L'avevo immaginata dalla finestra della “stanzetta” la mia maggiore età e ne avevo circa quattordici quando in quell'angusto stanzino dove mi rintanavo per sfuggire a loro, a Dio e persino a me stesso, fissavo la finestra che dava sul giardino di casa immaginando di aprirla, o meglio, di passarci attraverso e volare.
Volare via da una famiglia spaccata a metà, volare via dalle domande, dalle risposte dogmatiche della religione, ma soprattutto dall'angoscia che a quell'età si prova per l'uomo che non si è ancora in grado di essere ma che il mondo “dei grandi” pretende già di vedere in noi. “Farò questo, e quello” dicevo con poca convinzione ad un uditorio fatto di pupazzi con cui non giocavo più da tempo, ma dai quali non volevo separarmi. Ogni tanto li prendevo tra le mani chiedendomi dove fosse finita la gioia e il conforto che fino a poco tempo prima, erano in grado di suscitarmi e lentamente capivo che questo era il prezzo di diventare grande: il silenzio degli amici di infanzia che rendeva inanimato anche me. La perdita dell'indulgenza, semmai ve ne fosse stata per me da parte degli adulti, che ora volevano di certo qualcosa “in cambio” per il tempo concessomi a fantasticare. Ma cosa? Qualunque cosa fosse, includeva per mia madre “come se fosse mia madre” una donna timorata di dio e un matrimonio, e come disse mio padre pochi giorni prima di morire: quelle cose non facevano per me.
Intanto che i Duran Duran si affermavano, insieme a diversi gruppi musicali le cui canzoni occupavano le musicassette che registravo dalla radio, dall'altra parte del mondo,( quella dove credevo di finire a furia di scavarmi dentro) pacifiche proteste di giovani in piazza Tiennamen venivano soppresse nel sangue come sempre accade quando un regime si oppone ai cambiamenti, di cui i giovani sono “portatori sani”. Mi sentivo come loro, in un certo senso, ma il mio spirito non era pacifico quanto il loro, né la mia protesta sarebbe stata tanto dignitosa.
Diciotto anni erano arrivati e ora ero solo più colpevole di prima per ogni mia azione, pensiero o volontà che non rispecchiasse le aspettative di chi mi aveva cresciuto, e a sentire lei, anche di Dio, al quale i miei pensieri non potevano essere nascosti. Non c'è da stupirsi quindi se dal momento che la privacy era impossibile, non mi restò altra scelta che manifestarmi quasi apertamente.
Gli anni ottanta furono il decennio dell'Aids che fu dichiarato pandemia e che con grande furbizia fu attribuito agli omosessuali come “logica conseguenza” della loro condotta, soltanto perché i primi casi in America furono scoperti su alcuni di loro. Immaginate che sollievo fu per mia madre vedersi materializzare la punizione divina, nonostante malattie altrettanto devastanti come la sifilide, prima di trovarne una cura, avessero già decimato secoli prima, l'umanità eterosessuale ….e promiscua.
Non pensai mi riguardasse, come non lo pensava nessuno allora, e continuai a vivere.
L'avevo seguito quell'uomo incontrato una mattina in centro, l'avevo seguito nel suo ufficio e da li ne ero uscito un po disgustato ma certo che ormai non potevo più tornare indietro.
Non li rividi più quei pantaloni, probabilmente macchiati che non mi curai di ripulire perché in fondo volevo che lo sapessero. Ma ora che le peggiori paure di mia madre “come se fosse mia madre” si erano concretizzate, sotto forma di sporco biologico( non ho mai capito come ne riconobbe l'origine) non mi restava che parlarne. Affrontai quello sguardo di disgusto nei suoi occhi, e gli dissi la verità senza nessuna garanzia di sopravvivere alla sua disapprovazione o a quella divina che fosse, e in fondo non cambiò nulla tra noi. L'unica differenza era nell'opinione che “gli altri” si sarebbero fatti di lei, venendolo a sapere. Questa la sua unica preoccupazione. Non mi parlò mai della possibilità ad esempio, che fossi potuto diventare sieropositivo, cosa che credo la preoccupasse molto meno data la sua ignoranza, o che quello non fosse amore.
La comunità religiosa a cui lei mi costrinse seppur senza dirmelo, a confessare i miei peccati prese i suoi provvedimenti ed io affrontai il mio tribunale. Un tribunale umano, fatto di vecchi senza più passioni e di giovani uomini pieni di pregiudizi e desiderosi solo di mostrarsi virtuosi in vista di un futuro incarico o nomina. Il tutto nel nome di un Padre di un Figlio e di uno Spirito Santo che dubito si trovassero proprio li. Il verdetto chiaro: Colpevole poiché non pentito dei suoi errori.
Di cosa pentirsi? Di quale misfatto se non quello di buttarsi via, solo per un po di calore umano? Perché di come si vive se stessi quando si è costretti a giustificarsi, nascondersi, camuffarsi non importa a nessuno. Nessuno sente la colpa di spingerti nel baratro della scarsità di autostima, preludio dell'autodistruzione, ma tutti ne attendono l'evidenza per la quale saremo di nuovo gli unici colpevoli.
Mio padre fu tenuto all'oscuro di tutto, mio fratello ebbe la sua occasione di farsi largo, ora che era certo che nessuno avrebbe saputo le cose odiose che mi aveva fatto, e mia madre aveva la croce tanto agognata da ogni stupido martire.
Io ebbi la mia libertà. Non fu indolore ovviamente, perché all'interno di quella comunità mi ero fatto delle amicizie, e la mia espulsione includeva la netta impossibilità a frequentarci, fino a quando almeno non avessi completato il percorso di redenzione. Percorso che per il momento non desideravo intraprendere.
La libertà, così diversa da come me l'ero immaginata, mi portò nel mondo degli “altri”. Fuori dal soffocante Eden famigliare, scoprii che il termine “mondo”, furbescamente usato dalla comunità religiosa, era usato perché efficace metafore di una vastità da temere, dalla quale fuggire al facile rifugio dei dogmi e dell'appartenenza. Invece, per me la vastità si associava alla quantità di scelte possibili, di opportunità che non senza la tipica ingenuità dei “catechizzati” mi apprestavo ad esplorare.
In quel tempo di mezzo conobbi lei: Daniela.
Daniela era una ragazza qualsiasi, che conobbi una domenica pomeriggio passeggiando per il centro da solo, ma che ebbe la faccia tosta di rivolgermi la parola, immagino si comportassero così le ragazze, che sapessero ciò che volevano e lei voleva conoscermi. Non era bella Daniela ma era determinata e libera e in un periodo in cui nessuno sembrava gradire la mia presenza, e in cui affermare la mia differenza era difficile, mi lasciai lusingare dalla sua attrazione per me. Con lei e con gli amici di “piazzetta”, che a quel punto ero libero di frequentare, andai al mare quell'estate e fu divertente “avere una ragazza”. Il modo in cui il mondo tutto ti considera quando sei conforme alle sue aspettative è una lusinga difficile da rifiutare, come lo erano i suoi baci salati, ma a Daniela cominciò a non bastare, come non bastava al suo corpo, il succinto costume sgambato. Il bomber di seta cotta evidentemente mi rendeva irresistibile, per una ragazza di provincia.
Mia madre come se fosse mia madre sembrava sollevata quando le dissi di lei, e purché fosse una ragazza fece deroga alle sue regole che mi volevano fidanzato con una “buona cristiana”, credo che pensasse che in fondo, qualcosa si potesse ancora salvare della facciata, e si mostrò con lei molto più carina di quanto mi sarei aspettato. Che falsità era capace di approntare pur di “sistemarmi”!
Ma la storia durò poco, Daniela voleva fare sesso come tutte le ragazze della sua età e io dopo aver procrastinato come potevo, mi feci lasciare o la lasciai non ricordo, del resto, delle donne sapevo poco se non la squallida immagine del loro apparato riproduttivo interno vista nell'enciclopedia, e qualche immagine pornografica di nudo abbandonata nel parco. Entrambi devo dire affatto attraenti.
Gli anni Ottanta stavano finendo e anche se la vita dei jeans era ancora molto alta, si poteva dire concluso un periodo storico in cui tutti noi avevamo vissuto fuori dalle nostre reali possibilità: mio fratello “come se fosse mio fratello”, si fidanzò con la sua futura moglie, suggellando la sua “inviolabile normalità”, mio padre in silenzio si ammalò di cancro, la Maria Luisa faceva la samaritana seriale e alla televisione guardavamo un programma che si intitolava “Fantastico”.
L'armadio di mia mamma, vide l'ingresso di un capotto grigio a vestaglia lungo con le spalline come usava a quell'epoca, e come un intruso là nel buio di quei capi io aspettavo ancora che le ante si spalancassero e facessero entrare la luce di un amore incondizionato come quello di Dio per suo Figlio, e che francamente mi domandavo perché, lei non potesse provare per me.
Alla fine di quell'anno senza Natale, rientrai nei ranghi dai quali ero uscito per renderle chiaro che l'amavo più di me stesso, e ottenni solo di aver fatto “il mio dovere”. Mi dissi pentito e mi accorsi che Dio non era tra noi o io ero un attore magnifico.
Un biglietto freddo nella scrivania della stanzetta recitava: ora sei il figlio che ho sempre desiderato avere.