di tamarro, ecco perché provocava quella reazione quasi certamente. I grandi avevano tutti la tendenza a menar le mani per nulla ma, Alessandro la lepre, non era facile da prendere e la sua grande soddisfazione era vederli rinunciare e, una volta sudati e scomposti, ritornare a casa a cambiarsi. Com'era divertente vedere anche mio fratello correre sulla punta dei piedi e non riuscire ad acciuffarlo. E' andato giù dalle scalette, gli dicevo, ma non era vero.
Pochi anni ci dividevano dall'essere come loro, ma ci dicevamo che non saremmo mai stati così scemi, e poi, mai e poi mai avremo fatto tutte quelle smancerie ad una femmina!
Ma cosa ne potevamo sapere noi di femmine? Di come invece, il rendersi conto del loro bisogno, avrebbe presto diviso le nostre strade, sciolto il sodalizio della nostra banda.
Finita l'azione molesta, tornavamo ai gradini in attesa del prossimo, a saltarli a piè pari.
Il 52 aveva una netta maggioranza maschile nella nostra fascia di età, per cui le femmine erano tutte più grandi e quelle nessuno osava salutarle, anche loro, uscivano vestite e profumate e civico per civico le vedevamo dalla ringhiera del piazzale, confluire tutte in un unico gruppo che si fermava al capolinea del 52. Sedute sul muretto fingevano di essere li per caso, solo per loro ma in pochi minuti, i motorini di tutti i maschi grandi si sarebbero prodotti in sgommate, cross e colpi di clacson per farsi notare!
Solo a sua sorella talvolta Alessandro faceva qualche dispetto, tipo alzargli la gonna, ma anche lei come sua madre gli urlava "Deficiente".
Perché secondo loro eravamo tutti così stupidi? Loro c'erano mai andati nell'intercapedine coi fiammiferi? O nella diga a prendere i palloni? Avevano mai preso in mano le tavole di legno col vischio nel quale un topo imbrattato si agitava per liberarsi? Erano riusciti a far scendere di sera il pipistrello che girava intorno al lampione, usando una pallina fosforescente, fino a colpirlo con la racchetta da tennis?
Nella nostra insensatezza, non c'era malvagità ma quella volta, a vedere il pipistrello morto io, una volta soddisfatta la curiosità di sapere come fosse fatto, mi sentii davvero male. Sembrava sorpreso anche lui di quel colpo, come se nessuno gli avesse mai detto che poteva succedergli, la piccola bocca aperta come gli occhi neri su quell'ultimo cielo notturno.
Che cazzo te ne frega di un topo che vola, sai quanti cene sono?- mi dissero ma poi lo seppellimmo tutti insieme sotto il salice, perché anche se non lo avrebbero mai ammesso, anche loro si erano resi conto di quanto la inanimata creatura facesse pena con quel buco nel petto! La noia, alla nostra età, poteva essere davvero fonte delle peggiori idee ma d'altronde i nostri ormoni, indecisi sul da farsi benché presenti,non ci potevano che cacciare nei guai.
Le ragazze e i grandi avevano fatto ritorno che eravamo ancora mesti e diffidando della nostra calma ci guardarono come noi avevamo guardato il pipistrello morto: con compassione e sospetto.
Le madri alle finestre ci chiamavano per la cena ognuna a suo modo, generalmente per nome, tranne la mia che mi chiamava con un fischio come si fa coi cani. Ciao Ale, ciao Giuse. Sulle scale odore di mangiare, e rumori di pesanti serrature.
Dopocena presi il libro di scienze, e scoprii che i pipistrelli non hanno bisogno della vista, che ci vedono in un altro modo e sono in grado per questo, di scorgere ostacoli da lontano, così come individuare le loro prede. Dalla finestra della sala intorno al lampione ne volavano altri e mi chiesi se non lo stessero cercando..dovevo fare qualcosa! Aprii la finestra appena appena. Buio.
Dì la preghiera prima di dormire! - si raccomandò mia madre.
"Signore, scusami per aver ucciso un pipistrello, per aver spaccato la lampadina del lampione con la fionda così i suoi amici cambiano posto e per essermi toccato il culo stamattina. Solo una domanda: ma sei sicuro che la vista non gli serve?
Buonanotte.
Quella volta non era l'eccitazione a governarmi ma la curiosità: mi chiedevo che forma avrei assunto in definitiva, se per esempio, sarei diventato grasso come mio zio Riccardo o se non sarei cresciuto in altezza come mio fratello, nel farlo mi misi in piedi sullo sgabello per potermi vedere nel misero specchio che sembrava non voler dar troppo spazio alla vanità. Tirando via la maglietta guardavo il mio torace di ragazzino e non vedevo segni di muscolo.
Le ossa del busto sembravano voler essere contate una ad una e la pelle, leggermente accapponata da un brivido, mi faceva sembrare un pollo spiumato ma io dovevo assolutamente trovare un segno che mi dicesse qualcosa del futuro o del presente. Gli occhi scorrevano la pelle pallida in cerca di un pelo, magari nero, anche uno ma solo sotto le ascelle, un alone grigio, ne testimoniava la futura presenza. Anche loro, come me, parevano indecisi ne lunghi ne corti se ne stavano li vili e puzzolenti a dirmi, fai schifo. Quelli come me nascevano con un corpo come questo? Chissà com'eri uomo di carta alla mia età?
Mi voltai sperando che alle mie spalle il corpo avesse un aspetto migliore, e in effetti c'era una curva quasi armoniosa nella mia schiena che scivolava fino a sparire tra le natiche sode e rotonde del mio culo acerbo. La mano che di solito serviva per pulirmi, quella mano sgarbata che mi avevano insegnato a infilare tra le chiappe piena di sapone per cancellare la vergogna dello "sporco", indugiò stavolta con garbo, come la risacca sulla battigia, per poi ritirarsi. Ero bello da dietro.
Mi guardai di nuovo stavolta più clemente, cercando di trattenere quella sensazione di piacevolezza sulla mano, come temessi di ripiombare nello schifo che avevo imparato facilmente a provare per me, e una frase uscì dalle mie labbra: io sarò sempre magro!
Non so perché dissi magro, forse la prima parola che riuscii a trovare, ma curiosamente persino oggi il mio corpo sembra aver risposto proprio a quel comando. Ancora oggi, lotta contro il tempo con le sue sole forze, per mantenere quella promessa. E ci riesce.
Forse non sarei mai stato come l'uomo di carta, ma cominciai a pensare che non importasse.
Non credo che i miei amici si ponessero queste questioni, perché non parlavamo mai dei nostri corpi, noi li usavamo per l'avventura come le nostre bici sgangherate: com'erano erano.
Il suono del citofono mi raggiunse che ero già felice, non potei che esserlo di più sentendo Giuseppe che diceva: Vieni giù? Come ogni giorno. Certo che ci vengo!
Ci sono giornate a Genova in cui il vento soffia dai monti e dal mare, come a ricordarle l'origine bifronte del suo nome. In quei giorni non c'è molto che puoi fare: i palloni non tengono la linea del calcio, le bici sbandano e la pineta ti schiaffeggia il volto con la terra, i gatti si nascondono, quindi la banda del 52 era solita trovare riparo nell'esterno del portone essendo sotto il livello della strada e cinto dai muri.
Erano le volte in cui Alex ci intratteneva con le sue imitazioni e quelle in cui ci si inventava di saltare i quattro gradini a piè pari con un balzo: l'ideale per correre ancora qualche rischio che non rendesse il pomeriggio troppo noioso. Ma il passatempo più interessante era quello di aspettare che uno dei ragazzi grandi passasse tra noi per uscire. Soprattutto di Domenica, erano soliti uscire con le ragazze e lo sapevamo perché, come mio fratello, uscivano tutti perfettini, col gel nei capelli tutti indietro come Fonzie, e il profumo che non deve chiedere mai.
Alessandro in particolare, proprio non resisteva e cominciava a seguirli chiedendo: mi fai accendere il motorino? Pieni di disprezzo per noi pidocchi, non ce n'era uno che dicesse di si ma anzi con la mano, ci facevano cenno di sparire, senza nemmeno parlarci, allora alessandro e Giuseppe cominciavano a canzonarli. Io non ero così audace, quelli grandi mi intimorivano troppo. Uno di questi in particolare era un tipo irascibile e Alessandro l'aveva preso di mira, provandoci gusto. "Tamarindo" continuava a ripetergli fino a che quello scattava ad inseguirlo per dargliele di santa ragione! Il tamarindo, che era una bibita in realtà era sinonimo di tamarro, ecco perché provocava quella reazione quasi certamente. I grandi avevano tutti la tendenza a menar le mani per nulla ma, Alessandro la lepre, non era facile da prendere e la sua grande soddisfazione era vederli rinunciare e, una volta sudati e scomposti, ritornare a casa a cambiarsi. Com'era divertente vedere anche mio fratello correre sulla punta dei piedi e non riuscire ad acciuffarlo. E' andato giù dalle scalette, gli dicevo, ma non era vero.
Pochi anni ci dividevano dall'essere come loro, ma ci dicevamo che non saremmo mai stati così scemi, e poi, mai e poi mai avremo fatto tutte quelle smancerie ad una femmina!
Ma cosa ne potevamo sapere noi di femmine? Di come invece, il rendersi conto del loro bisogno, avrebbe presto diviso le nostre strade, sciolto il sodalizio della nostra banda.
Finita l'azione molesta, tornavamo ai gradini in attesa del prossimo, a saltarli a piè pari.
Il 52 aveva una netta maggioranza maschile nella nostra fascia di età, per cui le femmine erano tutte più grandi e quelle nessuno osava salutarle, anche loro, uscivano vestite e profumate e civico per civico le vedevamo dalla ringhiera del piazzale, confluire tutte in un unico gruppo che si fermava al capolinea del 52. Sedute sul muretto fingevano di essere li per caso, solo per loro ma in pochi minuti, i motorini di tutti i maschi grandi si sarebbero prodotti in sgommate, cross e colpi di clacson per farsi notare!
Solo a sua sorella talvolta Alessandro faceva qualche dispetto, tipo alzargli la gonna, ma anche lei come sua madre gli urlava "Deficiente".
Perché secondo loro eravamo tutti così stupidi? Loro c'erano mai andati nell'intercapedine coi fiammiferi? O nella diga a prendere i palloni? Avevano mai preso in mano le tavole di legno col vischio nel quale un topo imbrattato si agitava per liberarsi? Erano riusciti a far scendere di sera il pipistrello che girava intorno al lampione, usando una pallina fosforescente, fino a colpirlo con la racchetta da tennis?
Nella nostra insensatezza, non c'era malvagità ma quella volta, a vedere il pipistrello morto io, una volta soddisfatta la curiosità di sapere come fosse fatto, mi sentii davvero male. Sembrava sorpreso anche lui di quel colpo, come se nessuno gli avesse mai detto che poteva succedergli, la piccola bocca aperta come gli occhi neri su quell'ultimo cielo notturno.
Che cazzo te ne frega di un topo che vola, sai quanti cene sono?- mi dissero ma poi lo seppellimmo tutti insieme sotto il salice, perché anche se non lo avrebbero mai ammesso, anche loro si erano resi conto di quanto la inanimata creatura facesse pena con quel buco nel petto! La noia, alla nostra età, poteva essere davvero fonte delle peggiori idee ma d'altronde i nostri ormoni, indecisi sul da farsi benché presenti,non ci potevano che cacciare nei guai.
Le ragazze e i grandi avevano fatto ritorno che eravamo ancora mesti e diffidando della nostra calma ci guardarono come noi avevamo guardato il pipistrello morto: con compassione e sospetto.
Le madri alle finestre ci chiamavano per la cena ognuna a suo modo, generalmente per nome, tranne la mia che mi chiamava con un fischio come si fa coi cani. Ciao Ale, ciao Giuse. Sulle scale odore di mangiare, e rumori di pesanti serrature.
Dopocena presi il libro di scienze, e scoprii che i pipistrelli non hanno bisogno della vista, che ci vedono in un altro modo e sono in grado per questo, di scorgere ostacoli da lontano, così come individuare le loro prede. Dalla finestra della sala intorno al lampione ne volavano altri e mi chiesi se non lo stessero cercando..dovevo fare qualcosa! Aprii la finestra appena appena. Buio.
Dì la preghiera prima di dormire! - si raccomandò mia madre.
"Signore, scusami per aver ucciso un pipistrello, per aver spaccato la lampadina del lampione con la fionda così i suoi amici cambiano posto e per essermi toccato il culo stamattina. Solo una domanda: ma sei sicuro che la vista non gli serve?
Buonanotte.
giovedì 3 settembre 2015
La banda del 52 CAP 8: Lucilla
Dopo quella volta, la pineta fu oggetto di esplorazione per la banda, e in una di queste occasioni facemmo una scoperta.
In fondo ad un sentiero che stavamo battendo c'era un enorme masso ricoperto di erbacce, la cui forma però, creava un anfratto riparato. Non avremmo mai saputo quanto grande se non avesse piovuto proprio nel bel mezzo del cammino.
L'idea di quella roccia come di un riparo svelto dal temporale estivo te la davano gli occhi, e con quelli vedemmo anche che l'antro era già stato "colonizzato". Qualcuno aveva lasciato li delle carte patinate stropicciate. Quelli del 50 non potevano esserci arrivati fin li, troppo coglioni figurati. Chi dunque?
Fico sarebbe stato poter leggere dei fumetti intanto che si aspettava che spiovesse., così una volta accucciati uno appiccicato all'altro provammo a dipanare quel casino di carte.
Il colore predominante di quelle foto era il colore della pelle, forse dei capelli, delle facce, di certo persone. Nessuno di noi sapeva decifrare i grovigli di figure che i pezzi strappati avevano scomposto, perché poi strappare una rivista?
Li in bella vista, nel pezzo di carta più grande, una tetta enorme premuta da una mano pelosa ci provocò una risata isterica ed insieme una frenesia cretina che ci fece strappare di mano il pezzo reciprocamente, come se fosse bollente. Prendemmo a turno a guardarlo come studiosi che si stanno per pronunciare circa l'autenticità di una pergamena, poi, una volta appurato che si trattava di sesso, a strofinarlo in faccia al vicino che reagiva schifato con un: ma che schifo!!!!
Giuseppe e Alessandro sembravano eccitati e divertiti abbastanza da non accorgersi che a me quelle immagini di gambe femminili, aperte, non avevano giovato al colorito, certo che lo sapevo che le femmine erano diverse da noi ma non sapevo come, dato che le uniche gambe in mezzo alle quali avevo potuto investigare erano le mie. Si, si facevano dei gesti che ne mimavano la conformazione, ma una vagina così da vicino, secondo me neanche i miei amici l'avevano vista! Io ad ogni buon conto contenni il vomito a fatica.
Colpa di mia madre quella stronza, che al momento di spiegarmi le femmine, si era limitata alla pagina della Enciclopedia medica che mostrava i genitali maschili e femminili come sezionati longitudinalmente per mostrare le varie componenti interne. e che nuda non l'avevamo mai vista, come del resto neanche papà. Ridete stronzi, avrei voluto dire ai miei amici tutti rossi in viso, ma voi sapete dove è la cervice dell'utero, o i dotti deferenti nei testicoli? Io si, anche se la fica dal vivo non sapevo che fosse simile ad uno strappo rosso e slabrato al punto che la poveretta nel giornale dovesse tenersela con due dita per pisciare!
Tutto scombussolato, cedetti il pezzo di giornale ai miei amici e presi a far finta di interessarmi a qualche altro rimasuglio, trovando alcune pagine intere, ma non potevo più togliermi di mente quella immagine senza ricollegarla a tutte le donne che conoscevo, compresa mia madre, così chiesi: ma secondo voi le femmine ce l'hanno tutte cosi?
Certo scemo, per quello la fanno sedute nel cesso.
Le facce di quelle donne sembravano sofferenti, per cui dissi: deve farle un gran male far la pipi...a me non fa così male e a voi?
Nel giornale i maschi c'erano, erano nudi anche loro, e anche loro soffrivano, ma non si vedeva niente sempre coperti dalle femmine. Mi trovai a cercare senza sapere neanche cosa, ma con la stessa frenesia che si era impossessata dei miei amici, fino a che trovai ciò che cercavo. Un corpo maschile nudo e ben visibile!
Che schifo, fecero gli altri, ma intanto quel cazzo dritto e grosso lo guardarono per qualche secondo anche loro, chissà, forse facendo un paragone col proprio. Ne saremo usciti piuttosto umiliati tutti, così convenimmo che quello era vecchio stabilendo che i nostri cazzi giovani potevano non essere così grossi per forza. che forse ci poteva ancora crescere. Quello li lo stringeva nella mano, ma le dita non si toccavano e da sopra ne usciva un bel po prima della punta, anch'essa di un rosso congestionato!
Indaffarati com'erano a cercar tette e fiche, non badarono a me, che ripiegai quella pagina e me la misi in tasca.
Il temporale finì e una volta messo al sicuro il nostro "tesoro", tornammo giù ma camminavamo meno agevolmente e tutti coi pantaloncini un po più gonfi.
Giuseppe, che sembrava più a suo agio col suo corpo ci rideva come un matto e prendemmo a ridere tutti, anche se io,francamente divenni rosso perché non sapevo più dove guardarlo..se in viso col suo magnifico sorriso o li.
Più tardi, a casa, misi il mio segreto sotto la lavatrice del bagno.
Vai a lavarti.
Un senso di disperazione mi prese dalla bocca dello stomaco, non per l'immagine di quell'uomo, ne per il mio cazzetto di ragazzino. Seduto sul cesso con le mutande calate e il foglio aperto, studiavo lui e me. Le sensazioni che provavo già da tempo le provi anche tu? Puoi dirmi come si chiamano? Come si spiegano?
Nel tenermelo tra le mani, non mi sentivo cosi fiero come lui, certo lui era un adulto e allora perché il cazzo non ci si indurisce da adulti così non ci viene da piangere a tredici anni? Lo sento come i compagni di scuola mi chiamano e se il mio coso fosse come il tuo almeno potrei farglielo vedere all'ora di ginnastica, invece di nascondermi per paura dei loro scherzi di merda!
Oh se starebbero zitti allora!
Se lui fosse stato nel bagno con me io lo avrei abbracciato e tra le sue braccia forti, che continuavo a fissare, forse le lacrime si sarebbero fermate, mi avrebbe spiegato con calma se era grave sentirmi come mi sentivo, sbagliato, solo ma anche incazzato con tutti coloro che dicevano di sapere cosa dovesse piacermi: quel buco delle femmine.
Io non avrei mai voluto che le femmine mi facessero quelle facce del giornale, in verità le femmine non mi interessavano per niente. Ora era chiaro ed era sempre stato così anche quando, cercavo di essere gentile con loro, perché figlie di amiche di mia madre, o perché avevano le scarpe di vernice che mi piacevano tanto.
Aprii il flacone dello shampoo alla mela verde e inspirai più che potevo, chiedendomi se Giuseppe si fosse accorto di qualcosa, se lo avrei perso, se Alessandro avrebbe riso di me come facevano a scuola.
Con un brivido ricordai sulla pelle la sua vicinanza sotto la roccia, il desiderio imbarazzante, il suo pantaloncino gonfio e felice da farti venir voglia di toglierteli anche tu e vada come vada, la certezza che non l'avresti mai saputo fare, quando da dietro la porta un urlo mi riportò alla mia squallida recita: vuoi uscire da quel bagno che sei dentro da mezz'ora? E' pronto a tavola!
Si, arrivo! Vaffanculo pure te e la tua cena di merda, ora che so come sei fatta, con me hai proprio chiuso, tanto più che io non sono uscito da te...grazie al cielo.
Maledetta pure tu pineta, che dalla finestra della cucina potevo vederti mentre mangiavo svogliatamente, me l'avevano detto che eri pericolosa ma io ci son venuto lo stesso. Ci tornerò e se Giuseppe, domani non mi chiamerà per scendere in piazzetta sorridendomi come al solito, spero di incontrare un burrone e finirci dentro. Se muoio piangeranno?
Ma se muoio, non saprò mai se il mio coso diventerà come quello dell'uomo sotto la lavatrice! Un bel casino.
Dopo tante avventure spensierate, dovevamo proprio rovinare tutto?
Crescere non mi piaceva per niente, e pensare che avevo sentito alcuni amici di famiglia parlare sottovoce ai miei dicendogli: forse ha qualche problema e questi rispondergli che erano preoccupati, insomma, che per avere la mia età, non ero ancora "sveglio".
"ma non ce l'ha la ragazzina?"
"ma va niente non ci pensa neanche, se ne sta sempre con quelli la".
"Magari domenica venite da noi, Lucilla ha un debole per lui.."
"Caro uomo sotto la lavatrice, entro domenica puoi farmi crescere l'uccello come il tuo così sul più bello mi tiro giù i pantaloni, quella cretina della Lucilla si spaventa come le donne del giornale e io me la levo dalle palle"? Grazie e ah volevo dirti che sei bellissimo.
Iscriviti a:
Post (Atom)