giovedì 17 gennaio 2013

Quarant'anni nell'armadio di mamma. gli anni novanta ultima parte



Ormai era fatta e nel modo più rumoroso possibile, modo che, non mi avrebbe abbandonato per diversi anni. Ero uscito di casa, mi ero sottratto a qualunque condizionamento forzato, o almeno pronto a nuovi condizionamenti. Milano, offriva  suggestioni a iosa da cui lasciarsi condizionare, e una delle prime cose che imparai fu quella di usare l'armadio come metodo di comunicazione.
Se prima, pur avendo un vago concetto di gusto, ritenevo i miei abiti solo indumenti più o meno graditi, la vita in città mi mostrò che essi erano un modo per parlare di se, per collocarsi eventualmente o di certo un non trascurabile anticipo di sé al mondo. Le vie di uno shopping che non potevo di certo permettermi erano però di grande ispirazione, oltreché un sanissimo svago. Mi capitava certi lunedì di passare semplicemente di li per immergermi nella sapienza di certi maestri dello stile, e i miei occhi si saziavano di ogni forma, colore e foggia le vetrine avessero da offrirmi.
“Lo spuntino del cuore” lo chiamavo tra me e me!
A Milano nessuno usciva di casa così come capitava, non se anche quella casualità non era stata accuratamente selezionata per uno scopo. Erano gli anni in cui sentivo parlare di “minimalismo” ed “essenzialità”, in cui i tessuti diventavano tecnici, e il cashmere non era solo geografia! Il primo stimolo che provai fu quello di avvicinarmi al concetto di borsa, che in fondo mi era sempre appartenuto fin dai tempi in cui frugare in quella di mia madre mi dava un piacere smisurato, ma cominciai con un prudente zaino che rigorosamente nero maneggiavo più volte un po' per sbadataggine un po  per riprovare la sensazione che fosse mio.
Il mio corpo ancora acerbo, sebbene già più che venticinquenne, ben si prestava alle magliette da discoteca un po' corte e aderenti che si portavano con pantaloni altrettanto stretti e lunghi spolverini in pelle (nel mio caso plastica), oppure a certi completi anni settanta che trovavo nei negozi di seconda mano.
Il mio lavoro cresceva insieme al consenso dei clienti nel negozio che mi aveva assunto “in regola” realizzando quella specie di  “sogno americano” che lo stabilirmi  in una città che non conoscevo mi pareva farmi vivere. La cosa che più adoravo di Milano era l'assoluta mancanza di interesse che la gente mostrava per come uscivi di casa, un anonimato leggero di cui la mia anima fin troppo sottoposta a giudizio negli anni precedenti, si dissetava senza limiti.
Limiti che col tempo imparai comunque a darmi, perché non c'è come la libertà di sbagliare che ti spinge al buon senso, o a più moderate interpretazioni della libertà stessa!
Una volta lasciato Claudio, vissi in una di quelle case che qui si chiamano “di Ringhiera” tipiche della zona dei Navigli dove il pianerottolo è esterno e casa tua è la passerella di tutti coloro che abitano nella stessa ringhiera. In quella che fu la mia prima casa da solo, sperimentai anche il concetto di arredamento. Scoprii cos'era L'Ikea e comprai la mia prima cassettiera alta sulla quale misi il telefono di casa, che faceva tanto indipendente. Di sera seduto su un alto sgabello da bar recuperato chissà dove telefonavo a mia madre, raccontandole quel poco che potevo di vero e una discreta quantità di bugie pietose che mi vedevano lavorare e dormire, ma d'altronde niente di ciò che mi faceva davvero felice avrebbe reso felice anche lei.
 Le clienti mi fornivano mille modelli di comunicazione affascinanti e dettagli di stile che come i bottoni della nonna custodivo nel mio cuore di latta e che mai come in quegli anni, mi arrivavano conditi  di buona educazione, gentilezza e apprezzamento. Così cominciai a “ricalcare” alcuni modelli di stile o di linguaggio che trovavo eleganti e che meglio arrotondavano le asperità della mia condizione. Può sembrare che forzassi la costruzione di un personaggio ma in realtà istintivamente ne delineavo meglio uno che mi piacesse, che mi facesse apprezzare il costo molto oneroso di quella libertà. Inoltre non c'è da dimenticare che leggere e studiare erano due cose che la mia educazione precedente  aveva impresso a fuoco. Perché di una cosa ero certo: Genova e Milano erano come mia madre e sua sorella, due realtà inconciliabili. Genova, lamentosa e pigra graziata dal mare ma senza slancio proprio come mia madre e Milano invece, indifferente e  immersa nella sua nebbia come mia zia nei ronzii delle sue orecchie, sapeva però apprezzare le persone sveglie e motivate,  ed essere  generosa con chi si dava da fare..
Se i genovesi erano noti per la loro avarizia i milanesi lo erano per “avere il cuore in mano”.

Cercai in quegli anni, di introdurre nell'armadio di mamma qualcosa di nuovo secondo i dettami che imparavo ogni giorno persino sul tram, e così le comprai qualche paio di elegantissime giacche di lana Merinos( non sapevo della quantità di razze caprine ricoperte di lane meravigliose) con bottoni dorati che tutto fiero speravo le dessero soddisfazione o forse che ancora una volta “giustificassero” la mia distanza, e che pur costandomi qualche tredicesima, venivano accolte come una inutile follia, così come di quello doveva trattarsi quando continuava a dirmi che odiava quella città.
Avvicinandoci alla fine degli anni novanta la profezia apocalittica del “mille non più mille” sembrava assonarsi alla canzone “Come vorrei avere mille lire al mese” perché a distanza di pochi anni una nuova moneta avrebbe sostituito le lire e forse determinato veramente la fine di quella che deve essere stata una illusione di prosperità tipica degli anni novanta, dove la carriera era il mito da conquistare per le donne e l'unica ragione di vita di molti uomini.
Gli amori che ebbi in quegli anni non poterono paragonarsi allo smisurato sentimento che l'ingresso della mia gatta siamese generò in me. Con lei feci otto traslochi e innumerevoli viaggi rimanendo seduto con lei sul divano di ogni casa, intanto che il mantra felino delle sue fusa determinava l'inizio della mia seduta ipnotica a base di sicurezza. Lei mi aiutò a vincere le mille paure del vivere da solo perché in realtà  con lei vicino non lo ero più.
I rumori con cui avevo iniziato a vivere davvero, erano echi di sottofondo ma le fondamenta di questa scelta sarebbero stati scossi da un evento che non era mai accaduto prima...e che per un lungo attimo mi spinse a dubitare di me stesso.

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