giovedì 13 dicembre 2012

Quarant'anni nellarmadio di mamma: gli anni Ottanta ultima parte




L'avevo immaginata dalla finestra della “stanzetta” la mia maggiore età e ne avevo circa quattordici quando in quell'angusto stanzino dove mi rintanavo per sfuggire a loro, a Dio e  persino a me stesso, fissavo la finestra che dava sul giardino di casa immaginando di aprirla, o meglio, di passarci attraverso e volare.
Volare via da una famiglia spaccata a metà, volare via dalle domande, dalle risposte dogmatiche della religione, ma soprattutto dall'angoscia che a quell'età si prova per l'uomo che non si è ancora in grado di essere ma che il mondo “dei grandi” pretende  già di vedere in noi. “Farò questo, e quello” dicevo con poca convinzione  ad un uditorio fatto di pupazzi con cui non giocavo più da tempo, ma dai quali non volevo separarmi. Ogni tanto li prendevo tra le mani chiedendomi dove fosse finita la gioia e il conforto che  fino a poco tempo prima, erano in grado di suscitarmi e lentamente capivo che questo era il prezzo di  diventare grande: il silenzio degli amici di infanzia che rendeva inanimato anche me. La perdita dell'indulgenza, semmai ve ne fosse stata per me da parte degli adulti, che ora volevano di certo qualcosa “in cambio” per il tempo concessomi a fantasticare. Ma cosa? Qualunque cosa fosse, includeva per mia madre “come se fosse mia madre” una donna timorata di dio e un matrimonio, e come disse mio padre pochi giorni prima di morire: quelle cose non facevano per me.
Intanto che i Duran Duran si affermavano, insieme a diversi gruppi musicali le cui canzoni occupavano le musicassette che registravo dalla radio, dall'altra parte del mondo,( quella dove  credevo di finire a furia di scavarmi dentro) pacifiche proteste di giovani  in piazza Tiennamen  venivano soppresse nel sangue come sempre accade quando  un regime si oppone ai cambiamenti, di cui i giovani sono “portatori sani”.  Mi sentivo come loro, in un certo senso, ma il mio spirito non era pacifico quanto il loro, né la mia protesta sarebbe stata tanto dignitosa.

Diciotto anni erano arrivati e ora ero solo più colpevole di prima per ogni mia azione, pensiero o volontà che non rispecchiasse le aspettative di chi mi aveva cresciuto, e a sentire lei, anche di Dio, al quale i miei pensieri non potevano essere nascosti. Non c'è da stupirsi quindi se dal momento che la privacy era impossibile, non mi restò altra scelta che manifestarmi quasi apertamente. 
Gli anni ottanta furono il decennio dell'Aids che fu dichiarato pandemia e che con grande furbizia fu attribuito agli omosessuali come “logica conseguenza” della loro condotta, soltanto perché i primi casi in America furono scoperti su alcuni di loro. Immaginate che sollievo fu per mia madre vedersi materializzare la punizione divina, nonostante malattie altrettanto devastanti come la sifilide, prima di trovarne una cura,  avessero già decimato secoli prima, l'umanità eterosessuale ….e promiscua.
Non pensai mi riguardasse, come non lo pensava nessuno allora, e continuai a vivere.

L'avevo seguito quell'uomo incontrato una mattina in centro, l'avevo seguito nel suo ufficio e da li ne ero uscito un po disgustato ma certo che ormai non potevo più tornare indietro.
Non li rividi più quei pantaloni, probabilmente macchiati che non mi curai di ripulire perché in fondo volevo che lo sapessero. Ma ora che le peggiori paure di mia madre “come se fosse mia madre” si erano concretizzate, sotto forma di sporco biologico( non ho mai capito come ne riconobbe l'origine)  non mi restava che parlarne. Affrontai quello sguardo di disgusto nei suoi occhi, e gli dissi la verità senza nessuna garanzia di sopravvivere alla sua disapprovazione o a quella divina che fosse, e in fondo non cambiò nulla tra noi.  L'unica differenza era nell'opinione che “gli altri” si sarebbero fatti di lei,  venendolo a sapere. Questa la sua unica preoccupazione. Non mi parlò mai della possibilità ad esempio, che fossi potuto diventare sieropositivo, cosa che credo la preoccupasse molto meno data la sua ignoranza, o che quello non fosse amore.
La comunità religiosa a cui lei mi costrinse seppur senza dirmelo, a confessare i miei peccati prese i suoi provvedimenti ed io affrontai il mio tribunale. Un tribunale umano, fatto di vecchi senza più passioni e di giovani uomini  pieni di pregiudizi e desiderosi solo di mostrarsi virtuosi in vista di un futuro incarico o nomina. Il tutto nel nome di un Padre di un Figlio e di uno Spirito Santo che dubito si trovassero proprio li. Il verdetto chiaro: Colpevole poiché non pentito dei suoi errori. 
Di cosa pentirsi? Di quale misfatto se non quello di buttarsi via, solo per un po di calore umano? Perché di come si vive se stessi quando si è costretti a giustificarsi, nascondersi, camuffarsi non importa a nessuno. Nessuno sente la colpa di spingerti nel baratro della scarsità di autostima, preludio dell'autodistruzione, ma tutti ne attendono l'evidenza per la quale saremo di nuovo gli unici colpevoli.
Mio padre fu tenuto all'oscuro di tutto, mio fratello ebbe la sua occasione di farsi largo, ora che era certo che nessuno avrebbe saputo le cose odiose che mi aveva fatto, e mia madre aveva la  croce tanto agognata da ogni stupido martire.
Io ebbi  la mia libertà. Non fu indolore ovviamente, perché all'interno di quella comunità mi ero fatto delle amicizie, e la mia espulsione  includeva la netta impossibilità a frequentarci, fino a quando almeno non avessi completato il percorso di redenzione. Percorso che per il momento non desideravo intraprendere.
La libertà, così diversa da come me l'ero immaginata,  mi portò nel mondo degli “altri”. Fuori dal soffocante Eden famigliare, scoprii che il termine “mondo”, furbescamente usato dalla comunità religiosa, era usato perché efficace metafore di una vastità da temere, dalla quale fuggire al facile rifugio dei dogmi e dell'appartenenza. Invece, per me la vastità si associava alla quantità di scelte possibili, di opportunità che non senza la tipica ingenuità dei “catechizzati” mi apprestavo ad esplorare.
 In quel tempo di mezzo conobbi lei: Daniela.
Daniela era una ragazza qualsiasi, che conobbi una domenica pomeriggio passeggiando per il centro da solo, ma che ebbe la faccia tosta di rivolgermi la parola, immagino si comportassero così le ragazze, che sapessero ciò che volevano e lei voleva conoscermi. Non era bella Daniela ma era determinata e libera e in un periodo in cui nessuno sembrava gradire la mia presenza, e in cui affermare la mia differenza era difficile, mi lasciai lusingare dalla sua attrazione per me. Con lei e con gli amici di “piazzetta”, che a quel punto ero libero di frequentare, andai al mare quell'estate e fu divertente “avere una ragazza”. Il modo in cui il mondo tutto ti considera quando sei conforme alle sue aspettative è una lusinga difficile da rifiutare, come lo erano i suoi baci salati, ma a Daniela cominciò a non bastare, come non bastava al suo corpo, il succinto costume sgambato.  Il bomber di seta cotta evidentemente mi rendeva irresistibile, per una ragazza di provincia.
Mia madre come se fosse mia madre sembrava sollevata quando le dissi di lei, e purché fosse una ragazza fece deroga alle  sue regole che mi volevano fidanzato con una “buona cristiana”, credo che pensasse che in fondo, qualcosa si potesse ancora salvare della facciata, e si mostrò con lei molto più carina di quanto mi sarei aspettato. Che falsità era capace di approntare pur di “sistemarmi”!
Ma la storia durò poco, Daniela voleva fare sesso come tutte le ragazze della sua età e io dopo aver procrastinato come potevo, mi feci lasciare o la lasciai non ricordo, del resto, delle donne sapevo poco se non la squallida immagine del loro apparato riproduttivo interno vista nell'enciclopedia, e  qualche immagine pornografica  di nudo abbandonata nel parco. Entrambi devo dire affatto attraenti.
Gli anni Ottanta stavano finendo e anche se la vita dei jeans era ancora molto alta, si poteva dire concluso un periodo storico in cui tutti noi avevamo vissuto fuori dalle nostre reali possibilità: mio fratello “come se fosse mio fratello”, si fidanzò con la sua futura moglie, suggellando la sua “inviolabile normalità”, mio padre in silenzio si ammalò di cancro, la Maria Luisa faceva la samaritana seriale e  alla televisione guardavamo  un programma  che si intitolava  “Fantastico”.   
L'armadio di mia mamma, vide l'ingresso di un capotto grigio  a vestaglia lungo con le spalline come usava a quell'epoca, e come un intruso là nel buio di quei capi io aspettavo ancora che le ante si spalancassero e facessero entrare la luce di un amore incondizionato come quello di Dio per suo Figlio, e che francamente mi domandavo perché,  lei  non potesse provare per me.
Alla fine di quell'anno senza Natale, rientrai nei ranghi dai quali ero uscito per renderle chiaro che l'amavo più di me stesso, e ottenni solo di aver fatto “il mio dovere”. Mi dissi pentito e mi accorsi che Dio non era tra noi o io ero un attore magnifico.
Un biglietto freddo nella scrivania della stanzetta recitava:  ora sei il figlio che ho sempre desiderato avere.


I miei vestiti dark finirono nella spazzatura, e orribili maglioni disegno jaquard li sostituirono rendendomi veramente buio. Ma per fortuna, stavamo entrando negli anni Novanta!

martedì 4 dicembre 2012

Quarant'anni nell'armadio di mamma: gli anni ottanta seconda parte








Senza neanche uno straccio di parola, posò la sua borsa di pelle nera con le borchie sul banco di quella maledetta prima liceo, il mio banco, si voltò verso di me e da sotto un ciuffo riccio  rosso semaforo, due occhietti azzurri  mi fissarono inespressivi ma brillanti.
Ciao- dissi incantato dal suo trucco insufficiente a coprire un acne abbastanza vistosa-  vuoi sederti? 
Come se una così aspettasse il mio permesso.
La Simona rispecchiava follemente gli anni ottanta a differenza mia che al massimo sembravo un profugo dell'Est pachistano, in quanto tutto di lei, trasmetteva il desiderio di libertà individuale tipico di quegli anni. Credo che quella ragazza fosse, con quel suo fare lento e la voce che non superò mai la soglia acustica del sussurro, la persona più menefreghista delle convenzioni che avessi mai visto. Quindi la amai.
Lei sembrava ricambiare la mia predilezione, e mi insegnò tutto ciò che una cattiva ragazza può insegnare al suo stupido bambolotto, come  fumare, bere whisky mischiato alla cenere di sigaretta ( droga da poveri che mi fece rifuggire gli alcolici a vita) da un thermos, depilarsi le sopracciglia, vestirsi dark, e ascoltare i Culture Club,  solo per dirne alcuni.
Per lei avrei fatto di tutto, infatti mi depilai le sopracciglia e mi feci truccare tipo Boy George. Ma Do you really want to hurt me, dovetti chiederlo al Preside che mi sospese. Fui rimandato quell'anno ma con la Simona scoprii il fascino del centro storico e dei negozi che vendevano le Creeper il primo oggetto del desiderio di ogni dark, le famose scarpe appuntite con la suola di gomma rigata alta una spanna!
La mia svolta dark andò pari passo con la follia mistica di mia madre “come se fosse mia madre”, quindi mentre lei imparava qualcosa su Satana il Diavolo dai suoi fratelli di fede, io cominciai (per non deluderla) a impersonarne l'aspetto, incorrendo così anche in una sorta di “segnalazione” presso gli anziani della comunità religiosa che credo mi considerassero prossimo alla “possessione diabolica”.
A me giravano solo le palle, e come ogni adolescente mi tenevo tutto dentro, ma l'impressione in quegli anni fu che mia madre “come se fosse mia madre” cominciasse a non considerarmi più “come se fossi suo figlio” ma piuttosto come se fossi una pietra d'inciampo. Fa niente se il primo a farmi sgambetto fu proprio mio fratello “come se fosse mio fratello” il giorno che per umiliarmi mi fece entrare in camera sua abbassandosi i pantaloni,  fatto che poi fu del tutto nascosto proprio da mia madre, la quale passò gli anni successivi ad esorcizzarmi facendomi credere di essermelo inventato. Non fu quello a farmi diventare gay, ma direi che quello avrebbe reso  il mio futuro coming out, una perfetta scusa per tutti! Ormai ero quello strano, il ragazzo sbagliato.
Era il 1985 quando mi ritirai dagli studi, vuoi perché la bocciatura della Simona ci divise, vuoi perché data la fine imminente del mondo anche la Marialuisa non era propensa a farmi diventare un genio, ma di fatto rimasi a casa e mio padre fu chiaro: se non volevo studiare dovevo fare qualcos'altro. Non fosse altro che per ripararmi dai rischi che avrei corso bighellonando in quegli anni. Rischi che allora si chiamavano Eroina!
Siccome ero minorenne non potevo essere assunto, quindi per non marcire in casa nella “stanzetta”( un ripostiglio adibito a stanza dei giochi quand'ero bambino) tipo Harry Potter, quei Babbani dei miei mi mandarono dalla nipote di mio padre a fare l'apprendista pasticciere. La famiglia di mio padre era una famiglia normale in cui si lavorava di giorno, la notte  si giocava a carte a soldi, e si faceva sesso prima del matrimonio, e fu un sollievo stare un po' in loro compagnia...
In centro, paninari e dark se le suonavano di santa ragione, e aprivano i primi Fast Food in stile americano. La mia vita era un vero casino, in settimana tentavo di essere dark ma dovevo leggere la Bibbia e andare con mia madre dalla nonna, la domenica ascoltavo la “Superclassifica show alla radio per sentire i Culture Club di Boy George e mentre Cindy Lauper cantava “Time after time” il tempo sembrava non finire mai alla funzione domenicale obbligata, vestito come un impiegato in giacca e cravatta.
Camminavo come un equilibrista tra sacro e profano, in un sottile filo che mi separava dal vuoto. Io volevo compiacere mia madre, ma una sorta di insofferenza nel non riuscirci mai abbastanza mi squilibrava più dell'adolescenza stessa.
Mio padre ci considerava tutti degli scemi e aveva ragione ma non poteva opporsi alla “illuminazione” della Marialuisa, né tanto meno mettere una bomba sulla via di Damasco che lei aveva intenzione di farci intraprendere tutti “per il nostro bene” ma soprattutto per la sua tranquillità e il suo bisogno di sentirsi giusta. Comunque di fatto lui non si convertì nemmeno in punto di morte cosa che me ne rende il ricordo un fulgido esempio di vera integrità.
Negli anni Ottanta, tutte le ideologie precedenti vennero messe in discussione e il guadagno e la realizzazione personale divennero il nuovo oppio dei popoli, non a caso la conversione fondamentalista in atto a casa nostra rispecchiava la lentezza con cui gli esseri umani si adattano ai cambiamenti in atto, e il loro patetico rifugio in regole più rigide ancora. La società si trasformava più velocemente di come le famiglie erano in grado di fare, men che meno la mia, che di famiglia aveva già poco.
Noi eravamo più che altro una amalgama di persone incompatibili che cercavano di fondersi come l'acqua e l'olio. Pur essendo entrambi simili si separano e noi pur essendo due ragazzi e due genitori non potevamo che “sembrare”una famiglia.
A sedici anni, il mio corpo esile e lungo era oggetto di molta attenzione, perché posso dirlo ero proprio un bel ragazzino. Avevo anche i capelli che persi verso i vent'anni  credo per l'esaurimento che inconsapevolmente mi venne nel tentativo di essere amato da una “santa”, ma a parte i dettagli mi rendevo conto di piacere e questo dato che piacevo alle ragazze ma anche agli uomini, fu un altro passaggio difficile da gestire. Con  quale dei due fare la propria prima volta? 
Ne avrei avute due di prime volte, entrambe piuttosto deludenti come tutte le prime volte.
Finito il tempo della pasticceria e dei pasticci, mi iscrissi ad un tristissimo corso regionale blablabla, e conobbi li altre due icone della mia gioventù: La Cinzia e L'Armanda. Cinzia era bionda bellissima con un seno minuscolo che pur  non necessitando di sostegni sapeva farsi notare da sotto i suoi maglioncini a v altrettanto minuscoli, capelli biondi e risatina, completavano il quadretto della perfetta ochetta ma in realtà la ragazza era una personificazione della moderna emancipazione femminile. Fumatrice accanita e indipendente abitava da sola e aveva l'aria di chi sapeva cavarsela. L'Armanda invece era la sorella maggiore e filiforme della famosa Gilda della terza media, ma a differenza della sorella vestiva new wave che era la versione glamour dei dark( Un dark per ricchi). Così alle otto del mattino la vedevi arrivare con l'immancabile gonna a sirena, calze a rete e tacchi di vernice nera, con capelli ricci  naturali e voluminosi unghie nere e trucco pesantissimo, eppure la sensazione era quella di vederla uscita da una copertina di avanguardia.
Formammo subito un trio inviolabile anche se non ho idea di cosa ci facessi tra Calamity Jane e Elvira la Vampira, visto che il mio aspetto continuava ad essere più simile a un incrocio tra Capitan Harlock e gatto Silvestro! A quel corso di recupero per sfigati non avevamo tutti la stessa età ma la stessa confusione mentale, infatti, c'era pure Simone un uomo di una trentina d'anni moro con gli occhi blu che nel vano tentativo di concupire la Cinzia dispensava qualche manata anche a me, con mia grande soddisfazione, ma che ci tengo a dirlo,  andò in bianco con entrambi.
Con loro ottenni di andare al mio primo concerto rock. Gli Europe cantavano “The final countdown” (il conto alla rovescia finale), e mia madre “come se fosse mia madre” cedette solo perché ci andavo con ben due ragazze, e penso perché il titolo di quel concerto si abbinava in modo ipnotico alle sue recenti convinzioni! Fu stupendo anche se non ricordo nulla tranne la sensazione di enorme liberazione che provai saltando e cantando a squarciagola con la birra in mano!
Gioie da poco, il corso finì, la Cinzia tentò di sedurmi fingendosi malata a casa e invitandomi ad andare da lei che era poco vestita quando mi aprì la porta, ed io, risolsi il tutto gettandole una coperta addosso e facendole mille discorsi sui rischi della polmonite.
Non ci sarebbe più stato un periodo in cui cose tanto stupefacenti sarebbero accadute tutte insieme e con lo stupore e i drammi che le cose nuove portano con se. Di questo ne sarei stato consapevole molto tempo dopo.
Del resto la fine degli anni ottanta avrebbe segnato una svolta epocale per il “ragazzo strano”. Avrei raggiunto la maggiore età dopo averla immaginata in mille modi diversi, come diverso fu il modo in cui la raggiunsi.


Segue....

martedì 27 novembre 2012

quarant'anni nell'armadio di mamma: gli anni Ottanta, parte prima


Il grembiule nero col fiocco azzurro strideva notevolmente col concetto di “esame” della quinta elementare, ma compresi che nonostante avrei preferito alla matematica, persino un volo dalla rupe Tarpea, dovevo farmi forza ed affrontare quello che tutti credevano essere il primo esame della mia vita. Ero bravissimo anche al gioco con l'elastico, ma non era compreso nelle materie di esame così come anche non lo erano gli spintoni alla bambina, con cui mi sarei fidanzato nella seguente prima media, con una semplice stretta di mano al museo di Scienze naturali. Lo superai quell'esame, ma francamente se mi avessero detto che il grembiule non l'avrei più portato comunque, non mi sarei presentato!


 Erano gli anni Ottanta diamine, e uno splendido decennio mi aspettava! Si, mi avrebbe accolto vestito un po maluccio, visto che mi toccavano gli abiti smessi del cugino Claudio, e con uno strano odore persistente che veniva dalle ascelle senza che sapessi perché, , ma presto dopo aver risolto il problema dell'igiene personale, (che a quell'età è una incomprensibile necessità degli adulti), avrei migliorato anche quello, perché negli anni ottanta tutto sembrava migliorare, fiorire, e illuminare il viale del futuro di meraviglia!
La televisione era a colori, e se l'Italia fu una delle ultime nazioni ad avviare le trasmissioni a colori, noi fummo gli ultimi ad averla in casa per non essere da meno! Mia madre “come se fosse mia madre” cominciò a tornare a casa con strani capelli ricciuti, e pareva che quella specie di acconciatura elettrica, fosse “permanente”, anche se non capivo perché se io dovevo farmi la doccia tutti i giorni, lei invece,  fosse libera di puzzare di acido nei capelli, lavandoli solo una volta a settimana! Questo non fu propedeutico alle effusioni fra noi, il che per lei suppongo, fosse un autentico sollievo.


Di tre anni più grande di me, mio fratello “come fosse mio fratello”, aveva una voce sempre più roca e peli sotto il naso che non capivo a cosa servissero ma smise di ascoltare Lucio Dalla il giorno che papà gli comperò “Lo Stereo” coi dischi, mentre io dovevo cavarmela con un complicatissimo strumento che leggeva nastri ed era pure “Geloso”! Noi da quel giorno perdemmo la pace, soprattutto quando tornò con un disco rock che incitava a rompere un Muro, ma che rompeva di più i nostri timpani.
Compresi che lui era davvero “il preferito” quando diversi anni dopo  seppi che in Germania persone evidentemente fedeli allo stesso gruppo rock cercavano di fare a pezzi davvero un Muro, e mentre alcuni di loro furono uccisi per questo, lui che a mio avviso con le vibrazioni delle casse ne era il vero responsabile, non incorse nemmeno in un rimprovero.


La conversione di mia madre “come se fosse mia madre” ad una ben nota religione “porta a porta”(che non vendeva aspirapolveri ma passaporti per un nuovo mondo) avvenne credo in quegli anni o poco prima..e fu l'unica svolta fashion della Maria Luisa, la quale si trovò a confrontarsi con le nuove “sorelle di fede” e i loro armadi. Apro una piccola parentesi sul mio sviluppo in tal senso, prima di tornare alle “sorelle” e i loro casti tagli sartoriali: io, cominciai a desiderare di essere alla moda dopo che la mia fidanzatina tentò di baciarmi, e dopo il conseguente spintone (del tutto simile a quello datole alle Elementari), che inconsapevole del suo intervento al cuore, provocò la nostra separazione e la mia prima sospensione. Che fortuna ebbi nel desiderare la canotta con lo scollo a barca e i lati aperti alla Den Harrow, proprio mentre chi te la poteva comprare si preparava al Giudizio Universale e alla Fine del Mondo!!!! Insieme al concetto di futuro, anche il concetto di concupiscenza, e attrazione naturale subì in me una conversione nel vedere Giovanni, in mutande all'ora di ginnastica,(mutande che nessuno di noi riempiva come lui). Conversione che, non si allineava proprio per niente ai nuovi precetti Marialuisani!
La Maria Luisa non dovette come altre, subire l'allungamento delle gonne, (40 cm dal pavimento max) a causa della fede, perché  era già abituata a nascondere le gambe piuttosto” pesanti” e va anche detto che le sue “sorelle” amavano farsi cucire abiti su misura (a poco prezzo per motivi di fede) dalle sorelle più sfigate della congrega che sapevano cucire. Se è vero che il mondo doveva finire, è vero però che le signore alle funzioni domenicali, non avevano l'aspetto che ci si sarebbe aspettato da delle  aspiranti sopravvissute, infatti, fiorivano abiti  confezionati con stoffe lucide, con enormi spalline e cinturoni ricopiati dal Postalmarket.  Maniche a sbuffo e colori sgargianti per le più agiate, mentre quelle come mia madre “come se fosse mia madre” e a questo punto anche “ come se fosse loro sorella”, venivano ricopiati dal cugino povero del Postalmarket: il Vestro. Con evidenti differenze stilistiche.


Ma fuori dall'esercito dei piazzisti della  salvezza, una giovanetta con i capelli neri e biondi, altrettanto religiosa credo, poiché coperta di croci, diceva a tutti di essere “Come una Vergine” e tutti ci credevano talmente, che fece più proseliti della Marialuisa e le sue sorelle “come se fossero sorelle”! Tutti la chiamavano Madonna e credo che qualche preghiera gliela rivolsi anche io...di nascosto dal momento che non eravamo più cattolici.
Le scuole medie oltre alla mia curiosità per il segreto delle mutande di Giovanni, furono segnate da due cose fondamentali: la giacca verdone della Signorina Ottoboni, l'insegnante di lettere che pareva non accettare gli anni ottanta, quindi vestiva ancora anni settanta, e i completini a pied de poule gigante, che mi incantavano come fossero un gioco del tanto agognato e mai avuto Commodore 64 della Gilda, la più bella della classe, che ci schifava tutti e che si faceva la frangia a fontanella multipla con quintali di lacca!
Alla fine della terza  media, mi ritrovai di nuovo all'esame ma stavolta molto più complesso e senza neanche la Paper Mate la penna più figa che c'era, più figa perfino della Gilda, della gomma pane e della colla con la paletta! Mi promossero con un Distinto che non era poco nonostante nell'ora di artistica disegnassi dei mostri che avrebbero giustificato l'intervento dei servizi sociali. Ma del resto cosa potevano farmi, togliermi dai genitori che non erano nemmeno i miei? Nell'imbarazzo evidente,  mi liquidarono come “molto intelligente e adatto alle materie artistiche”.


L'adolescenza fece il suo ingresso verso la metà degli anni ottanta, dopo che scoprii che una maglietta bianca non poteva essere accettabile se non aveva un po di frutta stampata sopra un cerchio con scritto Fruit of the loom, ma prima di sapere quanto gli Abba (che nel frattempo si erano sciolti) e Boy George sarebbero stati importanti per me.
Le cose a livello economico andavano un po' meglio dal momento che papà era stato promosso Deviatore Capo, e la Maria Luisa per festeggiare  si comprò un paio di occhiali dorati che con la permanente facevano di lei una perfetta cristiana e non sapendosi spiegare altrimenti la mia apatia me ne comprò un paio uguali, forse  perché potessi vedere meglio il mondo che doveva sparire...già da un po' ma che di fatto, sembrava in quegli anni godere di ottima salute.


Insieme al mio amichetto Fabio e a sua mamma, ebbi il permesso di andare per la prima volta al cinema a vedere un mostro che voleva sempre telefonare a casa sua, e che aveva un dito medio rosso e impressionante che si accendeva quando era spaventato.... Che bello il cinema con la mamma di Fabio che i soldi per il pop corn non solo ce li aveva, ma non vedeva l'ora di spenderli!

Ma gli ormoni in quegli anni non provocarono solo la sudorazione imbarazzante di cui ero afflitto, e ben presto il loro lavoro su di me andò a scontrarsi con i precetti a cui mio malgrado ero assoggettato in una Guerra che negli anni ottanta era lecito definire “Stellare”. In bilico tra la principessa Leila e un modesto Ian Solo, passavo da una cotta per l'amico di mio fratello alla sempre più  fraterna amicizia con la figlia dell'amica di mamma. Dalla Bibbia e le preghiere per i peccati, agli annunci Personali(altra invenzione poi sostituita da Internet) del giornale “Seconda mano” che in realtà armarono la mia di mano, facendomi scoprire il piacere dell'autoerotismo.

 Ormai la spaccatura tra me e la mia famiglia era netta quanto quella della carlinga dell'aereo che si schiantò a Ustica, e come quella vicenda si sarebbe protratta per decenni ma ormai dovevo andare alle superiori e altri quesiti più impellenti si affacciavano alla mia mente.
Primo fra tutti, lo schieramento politico tra destra e sinistra che contraddistingueva fortemente gli Istituti statali, e poi la decisione se essere Metallaro o Dark.... Non potendo seguire le mode mondane cominciai ad andarci il più vicino possibile togliendo ogni colore dallo scarno armadio che avevo, e come ogni adolescente fumando di nascosto! 
Le brutte compagnie come le chiamava mia madre “come se fosse mia madre” cominciarono a sembrarmi molto più attraenti dei “fratelli come se fossero miei fratelli” e decisamente più di mio fratello che non era neanche mio fratello sul serio, e nello specifico presero il nome della mia compagna di banco....Simona la quale..


Segue.....


mercoledì 21 novembre 2012

Quarant'anni nell'armadio di mamma: gli anni settanta


 Avvenne tutto probabilmente verso la fine di un ottobre del 1969, ma forse già da un po' i loro sguardi si incrociavano furtivamente tra le occasioni familiari come compleanni e cene abituali.
 Forse entrambi erano già genitori, di certo parenti, ma prima di esserlo erano un uomo e una donna. Tra loro due famiglie formatesi forse nel caos del 68. 
Giovani e pieni di ribellione, me li immagino ritrovarsi spesso a discutere tutti insieme di amore libero, politica e famiglia, ad immaginarne una che rompesse gli schemi bigotti nei quali erano cresciuti. Forse, accade al mare una sera di autunno accanto ad un falò, finalmente soli e liberi si sono amati così i miei genitori naturali. Purtroppo però quel desiderio bruciante fomentato dall'infelicità che li aveva attratti, li allontanò quando mia madre scoprì di essere incinta di suo cognato.
D'amore penso si sia trattato, se negli anni in cui abortire era un modo per affermare la propria indipendenza e diritto a scegliere, lei non lo fece e invece di sminuzzarmi consegnandomi al nulla dal quale ero stato chiamato, mi lasciò lì ad aspettarla. Si, perché anche se era incinta di me, ero io che la aspettavo, che aspettavo senza difesa che la luce mi mostrasse il suo volto.
La vita non è mai ovvia e qualcosa andò storto, poiché il ventitré giugno del settanta quel volto e quella luce io non li vidi, pur venendo al mondo e per avere una famiglia  aspettai altri tre anni, passando dall'ospedale all'orfanotrofio. Ma ero un bambino speciale, qualcuno che forse non poteva amarmi come avrebbe voluto mi riconobbe, mi diede un nome prima di lasciarmi, Fabrizio, come il De André cantante genovese che credo lei ascoltasse nell'attesa e nel tormento su come sistemare la sua situazione.
Che anni quelli, anni di piombo, anni in cui i cambiamenti si generavano  con violenza per la società e anche per me nel mio piccolo. La mia adozione venne dichiarata “protetta”, ma nulla mi protesse davvero se non il cielo in qualche buffo modo. 

Guardavo le scarpe di mia madre “come se fosse mia madre”, col tacco quadrato e alto in similpelle bordeaux e maxifibbia in finto osso con stupore e di lei fotografavo ogni cosa. 

I suoi occhiali neri e grossi tanto simili a quelli che consideriamo “moderni” oggi, si abbinavano al capello corto e cotonato che le facevano sembrare la faccia piccola, la manica del  suo cappotto marrone a losanghe era ruvida, lo sentivo sulla mano piccola ogni volta che mi sfiorava mentre camminavamo per mano.
Quella donna non portava i pantaloni tanto in voga verso la fine degli anni settanta, non come forse li aveva portati la mia madre biologica, attillati e a zampa di elefante, e neanche la minigonna che li aveva preceduti. Non c'era nessuna ribellione estetica nei miei genitori adottivi, nessun tipo di sperimentazione moderna del concetto di famiglia. Niente di “stupefacente” a casa nostra che  era arredata secondo il gusto dell'epoca e le modeste possibilità di papà, preoccupato per la crisi petrolifera del 73 e le norme di “austerity” energetica a cui ci si doveva assoggettare. Ma da li a poco lui e sua moglie sarebbero stati considerati come “pari” dalla società, anche se non credo che fossero coscienti di cosa significasse. 
Dalla scatola dei bottoni di mia nonna nacque credo il mio amore per l'estetica, giocavo solo con quelli quando andavamo a trovarla, una scatola di latta che conservo ancora, colma di bottoni gioiello di epoche precedenti, li mettevo in fila sul tavolo del suo soggiorno, attento a non disturbarle e molti di loro luccicavano colpiti dai raggi di sole che passavano dalla finestra. Lei era una sarta, ma ormai faceva più poche cose. Nella dispensa oltre alla scatola di bottoni aveva una raccolta completa rilegata in pelle della rivista Grand Hotel che potevo sfogliare!
Donne filiformi indossavano strani abiti, e parole incomprensibili per me credo li descrivessero, parole come tailleur, longuette e décolleté. Ricordo però che niente di simile era presente nell'armadio di mia madre come se fosse mia madre, ne per le strade e ritenni che dovevano essere proprio cose vecchie. Vecchie e magnifiche.
Col mio montgomery ruvido quanto il cappotto a losanghe marroni di mamma, e un altrettanto ispido berretto di lana calcato in testa, tornavamo a casa.
A ben pensarci, quegli anni non erano poi tanto diversi da oggi, insoddisfazione violenza e incapacità dello Stato di risolvere questioni economiche causavano le stesse ansietà di oggi, ma    questo perché ancora non eravamo entrati nei magnifici anni ottanta. A casa ascoltavamo la filodiffusione da una radio rossa con soli tre rumorosi bottoni e il filo nero che spezzava il disegno a  fiori, delle piastrelle della cucina. 
Comunque, per un bambino come me, gli anni settanta erano solo numeri, ma la preoccupazione dei miei, i loro discorsi sulla necessità di “accontentarsi”, parlavano di tempi difficili anche  per chi come mio padre pur avendo un “lavoro sicuro”, come statale nelle Ferrovie di Stato, non si schierava politicamente a destra o a sinistra, e Sonny and Cher, sicuramente li avrebbero considerati come matti d'oltreoceano.  Con poche lire, forse cinquanta,tirate fuori da un portafoglio, però ci usciva il gelato col quale lento come sempre finivo per imbrattarmi i vestiti che spesso arrivavano smessi dai cugini più grandi, direttamente nel mio armadio.
Ma c'era anche l'estate negli anni settanta, e quando il grosso telefono nero suonava in casa e sentivo mia mamma proferire la parola “campeggio”, sapevo che era arrivata!
La mamma  allora, tirava fuori le sue scarpe di tela con la zeppa di corda e i lacci alla caviglia e la borsa di maglia color mattone, i vestiti in acrilico che mi davano sempre la scossa  e il costume da bagno con i pantaloncini scuri a vita alta (niente bikini) e il pezzo di sopra a fiori di un colore spento.
Papà controllava che la tela della tenda comprata a rate  non fosse marcita nel garage e preparava l'immancabile “portapacchi” della sua 128 per la partenza.
C'era anche mio fratello come se fosse mio fratello che nel 73 aveva sei anni e portava ancora i sandali con gli occhietti mentre io quelli da frate! La televisione era ancora in bianco e nero, nera  come la mia immaginazione e bianca come il cappellino alla marinara che mettevo al campeggio.
Inutile dire che la nostra tenda era sempre la più lontana dai bagni pubblici del campeggio, che facevamo con la zia Ada suo marito Fausto e i due loro figli. La Zia Ada si specializzò quegli anni nel lancio della pentola del sugo (cadde numerose volte negli sconnessi vialetti dei campeggi con la pentola in mano).
Nel 75 avrei cominciato la scuola, ovviamente pubblica.
In questo viaggio nel tempo, vi porterò con me tra l'armadio di mamma e il mio,tra la nostra vita ridicola e drammatica e il glorioso tempo dell'innovazione,  fino ai tempi moderni. Perchè dovreste venire con me? Perché intanto tutti avete ficcanasato nell'armadio delle vostre, e in secondo luogo perché intendo raccontarvi il profondo divario che c'era tra la vita della gente comune e il mondo della moda, ma soprattutto perché quel trentennio portò vere novità. Il baule della moda, non era ancora colmo al punto da doverlo “rivisitare”, infatti, in quegli anni si “inventava” e creativo non era chi trovava un modo nuovo di guardare una cosa già vista, ma colui che dal nulla faceva venire alla luce ciò che non c'era.
Tra un racconto tragicomico e dettagli di stile autentico io con la collaborazione di Giorgio Schimmenti vi delizierò spero  di immagini e parole. Il suo prezioso  apporto in qualità di fashion  editor e amico  a questa piccola collana che terminerà con gli anni duemila, solleticherà, spero, il vostro gusto e magari spero vi aiuterà a recuperare oggetti di seduzione e cari ricordi, perché anche voi come noi possiate giungere alla conclusione che il Jersey di cotone sta alla “libertà” come io e mia madre stavamo alla definizione “famiglia naturale”, in modo cioè  inversamente proporzionale a ciò che appariva

venerdì 9 novembre 2012

omofobia: le indignazioni virtuali non ci bastano.

Per la prima volta voglio proporvi la riflessione di un amico sulla bocciatura della legge contro l'omofobia, da poco vergognosamente accaduta in suolo italico. Ma ciò che più mi preme non è la palese indignazione quanto la semplicità con cui Tiziano autore del testo che leggerete, ci mostra la strada più vera per provarne di autentica
:OMOFOBIA
A volte bisogna esporsi ed io lo faccio. E per una volta abbandono la vena sarcastica, a volte acida.
Tema che affronto: la bocciatura della legge anti-omofobia, ennesima bocciatura. E non mi scaglio contro chi non ha votato a favore. Rifletto, perché infastidito, dal proliferare in questi giorni sui vari social di lamentele quasi populiste e di considerazioni sterili e prive di sostanza.
Sono infastidito da chi continua ad affermare che in Italia ci sono il Vaticano ed il Papa ad impedire ogni scelta libera, “moderna” e contemporanea alla società che cambia. Non amo la Chiesa, quella con la “C” maiuscola appunto, ma oggettivamente che vi aspettate? 
Sono poi infastidito da chi in questi giorni pone sempre il confronto tra Italia ed altri paesi: USA, Francia e Spagna aprono al matrimonio tra omosessuali e in alcuni casi alle adozioni. 
Alla prima questione mi sento di rispondere che il problema non è la dottrina del Vaticano ma l’atteggiamento genuflesso della nostra classe politica che ha, ovviamente e da sempre, il suo tornaconto.
In merito a quanto stanno facendo gli altri paesi semplicemente sono più progressisti dell’Italia, da sempre, su tutte le questioni (divorzio, aborto, quote rosa, suffragio femminile ecc.): guardiamo in casa nostra e forse, se ammettiamo che la nostra cultura maschilista e testosteronica impedisce il progresso, avremmo fatto un passo avanti.
Il mio pensiero, ed ho posizioni precise in merito ai temi della lotta gay, è che dovremmo pensare che di per se è mortificante delegare il rispetto della categoria ad una legge che non cambierà l’atteggiamento sociale nei confronti dell’omosessualità: educhiamo i nostri figli (i vostri in realtà) alla coscienza civile, al rispetto, all’educazione non solo in termini di Uomo – uguale – Potere.
Affermo di non credere e/o bramare il matrimonio gay: amore, affinità, condivisione, complanarità emotiva non lo richiedono. Il portafoglio invece si e quindi auspico riconoscimento dei diritti delle coppie di fatto. Ma è un altro discorso.
Non ho alcun interesse in merito all’adozione per le coppie gay e francamente, pur nel rispetto di chi ne sente necessità, non riesco a condividere sino in fondo: ma il mio istinto paterno sta a zero , quasi quanto la necessità di una prospettiva o proiezione di me stesso nel futuro. 
Amo pensare di avere inizio e fine con me stesso e per le –poche- persone che amo.
Tutto questo, sinteticamente espresso, lo affermo nel desiderio di veder superate, un giorno, le etichette: e le etichette saranno cancellate quando i gay, per primi, usciranno dal loro “ghetto” che è innanzitutto spazio-temporale e mentale. E, sottolineo, profondamente vigliacco. In qualche modo è stata venduta l’anima al diavolo della Benevolenza: trasformati in macchiette, piumette svolazzanti, ricchi di clichè spesso patetici; dai tempi del “Vizietto”, e son passati 35 anni, è cambiato il taglio dei vestiti, ma la tristezza è la medesima. C’è un modo per amare chi si desidera senza giustificarsi con il trucco o coprendosi di barba simil virile. 
C’è ancora il coraggio di prendersela per una mancata legge? Per farsi rispettare bisogna evadere dalle proprie prigioni. 
Prigioni che odio quanto odio i ghetti con tutto me stesso e mai li ho frequentati: vivo trasversalmente il mondo e la società. Aggiungo che frequento pochissimi gay, perché di fatto mi annoiano, peraltro frequento pochissimi architetti per lo stesso motivo: ed io lo sono.

venerdì 19 ottobre 2012

Lussi estremi ultimo capitolo: il Futuro.






Al finire di questo percorso, come un fantasma dickinsoniano voglio ricondurvi lì dove tutto è iniziato, in un luogo chiamato mondo in cui abbiamo formato società più o meno civili, e nel quale sono nati, credo dal bisogno di sopravvivere, i valori fondanti delle relazioni umane: famiglia, paese, società, e regole civili. Intanto che formavamo tutto questo i ritmi biologici, le necessità emotive, e la transizione chiamata vita continuava il suo corso parallelamente a noi, ma ferrea nello scandire lento e veloce del “suo” tempo.
Dopo aver esplorato con voi angoli bui del  modo di piegare la vita ai nostri desideri, e aver sorriso delle distorsioni create al fine di dirsi riusciti, non avete anche voi la sensazione che qualcosa sia andato irrimediabilmente perduto?
Ora che possiamo concederci il senso di perdita fino allo spasimo, il diritto ad una vita apparentemente eterna, fatta di amicizie a “progetto”(ognuno il proprio), e che possiamo dirci liberi di amarci a tutte le età e in modo trasversale ai sessi, ora che i sessi non sono più definiti e la riproduzione può essere rimandata a piacere o inseguita all'ultim'ora, ora che l'amore vissuto con ingordigia e palpiti è disponibile a oltranza, perché non ci sentiamo in Paradiso?
Da piccolo avevo un libro che si intitolava “ Dal paradiso perduto al Paradiso Restaurato”, con una copertina rosa con le figure in delicato rilievo, dove si narrava di un giardino  che un uomo e una donna perfetti avevano perduto, in favore di una vita complicata e futile al solo scopo di sentirsi liberi, e di come poi il resto dell'umanità da questi generata, avrebbe desiderato invece di riconquistare il diritto a vivere per sempre in quello stesso giardino!
Un libro quello tratto dalla Bibbia di cui non sto a discutere l'origine più o meno divina, ma che sempre più mi convinco sia un interessante racconto sulla natura umana.
Io stesso come molti di voi sono uscito dal mio presunto Eden, in cerca di libertà, di una giustizia più umana, di una morale meno ortodossa cercando tra spine e triboli di trovare la mia etica con onestà e oggi a quarantadue anni nonostante il mio “giardinetto” si possa dire completo, mi trovo a uscirne  come  un uomo esce di casa sua ,raddrizzando un quadretto insolitamente “storto”, stupido e stupito per ciò che trova fuori dalla porta della sua casa perfetta. Il vuoto la distruzione tutto intorno.
No, non osate incoraggiarmi con le minchiate sul pensiero positivo! Sono ben cosciente che tramite quello ognuno può crearsi il suo “nuovo ordine”, ma anche che questo non sia sufficiente ad ignorare che forse proprio a causa di quell'ordine in cui bene o male tutti tentiamo di tornare, ci siamo occupati solo di noi stessi!
Valori come l'amore altruistico, la giustizia, la morale onesta e l'etica sono davvero sepolti fuori dalle città, in una landa desolata dalla quale affiorano i simboli storici di una democrazia, sepolta anch'essa dal profitto. Basterebbe quello stupore a farmi capire che pur non volendo anche io ci sono cascato, anche io mi sono occupato di me e del mio paradiso, ma poi mi ricordo che tra una fondamenta e una trave, ho dedicato un po' di tempo ai curiosi che mi passavano intorno, a coloro che non avevano ancora trovato il loro terreno edificabile, e li ho invitati ad entrare in quella che ancora non poteva dirsi casa, ma che vivevo già come lo fosse. A questi ho porto una cassa come sedia e ho offerto il mio ascolto e un po' d'acqua dal momento che molti di loro camminavano da tempo nel suolo della vita, e così se anche la mia costruzione ha tardato a completarsi, poteva dirsi già accogliente. Tutt'ora vi scrivo di continuo in una sorta di apostolato virtuale nel quale se è vero che vi mostro la mia stessa miseria, cerco anche però di offrirvi una visuale di solidarietà che non può che passare per l'imperfezione che ci accomuna.
La connessione tra noi, è ciò che abbiamo barattato e perso per chiuderci nelle nostre belle case interiori, dove per essere  connessi ci basta un click, ma senza coinvolgerci davvero col cuore. Al sentire parlare di corruzione con sdegno, io rido, non già perché consideri lo sdegno inappropriato, quanto perché inappropriato è l'uso che abbiamo fatto della nostra libertà. Da sessant'anni in Europa non ci sono guerre e quelli della mia generazione rammolita, sono cresciuti con la convinzione che niente di brutto li avrebbe sfiorati, nessuna privazione, nessuna ingiustizia, nessuna immoralità più condannabile, e infatti oggi non siamo vittime di ciò che la crisi mondiale ha creato, ma di averla favorita scavando la fossa al senso di responsabilità, alla gratitudine, al sincero interesse personale per il bene comune.
Oh, ci sono persone che si preoccupano per i lussi che non potranno più concedersi, o inventano sistemi per non smettere di farlo, ma mi chiedo: non abbiamo forse vissuto di lussi estremi?
Non sarà l'antipolitica o l'anticlericalismo a salvarci, nessun paradiso può essere riconquistato “equamente” con l'odio o con la violenza così come nessuna “stabilità” raggiunta tramite imposizione o legge può diventare senso civico.
Se fossi una radio che sotto frequenze “sicure” sussurra libertà, questo è il messaggio che diffonderei: siate pronti a lasciare il vostro paradiso, pronti a perderlo per riconquistare il senso del “vostro prossimo”, approcciatevi al lusso più estremo che nessun denaro può comprare, o fatalità corrompere, riconquistate il mondo, senza urlare o sfasciare. Uscite dai vostri rifugi, senza cercare perdono o salvezza dal Cielo cercatevi e affidatevi all'unica “rivoluzione” possibile, quella da sempre è  appartenuta alla Terra, e al suo moto perpetuo e inesorabile.
La Terra è già un paradiso, ma potremo riconquistarlo solo facendo risorgere da “noi” giustizia, onestà morale, e  un etica che nessun io singolo può ottenere. Recuperiamo dall'estremo a cui siamo giunti, un lusso che chiamo: futuro!
Ringrazio a riprova di ciò che sostengo il mio amico Tiziano, per il  provvidenziale quanto inconsapevole aiuto, che ha reso possibile la stesura di questo ultimo post, che ammetto non sarebbe stato tanto accorato senza l'immagine da lui costruita, che l'ha suscitato ! Come vedete non siamo mai soli.


Radiostan vi aspetta alla prossima trasmissione.....se siete in ascolto.

mercoledì 10 ottobre 2012

lussi estremi 5 : le Fatemadri.



Un tema assai scottante da trattare quello della maternità, un vero lusso estremo per me, un lusso per chiunque, in un paese come l'Italia, dominato da un culto della maternità che si ammanta di azzurro nelle confraternite cattoliche, e di nero sui quotidiani.

Eppure, sento di volerne parlare, di poterlo fare. Lo faccio da figlio, perché non posso altrimenti.
C'è nel volere un figlio, qualcosa di apparentemente giusto, come c'è nel sottoporsi a cure per poterlo avere. La mia madre adottiva lo fece negli anni settanta, quando ancora fecondazioni eterologhe o in vitro non erano nemmeno pensabili, e tutto si riduceva alla comprensione e alla ricerca del fattore che inceppava il naturale meccanismo procreativo tra un uomo e una donna.
Lo fece, vincendo il suo elevatissimo pudore, lo fece tra le lacrime e il senso di menomazione che provava di fronte alle altre donne, quelle che tanto facilmente abortivano il dono che lei agognava. Lo fece, mettendo a rischio il suo matrimonio che per lei non poteva dirsi completo senza  dei figli, perché mio padre non era disposto a sottoporsi altrettanto tenacemente a quelle visite.
Alla fine, decisero per l'adozione, e credettero di diventare genitori.
Dico credettero, perché da sempre sono convinto che la presenza fisica di un bambino non sia il modo in cui ci si rende genitori davvero. Questa ne è semmai  l'evidenza sociale, il marchio di approvazione visibile che placa la sensazione di normalità che le donne sterili sentono di aver perso, o da alle donne fertili la pacificazione biologica.
Ma quali sentimenti sono davvero in gioco in questi casi? Quelli della madre o del bambino?
Più consapevoli e meno schiave di questo rito sociale, le donne moderne hanno cominciato a sentirsi meno a disagio sia nel non desiderare figli, che nel desiderarne ad ogni costo, e  queste ultime hanno chiesto alla scienza, più che alla fede o ad un marito,( la fede e i mariti richiedono rassegnazione, la scienza no), di garantirgli non solo questo diritto, ma anche un tempo più ampio e gestibile per farlo.
Le gravidanze si pianificano oggi in base a molti criteri, alcuni dei quali assolutamente discutibili, ma che sono assolutamente parte di un “diritto” della donna stessa ad autodeterminarsi, come madre. Quindi abbiamo madri che congelano ovociti, banche del seme per donne single, e cliniche per la fecondazione che si occupano di perfezionare il “concepimento”, laddove la natura  si sia dimostrata ostile e capricciosa, come anche di farlo oltre un tempo una volta considerato utile e calcoli cartesiani in grado di farle partorire senza accumuli adiposi(circa all'ottavo mese, per impedirne la crescita esponenziale dell'ultimo periodo)
Il tempo per diventare madri come quello per essere fidanzate e mogli si è messo a disposizione delle persone come se la loro vita si fosse prolungata di una cinquantina d'anni e  anche se in realtà la vita media si è allungata davvero, si vive sempre una media di ottanta anni nei quali fare tutto è davvero complesso ma non più impossibile. Per questa possibilità fatata, magia di un progresso lussuoso ed estremo, abbiamo le Fatemadri.
Non intendo neanche lontanamente giudicare la nuova generazione di donne  over che dai quarantacinque ai cinquanta intendono diventare madri ad ogni costo, ma vorrei osservare questo “diritto” da un altro punto di vista, quello di un lusso che può essere estremo. Certo, definirlo lusso e aggiungere estremo è quanto di più simile ad un giudizio, io possa concepire, tuttavia nessun gioco è davvero “senza frontiere” e non mi va di accodarmi al coro di coloro che giustificano tutto ciò che materialmente è possibile fare, come “da farsi”.
Mi ricordo di quando nell'ambito delle amicizie di famiglia, una conoscente  con già tre figli grandi rimase incinta a quarantacinque anni,(forse per uno sballo ormonale) ed essendo assai religiosa decise di tenerlo. Io e la Maria Luisa eravamo già madre e figlio da diversi anni, sulla carta, e agli occhi di tutti, ma in realtà diffidavamo l'uno dell'altro, io, perché cercavo di capire se mi amava prima di fare ciò che chiedeva, lei, perché non capiva come mai non facessi quello che voleva dal momento che era mia madre e  quindi il suo bene per me, non era in discussione.
Comunque, tutta la comunità di cui facevamo parte, lodava pubblicamente l'attempata gestante, ma privatamente il suo stato era diventato davvero interessante, come le telefonate tra la Maria Luisa e le sue amiche, in cui l'atteggiamento da Madonna in attesa del Cristo, di cui l'attempata gestante si beava alle funzioni domenicali, veniva liquidato come deficienza, insieme ai discutibili completini premaman che la facevano sembrare ancora più vecchia. Perché la Maria Luisa non comprendeva la gioia di quella donna?
Le uniche a godere di una certa protezione da ciò sono le celebrità, ma le persone comuni, pur avendo gli stessi “diritti” e potendoli esercitare, si trovano in condizioni assai più difficili nel portare avanti la loro scelta “normale”. Perché?
Sembra che, le donne  mature che esercitano il loro “diritto” ad essere madri, si espongano oggi allo stesso scenario di quand'ero bambino, in quanto, c'è chi ne plaude la libertà e chi ne discute la sensatezza. Ma il vero lusso sta nel poterselo permettere, poiché i costi di tale libertà spaziano dall'economia alla salute mentale, e non tutti possiedono entrambe le cose, o l'una potrebbe escludere l'altra.
In ogni caso, finiti i canonici nove mesi, tutte  le signore diventano madri esattamente come tutte le donne, che siano giovani, vecchie, psicopatiche, mentalmente stabili, grasse o liposucchiate,  ricche o povere.
E qui sta “l'estremità” del nuovo lusso, cioè che dura per tutte lo stesso tempo! Hanno tutte nove mesi in cui essere vezzeggiate, criticate, indaffarate o allettate, serene o nevrotiche, al lavoro o in malattia, ma finiti i quali possono contare solo su un paio di mesi prima che chiunque torni ad ignorarle. Eccezion fatta per le over, le quali, se non altro, non verranno mai ignorate davanti al nido dalle madri più giovani, come succede vicino a casa mia, dove  si creano due fazioni di madri che si assemblano in attesa dei propri “miracoli”, di cui è evidente la separazione anagrafica a causa della cilindrata dei propri Suv.
Nove mesi per saziare la propria soddisfazione filiale, dopodiché comincia il lavoro vero, quello che nessuno ti riconosce ogni volta, quello che a nessuno importa come lo svolgerai.  Tuo figlio sarà nato, e ora dovrai conoscerlo, e sperare che questo sia un piacere reciproco. E' contro te stessa che dovrai lottare perché sia così, perché non crederai mica che averlo messo al mondo sia stato il dono che gli hai fatto vero? Sarà il mondo quel dono in serbo per lui, il mondo che tu dovrai lasciargli senza pretendere nessun rimborso per averglielo mostrato. Come potrai farlo con amore, se per "averlo" sei stata disposta a tutto?
-l'altro giorno un amichetto ha detto a sua madre: mamma, perché Edoardo viene sempre con sua nonna?-  così, una amica che rimase incinta a quarantasette anni commentò con me le sue gioie di madre, mentre le coprivo la ricrescita. No, non intendo fare nessuna differenza tra quelle che restano incinte naturalmente a quel tempo, e coloro che lo fanno per scelta con l'aiuto della scienza, magari dopo aver inseguito una brillante carriera. Ci pensano già gli altri. Single o sposate, conviventi o meno, naturali o adottive, tutte affrontano lo stesso percorso una volta che hanno ciò che volevano. Ma che dire di loro, dei figli?
Intendo invece trasportarvi nel tempo di un ventennio, quando a sessantacinque anni il vostro figliolo ragione della vostra vita, o vita in ragione vostra che sia, vi chiederà comunque di andare a ballare fino alle tre del mattino, o vorrà farsi il piercing al labbro, o il tatuaggio, o qualunque altra diavoleria i suoi vent'anni reali lo spingeranno a desiderare, e vi chiedo: ce l'avrete la forza di dirgli che alla sua età voi neanche ve lo sognavate? E ancora di più di sentire la risposta, tipo: ma se quando tu avevi vent'anni c'era ancora  internet wi-fii!
O che ne dite di doverla andare a prendere a 1500 km da casa, alla vostra età perché dopo l'ennesima lite tra voi, vostra figlia è salita su un treno per il sud senza biglietto ed è stata arrestata dalla polizia ferroviaria e trattenuta con prostitute nigeriane e spacciatori?
Quanto saranno lontani i tempi in cui gli sorridevate con le zampe di gallina e il biberon, o con la fronte spianata dal botox cercavate invano di fargli le faccette buffe?
Beh,  direte, ma ci sarà suo padre per questo, mica l'ho fatta con uno più giovane per niente no?
Può darsi, come può darsi che un figlio sia ciò che di più normale si possa desiderare, anche a cinquant'anni, ma può anche darsi che sia l'uno che l'altro vi considerino, col tempo esattamente nello stesso modo, un po' troppo vecchie per loro!
Certo potrete raccontare di cosa non avete passato per dare ad uno un figlio, e all'altro una madre, di come entrambi siano stati  ingrati con voi, di come volevate soltanto una vita normale, una famiglia, o forse vi sorgerà un dubbio: un limite deve essere stabilito alla licenza di egoistica soddisfazione filiale?
Io e la  Maria Luisa ce lo siamo domandati per anni, senza parlarcene mai. Io sono giunto alla conclusione che un figlio viene al mondo come può, ma una madre non può diventarlo come vuole. Lei è ancora lì che racconta strane storie su desideri normali,  che dato ciò che chiedono poi in cambio,  a me paiono dei lussi estremi ,che lei come altre, non avrebbero potuto  permettersi. A chi resterà il vuoto di cui queste Fatemadri si sono liberate?  leggete un pò qui sotto.

martedì 2 ottobre 2012

Lussi estremi4: le Amorescenti.


Gli amanti, quando finalmente si scoprono, diventano eterni.
Il tempo gioca sempre a separarli e loro sorridono, anche se amaramente, perché sanno che riusciranno sempre a ritrovarsi.
Malgrado ciò, ogni volta si salutano come se fosse l’ultima, cercando d’imprimere dentro di se tutto ciò che appartiene all'altro: l’ultimo tocco, l’ultimo sguardo ed infine l’eterna promessa di rinascere per ritrovarsi.
Forse non basterà una vita, forse nemmeno cento. questo non basta a scoraggiare la loro speranza. Il loro esistere coincide con il loro ritrovarsi.
Il resto rimane privo di senso fino a quando non si ricongiungono.
E allora sia! La vita, il sogno di ritrovarsi”.Di (Marilena Parrinello)

 Mi ha colpito sulla pagina di una amica di Facebook. questa poetica illustrazione dell'essenza dell'amore romantico, e mi si consenta “clandestino”, sulla quale nulla ho da eccepire in quanto poesia, ma che, (spero non me ne voglia l'autrice), mi suggerisce alcune  irresistibili riflessioni.
Non avete notato anche voi una impennata dell'immaginazione, nelle persone?
Figli dei reality show, inseguono i propri sogni(stranamente sempre inerenti al tema del palinsesto), mentre i genitori, invece più pratici, i sogni non li inseguono più! Li grattano sperando di vincerli.
Ma succede anche che dopo anni di ufficio alcuni trovino le risorse materiali e spirituali per restaurare quella vigna dismessa lasciatagli dai nonni, o per prendere un aereo e aprire  il chiringuito dei loro sogni in Giamaica. Insomma, italiani un popolo di  viaggiatori e sognatori!
In tempi di guerra mia madre e le sue zie andavano al cinematografo, a sognare un guardaroba hollywoodiano, e un uomo come Clark Gable che le guardasse come se fossero state le Ava Garner del momento, quindi non trovo strano che in tempi di crisi la fantasia voli lontano, trasportandoci in scenari più rosei e talvolta pieni di quella serenità così difficile da conquistare nel quotidiano, ma mi chiedo: siamo sicuri che a sognare oggi, ci si svegli?
Ai tempi di mia madre, potevi esser certo di svegliarti grazie alla sirena che annunciava i bombardamenti imminenti, ma oggi bombardati come siamo da tutta questa fantasia, chi la suona la sirena? Inoltre, mia madre e le sue zie al cinematografo ci andavano con la riga nera segnata nelle gambe con la matita del trucco(condivisa), mentre oggi le più grandi sognatrici vestono Prada e calzano almeno Ferragamo, senza contare il fatto che una volta tornate a casa, le nostre ave poco garner, si sobbarcavano tutte le faccende, non il costo della domestica!
Comunque, il tema preferito di un sogno resta sempre l'amore, sia che tu abbia le mani arrossate dal bucato a mano in acqua fredda, che da un costosissimo peeling in una nota nail spa del centro.
Sognano amore le donne, ma anche gli uomini sebbene con sfumature che si possono contare sulle dita di una mano salvata da un tornio!
Ma cosa sappiamo davvero dell'amore? Di questo sentimento cosa sogniamo?
Le righe poetiche sopracitate ben descrivono ciò che più ci tormenta, rosicchia e divora di quel cincillà chiamato amore. La sua scoperta dentro di noi,  il tormento, la separazione, e il ricongiungimento. Si,  va bene, ma la pasta chi la scola prima che si incolli? 
Le nonne dicevano: sposalo che l'amor vien dopo, ma forse si riferivano al sesso. Certo è, che l'età dell'innocenza, del primo amore, della prima volta, si è spostata di un ventennio almeno, quindi, oggi più fantasiose che mai, non solo le adolescenti ma tutte le donne sognano di riprovare quelle sensazioni, alcune giurano di riuscirci, altre spergiurano di provarle nei loro matrimoni. 
I social network, che ahimé, non sono frequentati in maggioranza da adolescenti, sono colmi di pagine intitolate: “cucciola romantica”, o: “camminare sul cuore coi tacchi a spillo”, in cui fioriscono link prefabbricati che incitano alla fuitina, all'annullamento di tutto il resto nei suoi occhi, al ricongiungimento con l'amato/a che il destino virtuale promette di renderci più raggiungibile e così ti capita di trovarti ad un aperitivo con donne più che mature, che parlano esattamente di questo.
Io che di amore non ne so quasi niente, le ascolto incantato mentre dicono: a me la barba  in un uomo, non piace, a meno che non sei un gran fico...con un bel fisico, e magari a quel punto chiedo alla quarantacinquenne (almeno) : tu sei fidanzata?
Hanno tutte un “compagno”, ( l'indipendenza detesta la solitudine)  e come se fosse una sorta di Herpes, spesso se lo passano l'una con l'altra, ma non lo chiamano fidanzato. Perché? 
Perché un fidanzato non lo sogni lo sposi, e molte di loro lo hanno già fatto almeno una volta. E per questo sognano un amore, che le riporti a quelle sensazioni struggenti che hanno preceduto il fidanzamento. Le senti oggi raccontarti eccitate delle carambole fatte per incontrarlo, domani quelle fatte per consolarlo, e dopodomani quelle fatte per sopravvivergli una volta che questi o ritorna con la “fidanzata” o semplicemente se le lascia alle spalle, magari sposandosi e diventando padri.
 Di una magrezza che si sforza  disperatamente di riprodurre un corpo acerbo, e tutte agghindate le “amorescenti”, si presentano come un regalo perfetto a cui non c'è nulla da poter aggiungere, e ciò nonostante detestano essere “scartate”. Si producono in code di cavallo, e gridolini scambiando il riso lesso per un lauto pranzo, ammazzandosi di attività fisica, e nascondendo abilmente le cinquanta sfumature di grigio delle proprie ricrescite, con un colore fai da te( che conferma l'indipendenza), e hanno sempre un biglietto pronto per Formentera. Sono tutte bravissime a cucinare, ma non hanno voglia di sporcare la cucina, mentre altre ne pulirebbero volentieri tre o quattro pur di non cucinare!
Direte che sono il solito stronzetto misogino, che  in fondo l'anagrafe del cuore è  molto più flessibile di me, e forse avete ragione, ma c'era un tempo in cui anche io ero avido di sensazioni forti, e a dirla tutta ero anche più coraggioso. Non mi ritenevo mai sazio di conferme circa il piacere che ero in grado di suscitare con il mio corpo( al buio le gatte si assomigliano tutte), e anche io venivo lasciato alle spalle, proprio dove il meglio era già accaduto! Malgrado ciò, ogni volta si salutano come se fosse l’ultima
Ricordo ancora il tormento in attesa di una chiamata che non arriva, i  penosi tentativi di suscitarla,e il senso di rinascita nel veder tornare l'amante per “ricongiungersi”, ma altrettanto chiaramente oggi mi accorgo del fatto che quel momento è passato. Le amorescenti,  si rifiutano di accettarlo?
No, temo che lo sappiano benissimo, ma che più dell'amore ne possa il desiderio di essere vive. Vive come solo il dolore ci rende coscienti di essere,  e capaci di carcerarlo dietro un sorriso smagliante come solo un adulto sa fare! Il tempo gioca sempre a separarli e loro sorridono, 
L'amorescenza di queste donne, ha creato nei maschi il desiderio di possederle interamente, togliendogli il gusto/bisogno di aggiungere qualcosa a quel quadretto! Esse infatti oltreché capaci di mantenersi ampiamente, sono anche ferree nell'esigere che le proprie abitudini non vengano assolutamente modificate dalla presenza di un uomo. Che avrebbe quindi da fare questo, se non l'unica cosa che le “amorescenti” non sono in grado di fare da sole? Cos'altro se non ricoprirle di lusinghe e promesse lowcost? L’ultimo sguardo ed infine l’eterna promessa di rinascere per ritrovarsi.  Talvolta però accade che l'uomo in questione, riesca a farle innamorare, e qui le “amorescenti” non possono far altro che  gettarsi a capofitto nel “diritto alla favola” facendo in modo che  Il resto rimane privo di senso fino a quando non si ricongiungono.
Al posto del diario, a cui le adolescenti confidavano le proprie pene amorose, le “amorescenti” twittano o postano, o bevono calici di Falanghina post spinning! L'ostinazione per il “lieto fine” non è tuttavia da considerarsi una stupidità ma anzi una coerente quanto ferrea disciplina imposta dalla favola ad oltranza che si propongono di vivere.
 L'unico effetto collaterale di questo lusso estremo, sta nella rigidità con cui queste principesse metalliche rimangono imprigionate, che le porta a chiedere quando scoprono che sei nato nella loro stessa città: come mai? Come se tu che hai appena detto che da dieci anni convivi con la stessa persona, fossi un intruso. Oppure a offendersi a morte per una botta di stronza data in un momento in cui non ti andava proprio di sentire l'ennesima critica al tuo fidanzato decennale ( insomma i fossili vanno maneggiati con cura no?), e dopo aver preteso le tue scuse, rifiutarle, come facevo io da bambino quando mia madre cercava di togliermi il broncio con una tazza di latte e biscotti. Tazza che avevo agognato per un paio d'ore e che ero capace di negarmi per la paura che non fosse vera!
Ma una fanciulla non ha forse il diritto ad essere completamente felice? E allora sia! La vita, il sogno di ritrovarsi”. 
Magari canticchiando: “eravamo quattro amiche al bar, destinate a qualche cosa in più che ad un uomo o un impiego in banca, si parlava in tutta onestà di individui e solidarietà, tra un bicchier di vino ed un caffé...!