venerdì 10 dicembre 2010

"Il certificato" Ge-mi storia banale di un gay speciale, ultimo capitolo




Le case di ringhiera, sono grossi palazzi di solito di pianta quadrata che hanno un cortile in comune, e le cui scale e pianerottoli sono esposti; quindi, per andare da chi sta per ultimo sul pianerottolo devi passare davanti a casa di tutti gli altri. Anticamente in fondo a ciascun ballatoio c'era un solo bagno in comune. Pur non essendo più così, la vita in queste case, ha ancora un che di “comune”, come per esempio la mancanza di privacy.

Andai ad abitare in uno di questi piccoli appartamenti in zona Darsena, con la mia dispotica compagna pelosa, la mia prima casa da “single”!

Essere singolo non mi è mai sembrato particolarmente fico, perché l'indipendenza più vera ce l'avevo già a livello interiore, non mi sembrava quindi una gran conquista viverla, ma solo una logica conseguenza, e continuavo a desiderare un percorso a due.

La casa era piccola ma con un bellissimo pavimento a scacchi bianco e nero e il parquet in camera, certo, se appoggiavo una mano sul lavandino con la lavatrice in funzione, prendevo la scossa, nel cesso non c'era la finestra, e il letto era accostato al muro più freddo della camera, ma a parte questo avevo tutto, anche un armadio!

I miei vicini erano una coppia sposata, di “alternativi”, e una coppia di ragazzi grossi e barbuti, con i quali feci subito amicizia. A casa loro vidi le padelle più grandi mai viste, e compresi che il concetto di dimensioni è davvero relativo, in quanto per loro ero io ad avere i “pentolini” come una bambina che gioca a cucinare.

Per loro divenni “la parrucchiera secca del vano scale” e loro i miei “orsetti del cuore”.

Temendo per la mia salute, mi invitavano spesso a cena e a piccole feste con i loro grossi amici, dove generalmente venivo guardato come un grissino, e cioè stuzzicante ma non abbastanza nutriente, -vedi come si diventa a voler fare le modelle?- mi canzonavano con i loro amici, - quella non è buona neanche per il brodo- ma in qualche modo avevano affetto per me, erano come due fratelloni premurosi.

Se mi vedevano arrivare con qualcuno, dopo un po' suonavano con una scusa, per farmi capire che se ci fossero stati problemi, sarebbero intervenuti, così ci accordammo per un segnale alla porta quando ero “occupato”.

La loro presenza rese le mie avventure più sicure, e mi fece vivere una piacevole sicurezza.

Io, la mercy, e loro eravamo una sorta di famigliola allargata che si sosteneva a vicenda, anche se il mio contributo era decisamente esiguo.

Questa città continuava a mettermi davanti persone carine, a cui potermi rivolgere, mentre mi offriva anche innocenti “evasioni”, e un anonimato leggero, che amavo profondamente. Prendere un caffè al bar Zucca, in fondo a Corso Genova (ironia della sorte), era il mio rito domenicale, insieme al mercato del sabato, e ai fusti del mio locale preferito.

In Associazione, avevo ormai stretto amicizia con una ragazza, che nonostante i suoi modi maschili, aveva un gran cuore, e una collezione di intimo da paura. Lei era la prima donna elettricista che avessi mai conosciuto, ed era buffissimo sentirla parlare dei suoi colleghi maschi, i quali, avevano per lei profondo rispetto. La solitudine che tanto mi aveva angosciato, dopo la mia storia con Claudio, non trovava spazio in agenda, e i momenti di relax che avevo in casa da solo, dovevo quasi lottare per mantenerli.

L'occasione di far coppia fissa, mi capitò più volte in quel periodo, perché ero così felice, che ogni mio gesto risuonava nello spazio intorno a me, come un invito ad una festa, ma declinai gli inviti.

Non ero di certo un amante occasionale “seriale”, perchè anche le mie avventure, conservavano un sapore romantico, che però non andava più in là di una cena, o al massimo di una gita fuori porta, ma ciò nonostante, i miei amanti, non sentendosi pressati dal mio velo nuziale erano di gran lunga più generosi di quelli dei miei amici.

Imparai che l'amore sapeva stupire chi non desidera dargli alcun nome, né addomesticarlo, chi lo persegue con generosità, chi non chiede all'amore di guarirlo, imparai che di amore si muore solo se già malati di dipendenza, e che anche chi si delizia del nostro corpo, celebra in quel momento la perfezione dell'amore fisico, ed in questo compie il suo volere, e cioè quello di dimostrarci che siamo amabili in ogni modo, purché liberi da inutili limitazioni, o sensi di colpa.

Ripensai all'amore ricevuto in cambio di un ruolo da recitare, all' illusione di essere puri tramite la paura di conoscersi davvero, e mi sentii davvero fortunato a poter godere di ogni istante di quella libertà.

La libertà, è il primo dei nostri diritti, ma anche quello a cui più facilmente siamo pronti a rinunciare, in cambio di quella poca cosa che è l'approvazione di coloro che dicono di volere il nostro bene, ma operano per il proprio, a nostra insaputa. Non importa che lo facciano in buona fede, o in completa mancanza di fiducia, ciò che importa è che la paura di restare soli, li spinge a mentire sulle reali condizioni del mondo al di fuori dei confini nei quali desiderano relegarci, e che troppo spesso finiamo per accettare più o meno consapevolmente.

Provate ad immaginare che mondo abitereste, se l'eretico Galileo avesse ubbidito al potere della Chiesa, o se la Maddalena, non avesse fatto la prostituta, se lo stesso Colombo si fosse accontentato di essere un “genovese” come tanti.

No, non è un apologia dei sovvertitori di un ordine, ma una banale considerazione sulla scoperta del “fuori percorso”, un invito a crearsi una mappa più grande di quella già tracciata dalla propria educazione, o dai propri timori.

Cogliere questo invito non comporta più forza di quanta non ce ne metta chiunque a restare infelice, ed immobile, ma di certo nessuna libertà è mai stata conquistata senza prezzo.

Gli anni che seguirono all'ombra del Duomo, mi avrebbero chiarito alcuni di questi costi, per esempio, quello di accorgersi che una volta trovato il proprio equilibrio, nulla è trasgressivo come lo si riteneva, ma solo più creativo, e che la vera “normalità” da cui sembravo escluso, altro non era che la storia banale di un uomo come tanti, che lavora, ama, si prende cura di altri esseri viventi, e non è obbligato ad essere perfetto, un uomo che non ha un passato irreprensibile, ma che smette di sentirsi colpevole di avere voluto di più del “suo bene”, come lo chiamava sua madre.

Togliersi la maschera del bravo figlio, del buon marito, del lavoratore senza aspirazioni, fu doloroso, ma dovevo pur sapere chi ero, dove fosse il mio posto, ma più ancora, quale tra tanti modi di dirsi felice mi rendesse libero di non dimostrarlo a nessun'altro che a me stesso.

Venni al mondo da solo, e sapevo che lo avrei lasciato nello stesso modo, potevo soffrire del fatto che i miei traguardi rendevano mia madre sempre più aspra con me, ma avrei imparato a lasciare anche lei, non con rabbia ma per amore della mia vita.

Con questo sentimento di inestimabile pienezza, che per me profumava di caffé, e di cera da pavimenti, che aveva la morbidezza del pelo felino e il colore acceso dello zafferano, il calore di un corpo come il mio, ritirai il mio primo certificato di residenza, e uscendo dal Comune di via Larga, festeggiai il primo giorno della mia vita, con due panzerotti fumanti dello storico forno Luini.

Uno era per me, e l'altro per l'uomo col quale avrei potuto essere banalmente felice, e dato che ancora non ne conoscevo il nome, li mangiai entrambi.


FINE


domenica 5 dicembre 2010

" La mercy" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 29



Non mi meravigliai del fatto che le mie seguenti relazioni, non durassero, sebbene mi sembrava di crederci ogni volta. I grandi palazzi di Milano, mi guardavano passare sui loro marciapiedi, e sembravano prendersi gioco di me, erano lì da decine di anni e guardando le luci delle loro finestre, scorgevo sprazzi di vita familiare, una vita, che mi faceva sentire ancor più solo, nonostante mi fosse chiaro, che la mia solitudine andava di pari passo col l'eccesso di un qualche bisogno.

Certo, la grande città, poteva inghiottirmi in un sol boccone, dando ragione alle peggiori paure di mia madre, che la considerava la capitale del peccato mortale, ma sapeva anche mostrarmi il suo lato buono, per esempio, la quantità di creatività che vedevo mostrata nelle vetrine di Ticinese, mi incoraggiava a crescere nella mia professione, e l'atmosfera nostalgica dei mercatini sul Naviglio Grande, con i suoi oggetti vecchi, mi spingeva a sorridere e a ricordare le tazze in cui mia nonna mi faceva bere il thè caldo, nei pomeriggi invernali.

Anche il fatto di lavorare in una zona ricca della città, orientava la mia mente a raggiungere degli obbiettivi, a sviluppare il senso delle cose belle, a dare corpo ai miei sogni, cosa che Genova non mi aveva fatto nemmeno supporre di poter ottenere. Come non esserne grato?

Compresi anche che il silenzio del mio appartamento, era un privilegio, ma il letto vuoto, quello non era nemmeno lontanamente sopportabile!

Un giorno, la signora Augusta venne in negozio, per farsi i capelli come ogni settimana, ma tardò di circa mezz'ora, entrando affannata si scusò per un quarto d'ora con la mia titolare, e mentre le facevo lo shampoo, cominciò a spiegarmi il motivo di tale defezione, dicendomi:

“Ero già pronta per uscire e nell'atrio del palazzo, sento un miagolìo, mica vero che c'era una gatta siamese sotto la casella della posta. La custode cercava di cacciarla fuori, e ci sarebbe riuscita se solo non ci fossi stata io, dovevi vederla era così buona, che si è lasciata prendere in braccio e ora è in casa, ma non posso tenerla”, fece una pausa durante la quale seppi dire solo se l'acqua non fosse troppo calda.

Io, di animali ne avevo salvati così tanti, quand'ero un ragazzino, andavo sulla pineta dietro casa nostra, e anche con la pioggia portavo ai piccoli gattini, che la madre aveva abbandonato, del cibo e vecchie pezze di lana, che sistemavo di nascosto nelle baracche abusive dei proprietari degli orti, altrettanto illegali, e a sentire di quella creatura mi vennero le lacrime.

La furba signora Augusta comprese la mia propensione verso di lei, e quindi mi chiese se volevo anche solo vederla, e mezz' ora dopo essere uscita con i suoi capelli a caschetto, pettinati a modino, entrò con un traspotino in negozio.

Credevo che avrei scelto se tenerla o no, ma guardando quella micia stringermi gli occhi, mi resi conto che ero in suo potere, che la parola no, non sarebbe uscita dalla gola, e dissi solo sì.

Rimase, dal mattino ,chiusa nel trasportino in una stanza ripostiglio del negozio, immobile e silenziosa, chissà come doveva essere stanca, pensai, e ogni qualvolta potevo andavo a vederla per farle una carezza, uscendo dalla stanza con il cuore sempre più colmo.

Non sporcò e non mangiò niente per cui, finito il lavoro, corsi con il mio fardello peloso, ad acquistare il necessario per lei, e la portai con me a casa. Di lì a poco avrei dovuto cambiare casa, e temevo di traumatizzarla, ma non potei sopportare che il suo destino non fosse unito al mio.

La gioia di tenerla in braccio quella sera, mi spinse alle lacrime, mentre lei recitava il mantra felino delle fusa, i segno dell'avvenuto accordo fra le nostre anime. Il letto era pieno di pelo, ma caldo di un amore incondizionato, che nessun essere umano mi aveva mai dato prima, scelsi di credere che lei fosse la risposta che poteva esaurire la domanda:

chi mi amerà ora? Chi avrà bisogno di me?

Mercy vuol dire misericordia, e quello divenne il suo nome, perchè mi ricordasse di non esserle ingrato nei giorni avvenire.

La sua coda dritta diede senso alla sveglia del mattino, e al ritorno verso casa, la sera. Come vedete non sempre un altro essere umano, può essere ciò di cui abbiamo davvero bisogno, né oggetti, ma può diventarlo un essere vivente che ci impegniamo a proteggere.

Mi chiesi se forse quell'amare senza riserve non fosse proprio ciò che valesse la pena di provare per qualcun'altro che non fossi io!