mercoledì 30 gennaio 2013

camouflage pericolosi: il Pezzomerdismo


Siamo al quinto anno di una crisi economica che più ancora che dei soldi, ormai tirati via dalle tasche all'abbisogna di consiglieri regionali, Colletti bianchi europei, Gruppi bancari da salvare come panda,  bund- dittatori e affini, ci ha impoverito di quella buona maniera che si chiama  empatia e solidarietà.
Non può bastare un giorno per la Memoria, perché quella è bella che persa, ce ne vorrebbe uno per la Coscienza. Ma si sa che la coscienza, rimorde a chi ne ha una educata secondo buoni principi.
I princìpi ci sono ma sono stati sostituiti dal tornaconto, dalla convenienza e da quel senso pratico del fare “ciò che si deve fare”.
A la guerre comme a la guerre direbbero i francesi, i quali furono costretti dalla guerra nel 1942 a fare ciò che si doveva fare, e deportarono per giustizia un tot di ebrei prima trattenuti in condizioni disumane in un velodromo (Vélodrome d'Hiver )  per giorni e poi avviati ai campi transitori di smistamento per il concentramento. Tutti i governi della civilissima Europa fecero quello che si doveva ma la cosa più interessante fu come, al di là di ciò che i governi giustificavano, la gente comune si comportava nel frattempo.
Il principio di delazione nemmeno poi tanto anonima, permise a molti di acquistare le case che gli ebrei rastrellati lasciavano forzatamente, in modo da ottenere un guadagno persino in tempi di guerra, il che fa presupporre che nemmeno una guerra mondiale fu in grado di affievolire l'avidità.( il guadagno speculatorio non è affatto moderno)
Ancor più precisamente la convinzione di molti era che in fondo fosse giusto che “gli ospiti stranieri” contribuissero” alla sussistenza del paese con i mezzi che avevano, che i nativi non ebrei di ogni nazione avessero diritto di non dividere le risorse con loro e di prendersi quelle che a loro non sarebbero più servite, incoraggiando con qualche buon pretesto tipo: fanno un odore di mangiare che impesta le scale, il loro rastrellamento. 
“Hanno quello che si meritano” gridavano le donne dai balconi.
La crisi economica giustificò tutto l'orrore che ne seguì, con la sola sua presenza, ma non senza il tacito consenso di tutti coloro che avranno pensato: meglio a loro che a me! O semplicemente: c'è crisi!
Qualcuno fece eccezione, e i casi di coscienza addestrata secondo principio si ridussero alla sola iniziativa personale.
Ma insomma sono passati almeno cinquant'anni!!!! Che diavolo c'entra oggi parlare di questo, c'era la guerra che potevamo fare? Ma soprattutto c'era il fascismo.( che fu tanto acclamato quanto biasimato)
Per cominciare mi chiedo cosa sarebbe successo se alle stazioni, dove partivano i treni per i campi si fossero presentati tutti ebrei e non, se tutti avessero pensato che l'oppressore non poteva deportarli tutti senza farsene accorgere. Oppure se tutti si fossero appuntati una stella al cappotto e mostrando i documenti che attestavano la nazionalità non incriminata avessero messo talmente a disagio i vertici da costringerli a mostrare la violenza che li animava! Ma bisognava “salvarsi”, fare ciò che andava fatto, o quantomeno lasciare che lo facesse qualcun 'altro.
Oggi cos'è che di nuovo si deve fare?
Si deve raggiungere la parità di bilancio, stare al passo con i Bund tedeschi, che non hanno più l'elmetto di metallo ma di carta moneta, si deve rafforzare l' Unione Europea che non ha svastiche ma  una innocente aureola di stelline come simbolo, e per farlo i governi chiamano il popolo a “fare ciò che va fatto” cioè ad esempio la lotta all'evasione fiscale del panettiere, parrucchiere, salumiere, o di chiunque abbia un negozio dove i delatori moderni sono i primi a chiedere sconti davanti e a denunciare dietro.
Il lavoro rende liberi era il motto di allora. Certo oggi non sarebbe più possibile dirlo con la pressione fiscale che il costo del lavoro ha raggiunto e la disoccupazione creata,  ma possiamo dire un più semplice: se tutti pagano paghiamo meno! 
Poco importa se gli Stati sono i primi a non pagare i loro debiti,  il popolo degli onesti vuole la testa del truffatore “della porta accanto”, magari dopo aver voluto in segreto la virtù della ragazza della stessa porta. Del resto  l'unica che sia in grado di tagliare davvero. E a proposito di tagli, perché non tagliare via anche un po di mercati etici come quello dell'energia sostenibile, della ricerca, dell'istruzione e del sociale? Mentre il tam tam mediatico ci pone tutti sull'orlo del precipizio non sarà mica il caso di spaventarsi se qualche imprenditore da cui dipendono molte famiglie si suicida no? Si vede che preferisce morire che pagare le tasse, e allora che muoia come alcuni ebrei dagli spalti del velodromo avranno preferito quello al “Vento di Primavera” ( nome dell'operazione di polizia francese)che soffiava su di loro!
Beh oggi non c'è mica più il fascista col manganello che scoraggia l'iniziativa coraggiosa e personale che molti italiani, che ancora hanno uno stipendio e per giunta sicuro, potrebbero avere nel salvare non già il mondo ma le piccole imprese del loro quartiere, e invece si è insinuato questo sottile e strisciante disinteresse per la sorte che si crede essere altrui. Non dopo però aver saccheggiato con regolare scontrino i saldi fallimentari dei negozi. Come allora, chi aveva tre stanze può avere anche la tua! Un negoziante i cui clienti gli riconoscano il valore aggiunto di una cortesia e di una onestà nel vendere non potrebbe chiudere, come nessun treno sarebbe potuto partire se completamente preso d'assalto....da comuni cittadini, che a differenza dei negozi, avrebbero rischiato forse la vita. 
Questo il particolare che mi inquieta non poco: se durante la deportazione qualcuno riuscì a concepire il rischio della propria vita come “prezzo equo” da pagare per non piegarsi all'iniquità, come mai oggi che costerebbe molto meno, sembra ugualmente”troppo rischioso? L'amore deve essere il problema, l'amore di una maggioranza che come adorerebbero citare i religiosi, si sarebbe del tutto “raffreddato”. Eppure mai come in quest'ultimi vent'anni si è parlato d'amore fino alla nausea. Le persone che allora salvarono bambini e uomini o donne dalla deportazione, forse senza nemmeno sapere che cosa fosse, che modello d'amore avevano? Per la maggior parte persone semplici, tranne casi illustri, questi non sapevano parlare d'amore nemmeno alle loro mogli, eppure in quel duro pudore dei sentimenti, in quello sconosciuto alfabeto emotivo seppero comporre una azione “a favore di qualcun' altro”, persino estraneo, con la stessa semplicità logica con cui sapevano mischiare ad acqua quella poca farina che avevano nel sacco.
A peggiorare il tutto, gli economisti e i tecnici hanno dimostrato che se uno fallisce è perché non avendo studiato in Bocconi, non doveva proprio credere di poter aprire una attività commerciale, o comprare una casa, e in questo senso egli ha già vissuto sopra le proprie possibilità, quindi chi è causa del suo mal pianga se stesso. 
Com'è dunque che le lacrime della Fornero le abbiamo pagate noi? Come mai le banche ci diedero i mutui, anche se non avevamo nulla da parte, sfruttando l'educazione per cui “comprare casa” fosse una sicurezza ed il suggello ad una vita adulta e congrua. La grande delusione che si ebbe nel vedere precipitare la situazione non fu solo frutto di un indebitamento “bove” del popolo, ma piuttosto il modo in cui scoprire e prendere il “ grande risparmio” di molti, pareggiando con un metodo cinese, se non tedesco, il tenore di vita di un elettorato futuro. Questo spaventò i ricchi, che cominciarono a mettere sui cappotti la stella con scritto “povero come te”, e i poveri ovviamente a farsi la guerra tra loro. L'insieme di opportunismo avidità e stronzaggine,  che le persone comuni esprimono giustificandosi  con la crisi io mi sento di non poterla definire come un vero razzismo, poiché non indirizzato a un qualcuno in particolare,  piuttosto lo licenzierei  poeticamente  come “pezzomerdismo”,  che di fatto camuffa anche il crescere di una vecchia e mai sopita xenofobia, con surrogati  come la  riccofobia,  la gayfobia, la donnafobia,  Insomma se l'umanità fosse studiata da un profiler, come nelle nostre serie preferite, si potrebbe dire che tutti questi “moti contro” altro non siano che i “primi passi” che l'umanità finora immobilizzata dal benessere, muove  di nuovo verso il suo stesso lato oscuro. Spinta come un mare, dai proclami di Equità e Dovere verso quale nuova empietà si sta muovendo? Al servizio di quale Nuovo Ordine Mondiale?

Come l'omicida seriale l'umanità ha imparato dai suoi errori a sopire la memoria, a ridurla a leggenda, ma anche a non potersi più permettere un eccidio di tali proporzioni. Ha migliorato il suo modus operandi, eliminato la firma riconoscibile di una razza, inserendo un più aleatorio concetto di ciò che “va fatto” per sopravvivere, per assicurarsi l'appartenenza a qualcosa che di certo non è per tutti. E mi sembra pronta a ripetersi, nel nome di qualche Unione. 
Poveri che pagano come ricchi,perdendo ciò che hanno sudato per avere e ricchi che piangono come poveri, aggiudicandosi le spoglie degli altri,(aziende, immobili, e servilismo), con la scusa di essere stati più avveduti e onesti. Davvero ci vedete qualcosa di diverso da cinquant'anni fa? Stipati nel vagone di un futuro che scorre su vecchie rotaie, ci sono le persone qualsiasi, che ormai appiattite e con la prospettiva corta, non potranno fare altro che sperare nell'iniziativa dei singoli per avere una chance di vita.
“ la pallina rossa rotolava nel fango, e la debolezza della piccola Sarah non le permetteva di raggiungerla, sebbene ancora tentasse di giocarci con le altre bembine come lei. Una caduta, le portò il viso vicino alla scarpa del poliziotto che parlava la sua stessa lingua e non una dura lingua straniera, il quale tratteneva ora la pallina con cui era vietato giocare, sotto la suola sudicia.
Lo sguardo dei due si incrociò in un momento eterno in cui la scelta non sembrava trovare posto. Gli occhi atterriti della piccola non cedettero come avevano fatto le sue gambe, ma nessuna parola le uscì di bocca. Nessuna scusa nessuna implorante preghiera. La scarpa del soldato si sollevò dal fango ed egli si voltò come turbato, sapendo che non aveva fatto ciò che “ doveva essere fatto”.
Il giorno seguente approfittando del rumore di una lite tra bambini, Sara raggiunse coperta di abiti sovrapposti il punto del reticolato che aveva individuato come più debole, ma uno schricchiolio la fece sobbalzare: il soldato turbato la fissava come il giorno prima ma ora lei era in piedi di fronte a lui, ancora muta ma con lo stesso sguardo fiammeggiante. All'uomo sarebbe bastato un fischio, una esclamazione marziale, insomma, gli sarebbe bastato “ fare ciò che doveva fare”, e lo fece.
La piccola Sara, correva tra i campi di mais adiacenti al perimetro del reticolato, con la forza di coloro che “pensano solo a se stessi” come le aveva suggerito di fare la bella signorina con un lasciapassare mentre lasciava il velodromo a Parigi e lei, verso la salvezza.
Il soldato reggeva ancora il filo spinato con le mani nude il tanto che era bastato all'esile corpo di quella bambina per passare, perché il dolore della pelle forata era ciò che di più simile alla vita lui potesse provare, o per svegliarsi da qualcosa. Sara lasciò nel campo il padre e la madre, per raggiungere il suo fratellino che aveva chiuso nell'armadio  a Parigi, quando i francesi erano venuti a prenderli. Lo fece senza mai voltarsi perchè sapeva che gli unici che hanno diritto a “ pensare solo a se stessi” sono coloro che non hanno scampo. Gli unici a fare davvero “ ciò che andava fatto”. Gli unici a portare per il resto dei  loro giorni, il dubbio di non esserselo meritati”


giovedì 24 gennaio 2013

Quarant'anni nell'armadio di mamma: gli anni duemila epilogo.



Superato lo spauracchio del millenium bug dell'introduzione dell'euro, e della fine del mondo e del Novecento mi affacciai negli  anni duemila.
Duemila anni di storia pesavano parecchio, facendo sembrare la gravità più gravosa se mi si consente lo stupido gioco di parole, ma pensavo spesso che in fondo erano veramente troppi gli anni in cui ognuno di noi esseri umani si era illuso di essere eterno e aveva vissuto invece una modesta quantità di tempo sulla terra. Troppi i momenti in cui senza remore avevamo scelto la direzione sbagliata o giusta con eguale incoscienza ma con risultati ben differenti.
Da parte mia ero sopravvissuto alla fine di diversi amori, di cui pochi sani e molti “compensativi nei bisogni”, ma dal momento che questa era stata la natura del mio primo rapporto importante, cioè quello con mia madre, non mi sentivo affatto sorpreso o defraudato o ancora colpevole.
Il Duemila ci offriva una nuova prospettiva, o come avevo l'impressione, diluiva nel tempo la nostra disponibilità a sbagliare ancora un po'? Io di certo avevo concluso la mia piccola guerra dei Roses con “l'Architetto pieghina”, e preso in affitto un appartamento grande con un coinquilino, ma al momento di traslocare una brutta telefonata mi avvisò che il coinquilino non ci sarebbe stato!

Succede spesso che quando tu hai troppo bisogno di quel qualcuno, sia proprio lui a mancare. Che si tratti di coinquilini pirla, principi azzurri o amici del cuore, ciò che ti resta quando ti affidi ad un altro essere umano per non stare sulle tue gambe, è proprio il bisogno. Il bisogno a sua volta tende a diventare una condizione permanente, un fastidioso disturbo cronico.
A quel punto si verificò il primo dei “pensieri magici” che da quel giorno avrebbero caratterizzato la mia esistenza: potevo lasciarmi andare alla disperazione e rinunciare all'appartamento, oppure prima di cedere,  sfuggire lateralmente dalla via principale che si chiama Sfiga infilandomi senza certezze in un vicolo innominato, e sperare che mi conducesse in un altra strada. Pensai alle innumerevoli inserzioni di ricerca per camere in affitto che avevo visto nei locali gay che frequentavo, poi compresi che entrare per primo in casa mi consentiva di “scegliere” che genere di coinquilino fosse più adatto a me, e anche di poter imporre le regole della casa. La fortuna mi fu amica perché la padrona di casa mossa a tenerezza nei miei confronti mi permise di entrare con il mensile in corso, così diedi fondo ai miei risparmi e cominciai il mio “casting per l'inquilino”.
Il vicolo in cui mi ero infilato in preda al mio pensiero magico, si chiamava Opportunità e coglierlo fu la cosa migliore che feci, sebbene l'ultima consigliatami da tutti. Ebbi una lunga serie di coinquilini che fu anche divertente conoscere, e potei sentirmi per la prima volta davvero in gamba.

Lo stato d'animo che avevo era ottimo e ancora oggi cerco di rientrarci ogni volta che mi affliggo, perché la cosa peggiore che puoi fare quando hai avuto una buona idea è quella di pensare che sia stata solo  una botta di culo, e quindi dimenticartene! In futuro, avrei avuto  ancora bisogno di un pensiero magico, e della fiducia  che necessita, dal  suo nascermi dentro la testa al  germogliarmi nel cuore. Deviare da una logica mentale deprimente o che perlomeno configura solo realtà spiacevoli per noi, è come forzare lo sterzo del cervello per costringere le sue ruote ad uscire dal solco generalmente profondo, poiché battuto e ribattuto, dell'abitudine a perdere! Il percorso che segue dalla “deviazione” non genera affatto immediate sicurezze, come ogni strada nuova tu possa percorrere, ma almeno può costringerti a confrontarti con la novità,  e il vantaggio è che sei certo che niente possa succederti che ti sia già accaduto.

Scendevo dal tram e mentre scorrevo la fila di bar per raggiungere il mio preferito, mi accorgevo di gruppi di persone accalcati davanti ai maxi schermi dei locali,  dai quali di solito vedevo i calciatori correre senza senso dietro ad una palla, a tutte le ore del giorno in cui una pausa caffè mi vedesse li, e pur notando che qualcosa in quell'immagine era stonata, mi ci volle di rivederla bar dopo bar almeno per quattro volte, prima di decidere di entrare, sperando debolmente che il mio caffè fosse come tutti gli altri giorni, nero e forte. Immagini di un fumo più nero e denso di qualunque caffè freddarono la mia anima e la tazzina che come un automa mi portai alla bocca. Ciò che vedevo era senza ombra di dubbio  l'ingresso di un aereo dopo l'altro nei Grattacieli  di una città appena sveglia come me.  Era una mattina di settembre, quando il mio mondo interiore non bastò a proteggermi dallo shock che la notizia di due aerei schiantatisi nelle Torri gemelle di New York, fu in grado di causarmi, come anche al resto del mondo, in effetti. Né dalla coincidenza per cui quel giorno fosse gemello anche lui, essendo l'undici.
Non ci fu più niente che avesse senso fare quel giorno, eppure il tempo scorreva imperturbato e io dovevo comunque entrare in negozio e fare le clienti, come se farlo fosse normale. Ammutolito i miei gesti seguivano uno schema abituale, ma senza l'affiorare di nessuna emozione, poiché ognuna sembrava essere fuori luogo da mostrare. L'irrealtà della routine giornaliera appariva in tutta la sua grottesca inutilità, come un vestito eccessivamente sfarzoso su una bambina emaciata, intanto che le radio mandavano in onda gli ultimi istanti di persone come noi, intrappolate magari al sessantesimo o al centodecimo piano. Senza via di scampo.
Stralci di telefonate ai propri cari, dicevano solo l'essenziale: ti voglio bene.
Quegli scenari apocalittici si allacciarono così facilmente alle immagini che da piccolo mi terrorizzavano nelle riviste religiose che la mamma ci faceva leggere, e che descrivevano il Giudizio di Dio sull'umanità malvagia, colpevole di non aver riconosciuto “i segni dei tempi, che il primo istinto che mi venne fu di chiamarla dopo il lavoro e scoppiare in lacrime tanto a lungo trattenute.
La Maria Luisa, nei suoi vestiti sciatti che mi pareva di vedere, non aveva nessuna emozione nella voce, anche se le sue parole sembravano volermi confortare, mentre mi diceva: mettiti a posto con Dio, e vedrai che non avrai paura.Ma le aveva viste anche lei quelle immagini?  Il   cuore dei crociati era più duro della loro stessa armatura? E in quella fragilità pensai che forse le cose che ci aveva insegnato si stessero avverando, e che non potevo far altro che pentirmi. Qualche giorno dopo però, mi ricordai un'altra cosa che ci aveva insegnato: una volta chiusa l'Arca di Noè e cominciato a piovere, molti si erano assiepati in lacrime cercando di farsi salvare: Ma la porta fu sigillata da Dio, affinché Noè non potesse essere mosso a pietà, ivi furono i loro pianto e lo stridor dei loro denti.

 Mi chiesi allora qual male avessero fatto quelle persone intrappolate nella normalità di un giorno di ufficio, che sarebbe stato l'ultimo per loro, e  mi concentrai sulla lunghezza del loro calvario. Poteva un Dio misericordioso prevedere una punizione tanto crudele? Le voci che avevo sentito non imploravano perdono ne maledicevano Dio, ma dicevano ti voglio bene a chi lasciavano, perché dunque io ero stato tanto vigliacco? Il mio non era pentimento ma fifa blu! Non ero stato sincero, lo so, ma l'effetto di quei fatti fece presa sull'unica cosa che veramente mia madre mia aveva insegnato: la colpa e il rimorso. La Maria Luisa nel mio “attimo prodigo”, non fu felice come il padre col figliolo della nota parabola, non mi disse che mi voleva bene, ma solo cosa dovevo fare per meritarlo. Indubbiamente la morte non era poi più spaventosa del suo fanatismo, e giurai a me stesso, che persino una morte come quella della povera gente di New York, sarebbe stata preferibile al capestro dell'amore a progetto di mia madre. E vivere  tutta una vita con una fanatica era decisamente peggio che morire per sua mano...una sola volta.

Un pensiero magico, fu quello di riconsiderare, il mio tempo su questa terra, secondo l'esempio dei coraggiosi newyorkers e cioè trovare al più presto qualcuno a cui  fare la mia ultima telefonata. Inoltre, come scoprii dodici anni dopo, considerare che se un giorno è per Dio come mille anni e mille anni come un giorno, potevo sperare dato che nessuno di noi vive mille anni, ma neanche solo un giorno, che Dio non avesse nella sua agenda di oggi la fine del Mondo, e che tutta la mia intera vita, per metà trascorsa all'interno dell'armadio in cui mia mamma mi aveva simbolicamente chiuso, poteva passargli del tutto inosservata, o di certo sembrargli  meno orribile di quella di tutti coloro, mia madre compresa, che non erano stati capaci di dire un semplice : ti voglio bene.

Il mondo avrebbe continuato ad esistere, perchè la fine non arriva mai quando te l'aspetti, e il secondo millennio avrebbe portato nuove “profezie” sulla sua fine, nuove smentite, e vecchi errori ripetuti da un umanità troppo simile a se stessa. Nuove armi di distruzione di massa, sarebbero state costruite e vendute, non ultima delle quali il Jersey di cotone che non meno letale dell'idrogeno, avrebbe fasciato inutilmente grossi culi femminili come anche il loro esatto opposto, con eguale risultati. Ma quello almeno non sarebbe mai entrato nell'armadio di mamma, e questo poteva bastare per andare avanti. La fine del mondo un giorno arriverà, cara mamma ma devo ammettere che per me sei già tu. Quarant'anni passati ad aspettare il tuo amore, mi convincono che quel treno non sia mai partito dal tuo cuore nella mia direzione, che sia inutile credere ai ritardi, alle deviazioni, agli scambi sabotati, perché non c'è convoglio che possa metterci così tanto a fare un tratto di vita tanto breve. Io non avevo sbagliato stazione, semplicemente non ero mai partito davvero. Io dovevo lasciare te con amore, lasciarti libera di rifugiarti dove meglio credi, nel buio profondo in cui ti senti sicura che nessuno veda ciò che sei veramente, senza seguirti con la luce fastidiosa della mia verità. A chi dirai ti voglio bene un ultima volta, se non l'hai mai fatto una prima?

Nel novembre del duemilatre, conobbi un uomo, gli chiesi il numero di telefono e dopo circa un anno andai a vivere con lui, e mi segnai quel numero nel portafoglio. Ogni giorno da allora in cui salgo in un ascensore o vedo un aereo vicino ai palazzi della mia città, laddove non sia con lui, tengo il telefono e il mio cuore pronti a dirgli quella frase. Ogni giorno da quasi dieci anni.

Qui si conclude il mio parlare e riparlare di me e del mio passato perchè: “Le pene degli uomini sarebbero minori se essi - e Dio solo sa perché son fatti cosi - non si accanissero a rievocare con la forza dell'immaginazione il male passato, piuttosto che accettare un tranquillo presente.”
Johann Wolfgang Goethe



giovedì 17 gennaio 2013

Quarant'anni nell'armadio di mamma. gli anni novanta ultima parte



Ormai era fatta e nel modo più rumoroso possibile, modo che, non mi avrebbe abbandonato per diversi anni. Ero uscito di casa, mi ero sottratto a qualunque condizionamento forzato, o almeno pronto a nuovi condizionamenti. Milano, offriva  suggestioni a iosa da cui lasciarsi condizionare, e una delle prime cose che imparai fu quella di usare l'armadio come metodo di comunicazione.
Se prima, pur avendo un vago concetto di gusto, ritenevo i miei abiti solo indumenti più o meno graditi, la vita in città mi mostrò che essi erano un modo per parlare di se, per collocarsi eventualmente o di certo un non trascurabile anticipo di sé al mondo. Le vie di uno shopping che non potevo di certo permettermi erano però di grande ispirazione, oltreché un sanissimo svago. Mi capitava certi lunedì di passare semplicemente di li per immergermi nella sapienza di certi maestri dello stile, e i miei occhi si saziavano di ogni forma, colore e foggia le vetrine avessero da offrirmi.
“Lo spuntino del cuore” lo chiamavo tra me e me!
A Milano nessuno usciva di casa così come capitava, non se anche quella casualità non era stata accuratamente selezionata per uno scopo. Erano gli anni in cui sentivo parlare di “minimalismo” ed “essenzialità”, in cui i tessuti diventavano tecnici, e il cashmere non era solo geografia! Il primo stimolo che provai fu quello di avvicinarmi al concetto di borsa, che in fondo mi era sempre appartenuto fin dai tempi in cui frugare in quella di mia madre mi dava un piacere smisurato, ma cominciai con un prudente zaino che rigorosamente nero maneggiavo più volte un po' per sbadataggine un po  per riprovare la sensazione che fosse mio.
Il mio corpo ancora acerbo, sebbene già più che venticinquenne, ben si prestava alle magliette da discoteca un po' corte e aderenti che si portavano con pantaloni altrettanto stretti e lunghi spolverini in pelle (nel mio caso plastica), oppure a certi completi anni settanta che trovavo nei negozi di seconda mano.
Il mio lavoro cresceva insieme al consenso dei clienti nel negozio che mi aveva assunto “in regola” realizzando quella specie di  “sogno americano” che lo stabilirmi  in una città che non conoscevo mi pareva farmi vivere. La cosa che più adoravo di Milano era l'assoluta mancanza di interesse che la gente mostrava per come uscivi di casa, un anonimato leggero di cui la mia anima fin troppo sottoposta a giudizio negli anni precedenti, si dissetava senza limiti.
Limiti che col tempo imparai comunque a darmi, perché non c'è come la libertà di sbagliare che ti spinge al buon senso, o a più moderate interpretazioni della libertà stessa!
Una volta lasciato Claudio, vissi in una di quelle case che qui si chiamano “di Ringhiera” tipiche della zona dei Navigli dove il pianerottolo è esterno e casa tua è la passerella di tutti coloro che abitano nella stessa ringhiera. In quella che fu la mia prima casa da solo, sperimentai anche il concetto di arredamento. Scoprii cos'era L'Ikea e comprai la mia prima cassettiera alta sulla quale misi il telefono di casa, che faceva tanto indipendente. Di sera seduto su un alto sgabello da bar recuperato chissà dove telefonavo a mia madre, raccontandole quel poco che potevo di vero e una discreta quantità di bugie pietose che mi vedevano lavorare e dormire, ma d'altronde niente di ciò che mi faceva davvero felice avrebbe reso felice anche lei.
 Le clienti mi fornivano mille modelli di comunicazione affascinanti e dettagli di stile che come i bottoni della nonna custodivo nel mio cuore di latta e che mai come in quegli anni, mi arrivavano conditi  di buona educazione, gentilezza e apprezzamento. Così cominciai a “ricalcare” alcuni modelli di stile o di linguaggio che trovavo eleganti e che meglio arrotondavano le asperità della mia condizione. Può sembrare che forzassi la costruzione di un personaggio ma in realtà istintivamente ne delineavo meglio uno che mi piacesse, che mi facesse apprezzare il costo molto oneroso di quella libertà. Inoltre non c'è da dimenticare che leggere e studiare erano due cose che la mia educazione precedente  aveva impresso a fuoco. Perché di una cosa ero certo: Genova e Milano erano come mia madre e sua sorella, due realtà inconciliabili. Genova, lamentosa e pigra graziata dal mare ma senza slancio proprio come mia madre e Milano invece, indifferente e  immersa nella sua nebbia come mia zia nei ronzii delle sue orecchie, sapeva però apprezzare le persone sveglie e motivate,  ed essere  generosa con chi si dava da fare..
Se i genovesi erano noti per la loro avarizia i milanesi lo erano per “avere il cuore in mano”.

Cercai in quegli anni, di introdurre nell'armadio di mamma qualcosa di nuovo secondo i dettami che imparavo ogni giorno persino sul tram, e così le comprai qualche paio di elegantissime giacche di lana Merinos( non sapevo della quantità di razze caprine ricoperte di lane meravigliose) con bottoni dorati che tutto fiero speravo le dessero soddisfazione o forse che ancora una volta “giustificassero” la mia distanza, e che pur costandomi qualche tredicesima, venivano accolte come una inutile follia, così come di quello doveva trattarsi quando continuava a dirmi che odiava quella città.
Avvicinandoci alla fine degli anni novanta la profezia apocalittica del “mille non più mille” sembrava assonarsi alla canzone “Come vorrei avere mille lire al mese” perché a distanza di pochi anni una nuova moneta avrebbe sostituito le lire e forse determinato veramente la fine di quella che deve essere stata una illusione di prosperità tipica degli anni novanta, dove la carriera era il mito da conquistare per le donne e l'unica ragione di vita di molti uomini.
Gli amori che ebbi in quegli anni non poterono paragonarsi allo smisurato sentimento che l'ingresso della mia gatta siamese generò in me. Con lei feci otto traslochi e innumerevoli viaggi rimanendo seduto con lei sul divano di ogni casa, intanto che il mantra felino delle sue fusa determinava l'inizio della mia seduta ipnotica a base di sicurezza. Lei mi aiutò a vincere le mille paure del vivere da solo perché in realtà  con lei vicino non lo ero più.
I rumori con cui avevo iniziato a vivere davvero, erano echi di sottofondo ma le fondamenta di questa scelta sarebbero stati scossi da un evento che non era mai accaduto prima...e che per un lungo attimo mi spinse a dubitare di me stesso.

mercoledì 9 gennaio 2013

Quarant'anni nell'Armadio di mamma: gli anni Novanta parte prima


Dopo che le mani di tutti si erano ben infilate nella pasta degli anni ottanta, cominciò a crescere una strana  voglia di “averle pulite”. Non era la prima volta che qualche potente volesse lavarsele, ma fu di certo la prima in cui  il Pilato della situazione usò la magistratura invece della solita acqua.
Si aprì quella che venne definita seconda repubblica seppure la carta costituzionale rimase inalterata.
Anche la vita con la Maria Luisa rimase pressoché inalterata, solo che lei non si era accontentata di lavarsene le mani, ma anzi, credeva di aver fatto tutto il bagno. E ancora una volta poteva sentirsi “a posto”. Il matrimonio di mio fratello la vide indossare non so con quale ardire la mantella bianca di lapin a noleggio  della moglie di mio fratello, e fu immortalata con un sorriso ebete al fianco di mio padre che indossava una smorfia di stanchezza, dovuta al tumore che già inconsapevolmente si era fatto strada in lui.
Io alla vista di questa pagliacciata finsi una intossicazione dovuta al pesce scadente del banchetto e mi feci portare a casa dal vicino dei miei. Nel tragitto ebbi un barlume di saggezza chiedendomi se veramente quello spettacolo decadente, avrebbe mai potuto fare per me. Lasciai al banchetto anche una fidanzata che seppure devo riconoscere non aveva molto a che fare con quel contesto, di certo ne aveva poco anche con me.
Gli anni Novanta videro la morte di papà e la sua candida frase : non credevo di avere una famiglia che mi volesse bene. Parole semplici ed eterne che  avrebbero scavato in noi, più a fondo della sua stessa scomparsa. Morì in casa una mattina, mentre io lavoravo,  il  tre di un agosto torrido del 1993. Il ventiquattro fui io a sposarmi e a ricredermi sulla decadenza del matrimonio di mio fratello, che per quanto sinistro non poté mai eguagliare la tragicità del mio. La Maria Luisa si fece immortalare in un'altra istantanea che ne coglieva tutta l'assenza di senso. Cinquantotto giorni dopo, mi svegliai da un sonno denso durato qualche anno, e compresi che se Arafat e Rabin potevano avere il premio Nobel, forse anche io meritavo qualche cosa in più. E così mi separai.
Fece il botto questo divorzio, il primo in famiglia( nel ramo materno almeno), e rese evidente la saggezza di un'altra frase che mio padre disse a mia madre prima di morire, e che mi fu riferita da terzi molti anni dopo: digli che “non fa per lui”. Finì anche la mia convinzione religiosa, e dopo essere stato espulso come “fornicatore”, esplorai meglio il significato di quella parola.
Altre parole assunsero un nuovo significato, parole come autonomia, amore, e famiglia.

In quegli anni le top model cominciarono ad affermarsi distinguendosi dalle semplici modelle per una autentica immagine da superstar! Claudia Schiffer, Kate Moss e Naomi Cambell riconfigurarono il concetto di donna, aumentando  di molto il disagio delle donne comuni, e invece aumentando moltissimo la fantasia del mondo gay.In particolare, mi resi conto nel vederle camminare, che il nostro corpo non era solo un involucro ma  un potente mezzo di comunicazione. Fino ad allora, il mio, era stato oggetto di preoccupazione, di rimedi, di condanna, di desideri inconfessabili, di fastidio ma mai di piacere, tranne occasioni segrete delle quali mi vergognavo. Cominciai quindi a smettere di esservi contenuto e cercai di amplificare la sensazione di piacere che provavo guardandomi “verso gli altri”. Non era qualcosa che volevo sfacciatamente offrire a chiunque, ma piuttosto, un valore che non temeva più  di affermarsi e come tale di avere un nuovo significato! Io esisto!
Serie televisive come Friends si affacciarono alla televisione, e parlando di come alcuni ragazzi potevano vivere amicizia amori e un senso di famiglia meno tradizionale, sebbene mai quanto quello che scoprii con Claudio.

Con lui affrontai il buio di quegli anni un po' scombinati, e scoprii che essere un “senzafamiglia”, mi avrebbe permesso di trovarne una che “facesse per me”. Pur avendo più di settant'anni, i suoi genitori adottivi( che combinazione), si dimostrarono più amorevoli con me di quanto mai avrei potuto sperare, e porto nel cuore ancora oggi i loro nomi: Maria, Giacomo, e la zia Tina e suo fratello Giuseppe, i quali vivevano tutti insieme in un già moderno concetto di famiglia allargata.
Memorabile protagonista indiscussa dei miei anni Novanta fu anche  una signora incontrata per caso, che pur avendo lo stesso nome di mia madre, aveva un modo di essere madre davvero speciale. Mi accolse come un figlio per molti anni e con lei scoprii il dialogo che ogni figlio dovrebbe poter avere con sua madre. Non che vissi a casa sua, era già più che affollata dai suoi figli e dal marito, ma ogni giorno passavo da lei, e nel suo giardino con u bel caffè di cui ricordo ancora l'odore, mi confessò il motivo del suo affetto per me. La prima volta che mi vide, i miei occhi le scossero il cuore riportandole alla mente gli occhi di un suo grande amore, e così senza ragionarci sopra, rispose nell'unico modo che le veniva naturale. Mi volle bene, e ne volle anche a Claudio, come avrebbe fatto una madre.
Ebbi anche io le mie “Tre Marie”, ma soprattutto ebbi nel mondo tanto spaventoso che mi era stato descritto, più umanità che nel “paradiso perduto” da cui ero stato cacciato.


Verso l'inverno del 1995 circa io e Claudio, lasciammo quella città e ci trasferimmo a Milano, la Sodoma del nord (per la Maria Luisa), città che io non avrei più lasciato, a differenza del caro Claudio, che temo di aver amato più per la sua capacità di fare ciò che voleva, che per un vero amore. A lui, però devo la liberazione del mio corpo, e quella coscienza del piacere che non avevo mai avuto prima. Con lui scoprii che due uomini possono perdersi davvero l'uno nell'altro senza vergognarsi!