giovedì 24 gennaio 2013
Quarant'anni nell'armadio di mamma: gli anni duemila epilogo.
Superato lo spauracchio del millenium bug dell'introduzione dell'euro, e della fine del mondo e del Novecento mi affacciai negli anni duemila.
Duemila anni di storia pesavano parecchio, facendo sembrare la gravità più gravosa se mi si consente lo stupido gioco di parole, ma pensavo spesso che in fondo erano veramente troppi gli anni in cui ognuno di noi esseri umani si era illuso di essere eterno e aveva vissuto invece una modesta quantità di tempo sulla terra. Troppi i momenti in cui senza remore avevamo scelto la direzione sbagliata o giusta con eguale incoscienza ma con risultati ben differenti.
Da parte mia ero sopravvissuto alla fine di diversi amori, di cui pochi sani e molti “compensativi nei bisogni”, ma dal momento che questa era stata la natura del mio primo rapporto importante, cioè quello con mia madre, non mi sentivo affatto sorpreso o defraudato o ancora colpevole.
Il Duemila ci offriva una nuova prospettiva, o come avevo l'impressione, diluiva nel tempo la nostra disponibilità a sbagliare ancora un po'? Io di certo avevo concluso la mia piccola guerra dei Roses con “l'Architetto pieghina”, e preso in affitto un appartamento grande con un coinquilino, ma al momento di traslocare una brutta telefonata mi avvisò che il coinquilino non ci sarebbe stato!
Succede spesso che quando tu hai troppo bisogno di quel qualcuno, sia proprio lui a mancare. Che si tratti di coinquilini pirla, principi azzurri o amici del cuore, ciò che ti resta quando ti affidi ad un altro essere umano per non stare sulle tue gambe, è proprio il bisogno. Il bisogno a sua volta tende a diventare una condizione permanente, un fastidioso disturbo cronico.
A quel punto si verificò il primo dei “pensieri magici” che da quel giorno avrebbero caratterizzato la mia esistenza: potevo lasciarmi andare alla disperazione e rinunciare all'appartamento, oppure prima di cedere, sfuggire lateralmente dalla via principale che si chiama Sfiga infilandomi senza certezze in un vicolo innominato, e sperare che mi conducesse in un altra strada. Pensai alle innumerevoli inserzioni di ricerca per camere in affitto che avevo visto nei locali gay che frequentavo, poi compresi che entrare per primo in casa mi consentiva di “scegliere” che genere di coinquilino fosse più adatto a me, e anche di poter imporre le regole della casa. La fortuna mi fu amica perché la padrona di casa mossa a tenerezza nei miei confronti mi permise di entrare con il mensile in corso, così diedi fondo ai miei risparmi e cominciai il mio “casting per l'inquilino”.
Il vicolo in cui mi ero infilato in preda al mio pensiero magico, si chiamava Opportunità e coglierlo fu la cosa migliore che feci, sebbene l'ultima consigliatami da tutti. Ebbi una lunga serie di coinquilini che fu anche divertente conoscere, e potei sentirmi per la prima volta davvero in gamba.
Lo stato d'animo che avevo era ottimo e ancora oggi cerco di rientrarci ogni volta che mi affliggo, perché la cosa peggiore che puoi fare quando hai avuto una buona idea è quella di pensare che sia stata solo una botta di culo, e quindi dimenticartene! In futuro, avrei avuto ancora bisogno di un pensiero magico, e della fiducia che necessita, dal suo nascermi dentro la testa al germogliarmi nel cuore. Deviare da una logica mentale deprimente o che perlomeno configura solo realtà spiacevoli per noi, è come forzare lo sterzo del cervello per costringere le sue ruote ad uscire dal solco generalmente profondo, poiché battuto e ribattuto, dell'abitudine a perdere! Il percorso che segue dalla “deviazione” non genera affatto immediate sicurezze, come ogni strada nuova tu possa percorrere, ma almeno può costringerti a confrontarti con la novità, e il vantaggio è che sei certo che niente possa succederti che ti sia già accaduto.
Scendevo dal tram e mentre scorrevo la fila di bar per raggiungere il mio preferito, mi accorgevo di gruppi di persone accalcati davanti ai maxi schermi dei locali, dai quali di solito vedevo i calciatori correre senza senso dietro ad una palla, a tutte le ore del giorno in cui una pausa caffè mi vedesse li, e pur notando che qualcosa in quell'immagine era stonata, mi ci volle di rivederla bar dopo bar almeno per quattro volte, prima di decidere di entrare, sperando debolmente che il mio caffè fosse come tutti gli altri giorni, nero e forte. Immagini di un fumo più nero e denso di qualunque caffè freddarono la mia anima e la tazzina che come un automa mi portai alla bocca. Ciò che vedevo era senza ombra di dubbio l'ingresso di un aereo dopo l'altro nei Grattacieli di una città appena sveglia come me. Era una mattina di settembre, quando il mio mondo interiore non bastò a proteggermi dallo shock che la notizia di due aerei schiantatisi nelle Torri gemelle di New York, fu in grado di causarmi, come anche al resto del mondo, in effetti. Né dalla coincidenza per cui quel giorno fosse gemello anche lui, essendo l'undici.
Non ci fu più niente che avesse senso fare quel giorno, eppure il tempo scorreva imperturbato e io dovevo comunque entrare in negozio e fare le clienti, come se farlo fosse normale. Ammutolito i miei gesti seguivano uno schema abituale, ma senza l'affiorare di nessuna emozione, poiché ognuna sembrava essere fuori luogo da mostrare. L'irrealtà della routine giornaliera appariva in tutta la sua grottesca inutilità, come un vestito eccessivamente sfarzoso su una bambina emaciata, intanto che le radio mandavano in onda gli ultimi istanti di persone come noi, intrappolate magari al sessantesimo o al centodecimo piano. Senza via di scampo.
Stralci di telefonate ai propri cari, dicevano solo l'essenziale: ti voglio bene.
Quegli scenari apocalittici si allacciarono così facilmente alle immagini che da piccolo mi terrorizzavano nelle riviste religiose che la mamma ci faceva leggere, e che descrivevano il Giudizio di Dio sull'umanità malvagia, colpevole di non aver riconosciuto “i segni dei tempi, che il primo istinto che mi venne fu di chiamarla dopo il lavoro e scoppiare in lacrime tanto a lungo trattenute.
La Maria Luisa, nei suoi vestiti sciatti che mi pareva di vedere, non aveva nessuna emozione nella voce, anche se le sue parole sembravano volermi confortare, mentre mi diceva: mettiti a posto con Dio, e vedrai che non avrai paura.Ma le aveva viste anche lei quelle immagini? Il cuore dei crociati era più duro della loro stessa armatura? E in quella fragilità pensai che forse le cose che ci aveva insegnato si stessero avverando, e che non potevo far altro che pentirmi. Qualche giorno dopo però, mi ricordai un'altra cosa che ci aveva insegnato: una volta chiusa l'Arca di Noè e cominciato a piovere, molti si erano assiepati in lacrime cercando di farsi salvare: Ma la porta fu sigillata da Dio, affinché Noè non potesse essere mosso a pietà, ivi furono i loro pianto e lo stridor dei loro denti.
Mi chiesi allora qual male avessero fatto quelle persone intrappolate nella normalità di un giorno di ufficio, che sarebbe stato l'ultimo per loro, e mi concentrai sulla lunghezza del loro calvario. Poteva un Dio misericordioso prevedere una punizione tanto crudele? Le voci che avevo sentito non imploravano perdono ne maledicevano Dio, ma dicevano ti voglio bene a chi lasciavano, perché dunque io ero stato tanto vigliacco? Il mio non era pentimento ma fifa blu! Non ero stato sincero, lo so, ma l'effetto di quei fatti fece presa sull'unica cosa che veramente mia madre mia aveva insegnato: la colpa e il rimorso. La Maria Luisa nel mio “attimo prodigo”, non fu felice come il padre col figliolo della nota parabola, non mi disse che mi voleva bene, ma solo cosa dovevo fare per meritarlo. Indubbiamente la morte non era poi più spaventosa del suo fanatismo, e giurai a me stesso, che persino una morte come quella della povera gente di New York, sarebbe stata preferibile al capestro dell'amore a progetto di mia madre. E vivere tutta una vita con una fanatica era decisamente peggio che morire per sua mano...una sola volta.
Un pensiero magico, fu quello di riconsiderare, il mio tempo su questa terra, secondo l'esempio dei coraggiosi newyorkers e cioè trovare al più presto qualcuno a cui fare la mia ultima telefonata. Inoltre, come scoprii dodici anni dopo, considerare che se un giorno è per Dio come mille anni e mille anni come un giorno, potevo sperare dato che nessuno di noi vive mille anni, ma neanche solo un giorno, che Dio non avesse nella sua agenda di oggi la fine del Mondo, e che tutta la mia intera vita, per metà trascorsa all'interno dell'armadio in cui mia mamma mi aveva simbolicamente chiuso, poteva passargli del tutto inosservata, o di certo sembrargli meno orribile di quella di tutti coloro, mia madre compresa, che non erano stati capaci di dire un semplice : ti voglio bene.
Il mondo avrebbe continuato ad esistere, perchè la fine non arriva mai quando te l'aspetti, e il secondo millennio avrebbe portato nuove “profezie” sulla sua fine, nuove smentite, e vecchi errori ripetuti da un umanità troppo simile a se stessa. Nuove armi di distruzione di massa, sarebbero state costruite e vendute, non ultima delle quali il Jersey di cotone che non meno letale dell'idrogeno, avrebbe fasciato inutilmente grossi culi femminili come anche il loro esatto opposto, con eguale risultati. Ma quello almeno non sarebbe mai entrato nell'armadio di mamma, e questo poteva bastare per andare avanti. La fine del mondo un giorno arriverà, cara mamma ma devo ammettere che per me sei già tu. Quarant'anni passati ad aspettare il tuo amore, mi convincono che quel treno non sia mai partito dal tuo cuore nella mia direzione, che sia inutile credere ai ritardi, alle deviazioni, agli scambi sabotati, perché non c'è convoglio che possa metterci così tanto a fare un tratto di vita tanto breve. Io non avevo sbagliato stazione, semplicemente non ero mai partito davvero. Io dovevo lasciare te con amore, lasciarti libera di rifugiarti dove meglio credi, nel buio profondo in cui ti senti sicura che nessuno veda ciò che sei veramente, senza seguirti con la luce fastidiosa della mia verità. A chi dirai ti voglio bene un ultima volta, se non l'hai mai fatto una prima?
Nel novembre del duemilatre, conobbi un uomo, gli chiesi il numero di telefono e dopo circa un anno andai a vivere con lui, e mi segnai quel numero nel portafoglio. Ogni giorno da allora in cui salgo in un ascensore o vedo un aereo vicino ai palazzi della mia città, laddove non sia con lui, tengo il telefono e il mio cuore pronti a dirgli quella frase. Ogni giorno da quasi dieci anni.
Qui si conclude il mio parlare e riparlare di me e del mio passato perchè: “Le pene degli uomini sarebbero minori se essi - e Dio solo sa perché son fatti cosi - non si accanissero a rievocare con la forza dell'immaginazione il male passato, piuttosto che accettare un tranquillo presente.”
Johann Wolfgang Goethe
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