giovedì 12 ottobre 2017

Maschiario cap9: due palle.

Dopo la perdita e  il potere, il possesso è la terza p della trinità maschile. “È mio” dice il bambino dei suoi giochi e lo stesso lo dice il maschio del suo pene, del motorino, della sua automobile, della sua fidanzata, dei soldi, dello spazio, del mondo. Man mano che il maschio aderisce al modello educativo che lo scarna  indurendone la pelle e il cuore, riceve premi materiali e in sintesi, il permesso di possedere ciò che vuole dato ciò che perde spesso senza neanche accorgersene: la sua dimensione interna. Credendo di scalare una vetta  sulla cima della quale incontrerebbe se stesso, il maschio, viene appesantito  da una serie di zavorre “premio” che in realtà, mirano a farlo fallire nello scopo di arrivarci e di crescere. I maschi che invece destano preoccupazione perché sono per natura più inclini a condividere le loro cose o i loro sentimenti, quelli  definiti tanto “buoni” ma in realtà già avviati alla panchina del successo virile, vengono di solito invitati a mostrarsi più crudeli o altrimenti, se incapaci di bruta prepotenza,  inglobati nella nebbia materna che li rende invisibili alla società in modo da coprire l’imbarazzo dei loro genitori. I bambini troppo sensibili, i futuri Mammoni, bamboccioni o come li chiamano i loro coetanei i “ricchioni" se nascono gay.
 In quello spazio angusto a stretto contatto con i propri uomini neri, alcuni sviluppano una crescita verso il proprio interno, un timido possesso di se,  altri la schizofrenia o disturbi sociali di una certa importanza.
Espulsi dalla stanza dei sigari o mai ammessi, ci si ritrova in cucina con mamma o confinati con ogni ben di Dio nella propria cameretta o come me, in una stanzetta da soli a meditare sulla propria natura “sbagliata”.
Mio fratello, che non cresceva in altezza, smaniava dalla voglia di possedere i simboli del successo virile e dal momento che faceva ciò che ci si aspetta da un maschio mostrando aggressività, violenza, gelosia e un talento per le bugie, gli venivano perdonate cose come rubare i motorini, lasciare debiti e non giustificare la provenienza dei soldi che cominciava ad avere, soprattutto da mamma, che in fondo, voleva  che il suo bambino sorridente continuasse ad essere felice, in modo da non venire mai a contatto con la sua realtà limitata. Aveva cominciato camminando in punta di piedi a mostrarsi “grande” e da grande, sulle stesse punte si mostrava fiero della Kawasaki verde che a malapena reggeva, comprata coi soldi delle tasse che l’anno dopo, avrebbero visto papà altrettanto colorato, nell’apprendere che non le aveva pagate. Sempre per colpa di qualcun altro, la sua riuscita personale continuava sfuggirli, e in casa, nessuno si poneva il dubbio che non ne fosse all’altezza dato che, abituato al premio, aveva cominciato a darseli da solo, crescendo in arroganza la statura che non aveva.
Come un pescatore incapace, mio fratello si dotava di esche variopinte da gettare nel bacino della “pesca facilitata” delle femmine dall’occhio di triglia, dedicato ai maschi dalla nostra società, finendo per mentire, come i pescatori, sull’entità della sua pesca. Nel frattempo io, maschio sbagliato, riflettevo sull’unico possesso che ero in grado di esercitare: il mio ciuffo che proprio quando cresceva abbastanza da piacermi, venivo obbligato a tagliare perché ci mancava solo il ciuffo lungo a gridare la mia differenza ai quattro venti. Perché mio fratello poteva esercitare un potere su se stesso che a me veniva negato? Semplice, perché il potere che avrei esercitato io avrebbe esaltato il mio io, la mia unicità, mentre lui con le sue cazzate megalomani esaltava il concetto accettabile di un “noi” maschile che lo rendeva uguale agli altri, anche se di fatto era considerato un coglione e si dimostrava irresponsabile e cieco.
Lo stesso motorino che riuscii a farmi comprare, aveva per me un valore ben diverso da quello  che mio fratello dava alla sua moto: io lo consideravo un mezzo per raggiungere un altrove, per sentirmi padrone di correre incontro al mio destino più velocemente perciò non dedicavo a quell’oggetto nessuna altra attenzione che non riguardasse il pieno del serbatoio. Se fosse stato un calesse, una zattera o una catapulta non avrebbe fatto differenza, tant’è che più di una volta smontavo dalla sella lasciandoci le chiavi attaccate o ero disposto a rompermi l’osso sacro in una strada sgangherata per raggiungere il luogo di osservazione di questo o quell’altro soggetto dei miei desideri. Mio fratello invece, non prendeva le buche, non usciva se pioveva per non sporcarla ed infine, passava più tempo sul piazzale che altrove e col suo pene roboante e spropositato, cercava semplicemente di far apparire il proprio vuoto interiore più carrozzato!
Gli piaceva la Lilliana, come piaceva a tutti la biondina un po oca e carina del secondo piano ma lei passava davanti a lui e alle sue punte dei piedi per infilarsi nella macchina sportiva di un maschio meno in bilico e con un pene più roboante del suo, senza degnarlo di uno sguardo. Le femmine dall’occhio di triglia erano coscienti del potere che esercitavano e della conseguente competizione che instauravano tra i maschi e se c’è una cosa certa tra maschi, è che ce n’è sempre uno che ce l’ha più grosso.
Io ero felice di averlo un fratello e preparavo per noi elaboratissimi schemi di gioco che ovviamente venivano ignorati. Fin qui tutto normale dato che un fratello piccolo, sebbene di poco, resta sempre un fastidio, tuttavia, nella sua naturale insofferenza, si annidava un ombra più oscura della semplice rivalità: il possesso della mamma. Questa era la altissima posta in gioco per lui che la aveva avuta tutta per se, quindi, non gli sarebbe bastato ignorarmi ma doveva spingersi più in la se voleva possedere anche le sue attenzioni. Dimostrare che io non ne fossi degno quanto lui, sorridendo di più, chiedendo di più, o soffrendo di più. I miei si posero il problema della sua gelosia quando eravamo piccoli, ma lo risolsero con l’opportunismo degli adulti e loro propensione alle soluzioni facili e immediate e cioè, dandogliele tutte vinte. Questo, fino a quando la mia netta superiorità intellettiva non finì per oscurarlo anche di fronte agli altri, spingendolo a odiarmi come un Caino odiò Abele.  La faccia da triglia di mia madre al matrimonio di mio fratello resta immortalata in una foto dove mio padre, già malato, sembra non farcela neanche a guardarla e io non ci sono perché feci finta di stare male per andarmene da una allora fidanzata e lasciargli, con una pietà che non avrebbe meritato, le attenzioni degli ospiti che da li a poco non si sarebbero più ricordati neanche  il pietoso cartellino di noleggio che penzolava dal pelliciotto della sua sposa.
“Tuo fratello soffriva tantissimo e così ti abbiamo fatto sentire sempre inadeguato e incapace di soddisfarci fino a quando disperato, sei andato in cerca di approvazione nei posti sbagliati” scrisse mia madre di me  molti anni dopo, mentre di mio fratello, si disse solo che alla fine dopo una logica gelosia, una normale adolescenza turbolenta e un testicolo in meno poverino, aveva trovato una brava ragazza e si era sposato. 
In pratica, nonostante l’ammissione di un piano di svilimento della mia persona si sosteneva che alla fine avevo comunque sbagliato io, come se il mio  fosse stato una specie di errore di mira o peggio ancora una sorta di menomazione da avere per fare il paio con la sua! Si fece di lui un monumento al lieto fine maschile e dopo aver fallito nel tentativo di piazzarlo per conoscenza in un pubblico impiego gli si perdonò anche di aver lasciato un mare di debiti imbarazzanti a cui far fronte ogni volta che faceva “l’imprenditore” e dopo di non aver dato nipoti come a me  fu sempre ricordato di non aver “voluto” fare. Del resto, io, oltre che avercele pari, le avrei  moltiplicate le palle  nella mia idea di “famiglia” con un altro uomo, perciò la mia procreatività mancata era un affronto alla dotazione naturale che avevo ricevuto rispetto al mio povero fratellino, l’ennesima conferma di uno sbaglio utile a farlo sentire un vero maschio!

Ci vollero  davvero le palle per capire che la più alta forma di virilità non era possedere due testicoli, una moglie, o un Kawasaki ma un cuore coraggioso a sufficienza per capire chi tra noi  era davvero disperato e nel posto sbagliato e per smettere di sentirmi  e vivere come serviva a loro. 


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