
Giovani e pieni di ribellione, me li immagino ritrovarsi spesso a discutere tutti insieme di amore libero, politica e famiglia, ad immaginarne una che rompesse gli schemi bigotti nei quali erano cresciuti. Forse, accade al mare una sera di autunno accanto ad un falò, finalmente soli e liberi si sono amati così i miei genitori naturali. Purtroppo però quel desiderio bruciante fomentato dall'infelicità che li aveva attratti, li allontanò quando mia madre scoprì di essere incinta di suo cognato.
D'amore penso si sia trattato, se negli anni in cui abortire era un modo per affermare la propria indipendenza e diritto a scegliere, lei non lo fece e invece di sminuzzarmi consegnandomi al nulla dal quale ero stato chiamato, mi lasciò lì ad aspettarla. Si, perché anche se era incinta di me, ero io che la aspettavo, che aspettavo senza difesa che la luce mi mostrasse il suo volto.

Che anni quelli, anni di piombo, anni in cui i cambiamenti si generavano con violenza per la società e anche per me nel mio piccolo. La mia adozione venne dichiarata “protetta”, ma nulla mi protesse davvero se non il cielo in qualche buffo modo.
Guardavo le scarpe di mia madre “come se fosse mia madre”, col tacco quadrato e alto in similpelle bordeaux e maxifibbia in finto osso con stupore e di lei fotografavo ogni cosa.
I suoi occhiali neri e grossi tanto simili a quelli che consideriamo “moderni” oggi, si abbinavano al capello corto e cotonato che le facevano sembrare la faccia piccola, la manica del suo cappotto marrone a losanghe era ruvida, lo sentivo sulla mano piccola ogni volta che mi sfiorava mentre camminavamo per mano.
Quella donna non portava i pantaloni tanto in voga verso la fine degli anni settanta, non come forse li aveva portati la mia madre biologica, attillati e a zampa di elefante, e neanche la minigonna che li aveva preceduti. Non c'era nessuna ribellione estetica nei miei genitori adottivi, nessun tipo di sperimentazione moderna del concetto di famiglia. Niente di “stupefacente” a casa nostra che era arredata secondo il gusto dell'epoca e le modeste possibilità di papà, preoccupato per la crisi petrolifera del 73 e le norme di “austerity” energetica a cui ci si doveva assoggettare. Ma da li a poco lui e sua moglie sarebbero stati considerati come “pari” dalla società, anche se non credo che fossero coscienti di cosa significasse.
Dalla scatola dei bottoni di mia nonna nacque credo il mio amore per l'estetica, giocavo solo con quelli quando andavamo a trovarla, una scatola di latta che conservo ancora, colma di bottoni gioiello di epoche precedenti, li mettevo in fila sul tavolo del suo soggiorno, attento a non disturbarle e molti di loro luccicavano colpiti dai raggi di sole che passavano dalla finestra. Lei era una sarta, ma ormai faceva più poche cose. Nella dispensa oltre alla scatola di bottoni aveva una raccolta completa rilegata in pelle della rivista Grand Hotel che potevo sfogliare!
Donne filiformi indossavano strani abiti, e parole incomprensibili per me credo li descrivessero, parole come tailleur, longuette e décolleté. Ricordo però che niente di simile era presente nell'armadio di mia madre come se fosse mia madre, ne per le strade e ritenni che dovevano essere proprio cose vecchie. Vecchie e magnifiche.
Col mio montgomery ruvido quanto il cappotto a losanghe marroni di mamma, e un altrettanto ispido berretto di lana calcato in testa, tornavamo a casa.
A ben pensarci, quegli anni non erano poi tanto diversi da oggi, insoddisfazione violenza e incapacità dello Stato di risolvere questioni economiche causavano le stesse ansietà di oggi, ma questo perché ancora non eravamo entrati nei magnifici anni ottanta. A casa ascoltavamo la filodiffusione da una radio rossa con soli tre rumorosi bottoni e il filo nero che spezzava il disegno a fiori, delle piastrelle della cucina.


La mamma allora, tirava fuori le sue scarpe di tela con la zeppa di corda e i lacci alla caviglia e la borsa di maglia color mattone, i vestiti in acrilico che mi davano sempre la scossa e il costume da bagno con i pantaloncini scuri a vita alta (niente bikini) e il pezzo di sopra a fiori di un colore spento.
Papà controllava che la tela della tenda comprata a rate non fosse marcita nel garage e preparava l'immancabile “portapacchi” della sua 128 per la partenza.

Inutile dire che la nostra tenda era sempre la più lontana dai bagni pubblici del campeggio, che facevamo con la zia Ada suo marito Fausto e i due loro figli. La Zia Ada si specializzò quegli anni nel lancio della pentola del sugo (cadde numerose volte negli sconnessi vialetti dei campeggi con la pentola in mano).
Nel 75 avrei cominciato la scuola, ovviamente pubblica.


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