mercoledì 28 ottobre 2015

La banda del 52 CAP 20: devo dirti una cosa

Un salto nel buio da una sola certezza: il cambiamento. 
Quando sei sul finire dell'adolescenza, accade che se sei adatto alla vita, il banco degli imputati in cui ti sentivi costretto non è più il tuo posto, se non lo sei invece, sarà facile che chiunque ti faccia tornare alla sbarra col senso del dovere, con quello di colpa, con le buone maniere o con la violenza, ma anche con l'amore o il bisogno di essere riconosciuto. 
In quella scomoda posizione circa chi siamo e cosa siamo, è facile lasciare  che le paure delle nostre famiglie o le loro avversioni circa ciò che sembriamo diventare, decidano le nostre sorti assegnandoci ad un genere che, pur  travalicando  la loro possibilità di giudizio, non si risparmiano di comminarci ugualmente: buono o cattivo, uguale  o diverso. 
Famiglie deboli o ferree che siano, tutte  pronunciano il loro verdetto chiuse nelle camere dei loro cuori impauriti e sia  che si consegnino a te per timore o che ti perseguano per cambiarti, difficilmente si aspettano di venir giudicate per questo a loro volta. Raramente accetteranno  la tua sentenza quando immancabilmente arriverà. 
Che sciocchezza pensare di generarci o di crescerci per poi dichiararci "diversi da loro", come se da loro non venissimo comunque, come se non fosse accaduto anche a loro di portare una differenza, ma certo alcune differenze fanno più rumore di altre, mia nonna ad esempio, non supero' mai la delusione per il pessimo gusto della sua figlia maggiore nel vestire o per il matrimonio  della figlia minore con un uomo gretto è molto più grande di lei. Per tutta la sua vita guardo' alle sue figlie come in uno specchio opaco, incapace di ritrovare la propria immagine in loro e per questo giudico' lo specchio rovinato, inutile e deludente. Le sue figlie ne soffrirono è così generarono a loro volta qualcuno in cui rispecchiarsi o ne crebbero uno di altri con lo stesso scopo: generando solo la stessa insoddisfazione. 
Anche loro come molti, dovevano  aver creduto che Dio ci avesse fatto a sua immagine e somiglianza per cui generando, si aspettavano di essere Dio ma non furono  brave come lui a gestirsi la delusione. Nessuno lo è del resto. In quanto a me se avessi avuto scelta, avrei scelto come ogni essere umano per convenienza ma in merito alla propria unicità, una volta svelata, non sempre è possibile che convenienza e verità siano allineate. 
La mia verità si svelo' in una camera di albergo, dalle fessure di una persiana, entro' una mattina sotto forma di luce e mi rivelo' a immagine di chi ero fatto.
Ero entrato come ogni giovane, ed io più di altri, solo parzialmente incosciente del pericolo ma da questi anche sedotto e assetato di risposte. Il corpo nel letto, inondato della luce fredda dei mattini invernali si era mosso come ferito e scostando le coperte mi invitò a ripararmi io stesso. Sarebbe bello, poter dire che non sapevo cosa volesse dire quell'invito, che in esso non sentissi il balzo del gabbiano dal suo nido sulla scogliera, ma nemmeno se giovane, il cuore e' tanto ingenuo quando scoppia nel petto, perciò accolsi il vuoto che proponeva staccando i piedi dal pavimento, e mi lasciai trasportare. 
Le cose terribili che mi erano state insegnate sul "peccato" tra uomini si chiamavano carezze? Era questa la lusinga del Diavolo che dovevo rifuggire? Se un giorno avessi accarezzato una donna che non amavo, come lui faceva con me, sarei stato meno Diavolo con la sua anima?
Nessuna vergogna mi colse, nessuna sopraffazione mi impedì di muovermi, perciò pensai che il calore di quel corpo non fosse dovuto alle coperte ma ad un cuore pulsante e ne fui certo quando quei battiti si unirono in un unico torace. Non accadeva nel suo corpo nulla che il mio non replicasse spontaneamente, niente che non mi somigliasse come se fosse fatto di me stesso e niente che, non fosse perfetto così com'era. Il mio volo fu breve, certo un po' sconnesso ma non volai arpionato dagli artigli di un rapace, come mi avevano fatto credere, semplicemente seguii il ritmo che sentivo e fu facile, emozionante e davvero liberatorio. 
Se pensate che si tratti di sesso, non avete abbastanza fantasia, come non ce l'hanno gli adulti quando pensano alla prima volta dei loro figli, o forse non avete mai volato davvero. Il sesso, quello lo scoprii molto dopo e fu di gran lunga meno significativo seppur giustamente necessario, di quel momento magico in cui qualcuno, pur potendo  prendermi tutto non lo fece , anzi  prese solo ciò che seppi offrire prima di iniziare a piangere a dirotto sul suo petto fatto a mia immagine e somiglianza: i miei primi baci. 
Lasciai quella stanza con la promessa di tornare il mattino seguente, ma non sapevo nemmeno se sarei vissuto abbastanza per farlo con tutta quella meraviglia dentro. Non so cosa provi un gabbiano al suo primo volo ma di certo il suo nido deve sembrargli alquanto misero una volta capace di lasciarlo. Tutti i pensieri luminosi si mischiarono comunque con ciò che sapevo sarebbe potuto accadere in casa, se me ne fossi uscito con la verità ma certo mentire, non era la mia strada. 
Il 52 mi guardava silenzioso mentre salivo le scale che portavano al suo portone, nel piazzale non c'era nessuno ed un vicino mi salutò come si salutano gli adulti con un buongiorno invece del solito ciao, mi chiesi se il mio cambiamento fosse già così evidente e provai un brivido di paura al pensiero della porta di casa che si apriva. Forse anche Alessandro o Giuseppe avevano dato il loro primo bacio alla creatura perfetta per loro, ma di certo sebbene potessero, credo che neanche loro lo avrebbero detto, perché non è nella natura fisica della persona che ce lo suscita il problema quanto nello shock che quella capacità di "volare" genera nei propri genitori: la consapevolezza che li lasceremo prima di farlo fisicamente, che in qualche modo non gli apparteniamo più totalmente, che abbiamo scoperto a chi apparteniamo davvero: unicamente a noi stessi. 
Il gabbiano adulto non torna a contemplare il vuoto del proprio nido ma non tutte le creature hanno questo nobile istinto. Per un po' gli esseri umani quel nido vuoto lo contemplano eccome e purtroppo anche se parlano di ciò che è "secondo natura" ai propri figli, in cuor loro detestano la natura quando fa il suo corso. Di certo i miei avrebbero detestato anche me, se gli avessi spiegato cosa la natura mi aveva spiegato e invocando Dio o la natura stessa, non si sarebbero esentati dal mettermi alla sbarra come imputato, colpevole di non aver riflesso la loro immagine ma di essermi permesso di vedere la mia soltanto, così come io a mia volta li avrei giudicati per ogni singola azione con la quale tentarono di impedirmi la piena consapevolezza di me e dell'amore su ogni cosa. 
C'è una "prima volta"  per tutto dicono. Ci fu per me come per chiunque e grazie alla banda del 52, ebbi più prime volte di quante non ne possa ricordare. La scoperta di me stesso e della mia unicità nel mondo mi fu facilitata grandemente dai piccoli membri di quella banda, dal grande gioco con cui scoprivamo cosa eravamo capaci di essere, sopportare, custodire e provare l'un l'altro. Tutto ciò di cui  avevo fatto esperienza   su quel piazzale, il viaggio nella buia intercapedine, la pineta e la nostra casa nell'orto, ogni persona incontrata o temuta mi aveva insegnato quanti colori avesse la vita. 
Mentre la famiglia mi "indirizzava" o si sforzava di "correggermi", la vita invece, si mostrava lasciando a me la scelta, nella sua infinita varietà di forme e modi, di come viverla con gioia coraggio e intensità ma anche  mostrandomi come gli esseri umani reagivano a coloro i quali "portano differenza": con paura e controllo e laddove questi non funzionassero, con l'emarginazione più  violenta. 
Non avevo intenzione di rimanere chiuso in casa come Fabio con sua madre ne di essere compatito come Maurizio o aggiustato come il braccio di Alex. Peggio ancora con volevo ritrovarmi penzoloni da un albero in Pineta come Elena la cui differenza nel mondo non potemmo mai celebrare. 
La mattina seguente dovetti decidere se ritornare da Salvatore o no. Uscii il mattino come uno che non torna, mi voltai verso i balconi del 52 sperando di vedere il sorriso di Giuseppe ancora una volta o di sentire Alessandro sfuggire alle urla di sua madre ma anche loro probabilmente erano in "viaggio" verso il proprio destino. Al banco dell'albergo chiesi della sua camera con lo stesso tuffo al cuore del giorno prima ma stavolta deciso a conoscerlo fino in fondo.
" mi spiace, ha lasciato la stanza stamattina con le prime luci dell'alba" disse il portiere con un sorrisetto di scherno, nessun recapito che fosse lecito ottenere ne io capace di chiedere. Me ne restai col nulla in mano e lo sguardo fisso seduto sul pilone che impediva alle automobili di percorrere il vicolo, a guardare l'insegna dell'albergo: hotel Stella. Maledicevo il pianto che gli avevo propinato, forse per quello se ne era andato? 
Mi ci volle una notte per decidermi ad esser uomo, si uomo con un uomo. Avevo pensato,  una notte di troppo evidentemente. Il primo essere umano a mia immagine e somiglianza se l'era portato via la luce del mattino ed ora non sapevo se ne avrei mai più incontrato un altro: se mai avrei rivisto quegli occhi verdi. Pensai persino di tornare a casa e raccontare tutto, come buttandoti da un ponte, per farla finita una volta per tutte. Mi avrebbero detto Omosessuale.   Si dice così? 
Un giovane omosessuale che soffriva come la ragazza che aveva accanto, quella a cui il ragazzo le aveva appena detto basta, si diresse a prendere un autobus ripercorrendo gli stessi passi, che l'avevano visto frettoloso giungere a quel vicolo ma stavolta gli parvero infiniti quei pochi metri. Ogni centimetro del marciapiede gridava "sei fregato, non hai più niente". 
Tutti gli odori di quel corpo  e i sapori di quella bocca gli inondarono la testa come la risacca sulla spiaggia per poi ritirarsi come lei, impossibili da trattenere. 








Dalla finestra del salotto, nel quale i miei genitori sembravano aver trovato rifugio dal mondo, guardavo la pineta ormai ammantata di Autunno e le sue foglie gialle marroni o rosse tutte identiche ma tutte diverse, cadere una dopo l'altra sotto il peso della linfa che gli mancava, quanto a me mancava lui. 
Un richiamo per la cena, profumo di nulla, poche parole, un piatto tiepido che sapeva di prigionia, finito il quale nessuno aveva qualcosa da dire o da sentire. 
" devo dirti una cosa" - feci io, una volta rimasto solo con lei. 


Inviato da iPad

lunedì 26 ottobre 2015

La banda del 52 cap 19: istruzioni di volo.


C'è vento a Genova quasi ogni giorno, ma alcuni giorni il vento soffia con l'intensità di chi ha deciso di sollevarti per aria o spazzarti via: nessuna via di mezzo. In quei giorni si ritirano i vasi dai balconi, si assicurano le persiane e nelle terrazze coltivate si spezzano le delicate piante di lamponi se non sono state coperte. 
In quello stato di tensione, non tutti si trincerano impauriti, i passeri per esempio o i gabbiani insegnano ai propri pulcini a lasciare il nido, a vivere o morire, di certo a lasciarlo comunque. 
Nessuno conosce cosa li spinga a quel balzo nel vuoto e ormai stretto nel mio letto singolo, mi chiedevo se non fossero anche loro esausti da quella sensazione di costrizione, se non lo fossero a tal punto da accarezzare il sapore della morte, pur di  poter nascere o volare.  Ero certo che gli esseri umani che si dicevano essere la mia famiglia, non avessero nulla in comune con me ma neanche il mondo sembrava invitarmi a una seconda scelta, che fare perciò? Con chi condividere il doloroso senso di unicità che mi era stato riservato? Cosa farne, non potendo rinunciarvi senza sentirne la mancanza come, dello spazio ne sentivano i miei piedi in quel lettino?
A nulla valeva più premere il pollice tra l'indice e il medio come facevo da bambino o torturarsi il cazzo come avevo preso a fare dopo. A furia di gridare in silenzio finii col sentirmi talmente male da alzarmi dal letto una notte e cadere per terra, privo di sensi o quasi. 
Luci, rumori, odori  e immagini, vorticavano tra la coscienza e il sogno, in un posto liquido dove non ero corpo ne pensiero ma piuttosto, tutti i miei sensi insieme. La sirena, il freddo di un lettino metallico e poi una voce calda e pacata che si distingueva dai suoni delle voci spaventate che mi circondavano che diceva: va tutto bene. 
Ci ero già stato all'ospedale, quando avevo otto anni e da cinque la chiamavo mamma, sperando avesse senso per lei perché io non sapevo ancora cosa significasse, nel reparto di ortopedia dell'ospedale dei bambini, ero quello meno strano con la mia gambetta e il piede capace solo di stare giù, perché il bambino del letto a fianco, aveva le dita delle mani storte e tutte unite e gli altri la testa quadrata e le gambe corte piene di ferri. Qualche coglione di infermiere ci disse che avremo visto la proiezione di una fiaba: Biancaneve e i sette nani, ma non mi dissero che si chiamavano così anche quei bambini che non sarebbero mai cresciuti, ne che il mio intervento alla gamba non mi avrebbe visto inchiodato come loro. 
Il medico del pronto soccorso disse alcune cose mentre io riprendevo coscienza dei miei quasi diciassette anni nella sala visite poi mi lascio' li da solo mentre ritornavo corpo e pensieri. Sentii di nuovo quella voce calda ma stavolta, accompagnata da un viso da capelli ricci, occhi verdi e la giacca arancione dei lettighieri della Croce Bianca. Era lì ma sembrava non avesse dovuto, perché prima che potessi dire qualcosa mi aveva accarezzato ed era uscito in fretta, lasciando entrare i miei genitori i quali, forse per lo spavento non mi accarezzarono ma anzi, mi vestirono alla bene meglio con i gesti frettolosi di chi ha perso la pazienza, per riportarmi a casa. 
Molti giorni dopo quel fatto, un giorno prendendo un autobus affollato vidi una figura che avanzava sventolando una mano, gli stessi capelli ricci e occhi verdi ma nessuna giacca arancione. Ciao ti ricordi di me? 
Feci un poco di fatica tra l'imbarazzo la memoria ma quando fu vicino, non ebbi dubbi. Si chiamava Salvatore: un nome calzante per un volontario di croce. 
Era più grande di me sapeva di uomo fatto sebbene giovane, non c'era traccia in lui della mia goffaggine e parlava sicuro senza mai lasciarmi abbassare gli occhi come avrei voluto fare, mi disse altre cose su chi era o dove lavorava ma la domanda che mi premeva fargli non uscì mai dalla mia bocca: perché era tornato a salutarmi? 
La sensazione piacevole della sua vicinanza, si mescolava al disagio della mia inesperienza impedendomi di pensare a quel l'incontro come ad una coincidenza o ad un colpo di fortuna. Chissà se il mio rossore era  visibile anche sotto l'abbronzatura della estate precedente. Sentivo di essere come sul bordo di qualcosa, ma anche avvertivo la vertigine che immobilizza invece di spingere avanti. 
Non so più chi scese per primo lasciando l'altro, ma probabilmente finii per dire più di ciò che volevo, perché nei giorni che seguirono il pensiero di lui non mi lascio' un momento, soffiando sul cuore come il vento sui pini marittimi poco prima di un temporale. 
Un salto nel buio. 
Non ne feci parola coi ragazzi, ma il mio comportamento distante parlava chiaro e loro sono certo cercarono al meglio di comprendermi, come avevano fatto col foglio seppellito sotto l'albero, nel loro modo silenzioso e vicino al tempo stesso.
Nessun pulcino conosce il giorno del suo primo volo, ma ogni cosa quel giorno sembra sottomettersi al destino che la muove, che la vuole viva o morta per bilanciare l'armonia più ampia che chiamiamo natura,  fato o vita: il vento soffia il nido scricchiola sotto il peso dell'uccello cresciuto e qualcosa di inconscio chiama ogni elemento al suo compito ultimo: vivere ed essere adatto alla vita. 
Nei treni che solcavano la riviera i vagoni erano divisi in scompartimenti da sei posti, tre erano occupati da Alessandro, Giuseppe e Alex, i tre di fronte da solo due persone. Una era allungata sul terzo sedile con le gambe,  la sua testa,  appoggiata al grembo  di un ragazzo che fissando i suoi occhi verdi gli accarezzava i riccioli. 
Nessuna battuta sconcia o umiliante da parte dei tre e nessun disagio da parte mia, tutto sembrava accadere perfettamente come doveva succedere come ognuno di noi sapeva essere. 
Forse all'apparenza, potevamo sembrare quattro ragazzini in gita accompagnati da uno più grande di noi, esattamente come la società si aspetta di vedere, e per questo niente e nessuno turbo' il nostro piccolo  viaggio verso il litorale che anche d'inverno meritava una passeggiata, un trancio di focaccia al formaggio, una carezza data ma fino a quel giorno,soltanto immaginata, a qualcuno come te. 
Avevo conquistato il mare da solo per non aggiungere distanza oltre quella che potevo sentire da ciascuno, persino dalla mia amata banda: ora con il cuore in gola e la certezza nella pelle di non essere il solo,  miravo al cielo mentre appoggiati alla ringhiera del litorale il vento salato del mare sfidava i  capelli di tutti a rimanere attaccati alla fronte. Una lacrima rigò il mio viso ma di certo doveva essere colpa del vento, anche se il mio cuore sapeva che i giorni con loro non erano ancora molti da spendere.


Inviato da iPad

martedì 13 ottobre 2015

La banda del 52 cap18: sassolini bianchi.

Il 52 fu una benevola madre di cemento per molti di noi. Sembrava che contenesse tutto ciò che dovevamo sapere sulla vita. Famiglie, persone e una valanga di segreti dietro ogni porta lucidata a dovere per mostrare ai vicini che tutto fosse  in ordine,  che tutto fosse "normale". 
Non so dire, se c'era più cera nei suoi pianerottoli o nelle facce di chi li abitava, ma sembrava che l'anima di quel palazzo volesse parlarmi, che avesse contenuto ogni singola persona affinché la incontrassi e ne conoscessi la lezione in serbo per la mia vita. 
La banda che si era formata mi aveva fornito tutta la appartenenza che mi era sfuggita nella prima parte della mia vita ed insieme era stata il grembo sicuro della mia formazione emotiva a tal punto che se non fosse stato per la corretta istruzione, la scuola sarebbe potuta essere superflua. Di certo, il 52 mi formo' in ben più importanti  aspetti della crescita di un essere umano: avventura, aggregazione, adattamento e sviluppo. 
Alex il nostro "onde man show" aveva due fratelli più grandi ma uno dei due meritava di essere raccontato più dell'altro. Ti capitava di vederlo certe ore del giorno con la sua borsa a tracolla tornare dalla scuola,magari canticchiando a voce alta o chiamando per nome le signore del palazzo, come se fossero delle coetanee. Non era maleducato Maurizio nel trattare con gli adulti, perché lo faceva come un bambino di dieci anni pieno di entusiasmo. Anche se doveva averne almeno dieci di più, Maurizio, non avrebbe mai avuto più di dieci anni per tutta la vita.
Le famiglie così perbene del 52, se potevano, cercavano con ogni scusa di non trovarselo tra i piedi, perché potevi esser certo che se anche fossi stata vestita da sposa o di ritorno da un funerale, lui ti avrebbe abbracciato con la forza mal dosata del suo corpo di ragazzo dal cuore bambino. I suoi genitori dovevano essere stati a dir poco magnifici per quei tempi ad averlo reso il più autonomo possibile, coi pochi mezzi e l'ignoranza di allora circa certi fenomeni della mente e infatti, lui non era di peso per nessuno, tuttavia i suoi genitori erano spesso eccessivamente arrabbiati per le vicende inutili di condominio. 
Maurizio era intriso, inzuppato forse persino fatto di amore per gli altri e non aveva nessuna inibizione nel mostrarlo continuamente: "ciao Maria" diceva a mia mamma vedendola alla finestra mentre saliva le scalette fino al portone, poi, con le sue amate tennis si portava sotto la finestra e cominciava a raccontarti qualcosa. 
Parlava forte e rideva spesso fino a che la saliva non formava delle bolle o gli colava dal labbro, ma lui si puliva e ricominciava perché il suo bisogno di comunicare era prioritario.
Alle domande semplici rispondeva correttamente e se erano invece più difficili, come i bambini si fermava un po a pensare, dopodiché cambiava discorso. Sapendo che si fermava volentieri a parlare con chiunque, sua madre, passata una certa ora lo chiamava e lui allora ti salutava e andava a casa. 
Era una strana epoca quella, perché nonostante si usassero dei termini orribili per definire i ragazzi come lui, si era però portati nei quartieri ad una certa vigilante cura comune della loro incolumità. Mio padre specialmente, lo ascoltava o lo tirava su in macchina se lo vedeva a piedi accomiatandosi da lui con una carezza e vuoi il fatto che era il fratello di Alex, vuoi per la sua bontà, vuoi perché papà mi aveva mostrato un ottimo esempio, anche io presi a non defilarmi incontrandolo. Certo sapeva stonarti il cervello Maurizio con la sua voce chioccia e stridula che ben si adattava al conflitto fra la sua crescita fisica e quella cognitiva, ma sapeva anche toccarti il cuore. 
Certe volte quando era offeso o triste stava fermo con le mani giunte al petto torturandosi le dita mentre gli occhi cercavano conforto da qualcuno che una volta individuato veniva raggiunto e inondato dalle sue rimostranze al riguardo ora dei fratelli o di qualche difficile esercizio scolastico. Nel guardarlo mi chiedevo come facesse la sua mente a sopportare la crescita fisica ma poi ti raccontava della sua fidanzata, di quanto era carina e ti sembrava fosse più sveglio di te! 
Un altro ragazzo particolare era Fabio  figlio dei signori dell'ultimo piano e mio amico speciale. Ci eravamo conosciuti perché le nostre mamme si erano fatte amiche opportunistiche, dato che la Maria Luisa, mia mamma, aveva rinverdito la patente e la mamma di fabio pur di avere un passaggio, sapeva incoraggiarla come nessuno, mentre noi ragazzi dietro la cinquecento facevamo conoscenza. Fabio non diceva molte parole ma i suoi enormi occhi castani e la gentilezza delle sue mani sempre gelate dicevano che era contento di conoscermi. 
Fabio in piazzetta non ci veniva ma non è che sua madre avesse qualcosa in contrario, piuttosto lui non voleva allontanarsi da casa, data la sua patologica timidezza, perciò siccome il suo silenzio e la mia chiacchiera si combinavano bene, prendemmo a vederci a casa sua. Salivo d'inverno specialmente, a giocare con lui che aveva giochi molto belli e costosi essendo figlio unico ma mancava della fantasia per goderne. Di quella io ne avevo da vendere e volta per volta, dopo le prime reticenze, Fabio mostro' di apprezzare la mia compagnia e la discontinuità che questa gli offriva dalla sua principale occupazione: lo studio. 
Quel ragazzo era intelligente oltre la media ma quella che sarebbe stata una capacità di successo nella vita adulta, gli capito' nella prima adolescenza catapultandolo nel contenitore delle persone "strane". Sua madre era una donna dolcissima e talmente premurosa che le sue attenzioni potevano essere anche soffocanti. Aveva desiderato quel figlio più di ogni altra cosa ma i dolci che preparava per la nostra merenda erano intrisi di lacrime e lo capivo dallo sforzo che faceva perché io non mi allontanassi da suo figlio. Fortunatamente io di attenzioni avevo sete e Fabio era perfetto per uno come me in quanto consentiva alla mia immaginazione di scorrere libera e addirittura di trasportare anche lui in luoghi pieni di avventure senza nemmeno uscire di casa. Imbastivo per lui, autentiche sceneggiature con personaggi e dialoghi che ero bravissimo ad alternare tra loro e ruoli epici o romantici coi quali senza saperlo gli insegnavo le emozioni che lui non sapeva mettere a fuoco, e con lui io mi sentivo perfetto così com'ero. 
Sia lui che Maurizio, e perché no, anche io potevamo essere oggetto di imbarazzo per i nostri  adulti i quali con maniere tanto diverse ci amavano di un amore contaminato da qualcosa che non permetteva loro di goderci appieno: la paura. 
Aveva paura la mamma di Alex, che suo figlio con la sua innocente ingenuità fosse deriso o peggio da coloro ai quali si avvicinava tanto facilmente e con fiducia, ne aveva la mamma di Fabio che, nessuno si accorgesse di lui nonostante il successo scolastico che son certo maledicesse, ma che era terrorizzata all'idea di perderlo e ne aveva mia madre della mia fantasia "contorta" come aveva preso a chiamarla da un po, così come della mia diversità ormai difficile da coprire. 
Che ti amassero o che non ne fossero capaci, i genitori del 52 come molti di quelli di allora, non erano preparati alla unicità, alla specificità dei loro figli ma ossessionati piuttosto, da un concetto di "norma" che non causasse loro visibile imbarazzo sociale. Le famiglie normali mandavano i loro figli perfetti e insulsi all'oratorio, come Marcolino che tornava isterico, quelle che avevano figli come noi erano invece  meno inclini a mostrarci.  Capaci di chiudersi o di diventare aggressivi non era più chiaro cosa o chi difendessero con quegli eccessi. I propri figli? Se stessi? In ogni caso, mi sentii di includere sia Fabio che Maurizio nel mio caleidoscopio umano e divisi tanto con loro,quanto con gli altri, la mia quotidianità perché in qualche modo erano anche loro sassolini bianchi tra pietre nere: come me. 

Le critiche del resto, non venivano risparmiate e le persone dietro le loro porte laccate e le piante finte di certo intrattenevano autentici processi volti a determinare le cause di quelle "anomalie" per passare il pomeriggio con le amiche a gongolarsi sulla loro progenie di smidollati senza alcun mordente. "Sarà nato così perché il marito beve" o " dicono che a quattordici anni gli faccia ancora il bagno..per forza quel ragazzo è strano" o nel mio caso " sembra una donnetta quello...se fosse mio figlio lo manderei in collegio"! 
Il mondo del quale volevano facessimo parte ci veniva presentato con tutta la sua contraddizione alla quale, secondo il pensiero comune, la normalità rispondeva come "lasciapassare", ma a mio avviso  un po' come le piante finte dell'androne rispondevano al concetto di "natura": in modo davvero difficile da considerare realistico. 
C'era qualcosa di più interessante nella differenza e nella nostra capacità di entrare in contatto reciproco. Io Alex Giuseppe e Alessandro Maurizio e Fabio  avevamo già affrontato con i nostri giochi, patti e avventure molte delle sfide che la vita futura ci avrebbe riservato e istintivamente appianato il concetto di differenza più efficacemente di come le nostre famiglie credessero: noi eravamo la banda del 52: quello che ad uno di noi mancava, era sovrabbondante nell'altro. Magari la"norma" non era soddisfatta ma lo erano di certo l'equilibrio e l'armonia. 


sabato 10 ottobre 2015

La banda del 52 CAP 17: inutili pene.


Una strana idea degli adulti, circa l'adolescenza, è che sia tutta una elucubrazione ormonale che genera allucinazioni emotive e che rende i ragazzi ingrati, maleducati o fastidiosamente silenziosi o loquaci.  Sarebbero capaci di ritenerti adolescente anche a trentacinque anni se ti capita di non dargli ragione o di agire per tuo conto, ma se di anni, ne hai davvero quattordici,  puoi star certo che si aspettano che tu stia chiuso nella stanza e che parli per monosillabi. Perché non parli? Non parlarmi in quel modo eh?!
In generale, sembrano credere sia tutto nella tua testa. 
C'è invece, in quei silenzi e nella quotidianità' degli adolescenti, qualcosa di prettamente fisico che complica tutte le manifestazioni. Si, parlo di lui, del pene e senza chiamarlo pisello, pisellino, o "quell'affare" come lo chiamava mia madre. Direte ma le femmine sono adolescenti anche loro, perché parlare del pene? Perché alla fine, anche nella quotidianità delle ragazze adolescenti, nella loro irrequietezza, questi, ha un ruolo ben preciso e poi io ero maschio, di che dovrei parlare? 
Ah gia della vagina forse, ma è proprio questo il punto: il ruolo dei genitali nella vita degli adolescenti non e' legato al loro compito riproduttivo o all'erotismo come pensano gli adulti che, siano essi bacchettoni puritani o liberali e modernisti, sono davvero fissati con il sesso in modo imbarazzante. Per i ragazzi, ha a che vedere con un passaggio alla vita adulta nel quale i genitali sembrano farti lo sgambetto proprio quando il colpo di inizio per la corsa verso la libertà è stato sparato. Che ti siano cresciuti due ingombranti seni che ti costringono a camminare gobba o che il tuo pene un certo mattino sembri voler sollevare un comò, tu ti trovi a non provare nessun piacere per i tuoi nuovi prepotenti accessori ma solo l'evidenza fisica del tuo disagio a convivere con la loro individualità.  Come possono gli adulti pensare che questi fenomeni ti spingano ad essere estroverso, comunicativo o sereno? 
Tornando al pene, col quale ho più confidenza, ricordo di aver pensato che rispetto alle ragazze ero più fortunato, perché una volta fatta la pipì al mattino ed evitato di farmi vedere dagli altri componenti della famiglia, lui, se ne tornava abbastanza invisibile mentre le povere ragazze potevano far pipì per tre ore ma le tette non gli si sgonfiavano di certo. A noi i genitori urlavano,  "vai in bagno quando ti alzi", a loro invece, " stai dritta che ti rovini la schiena"!
Ed ecco perché il pene ha un ruolo di primo piano anche nella vita delle adolescenti femmine, perché oltre a rappresentare qualcosa di brutale e attraente al tempo stesso, il pene manifesta tutto il privilegio della società per i maschi dato che appare e scompare come le tette non possono fare: quelle una volta che ti escono dal petto poche o tante che siano e prima che una ne capisca il potere, ti gettano in un imbarazzo costante perché soggette ad un giudizio di "quantità" , che il pene riceve in contesti molto più privati, il che le spinge anche a detestare i maschi per un momento. 
Quando un ragazzo entra a scuola difficilmente verrà canzonato nell'atrio per le sue misure ( che tra maschi vengono confrontate ma in ambiti camerateschi e non vale per tutti ) mentre invece una piatta o pettoruta può star certa di sentire diverse canzonette al riguardo non appena varchi una porta, non mi sorprendo quindi che una volta tornate a casa fossero alquanto più isteriche di noi. Incomincia comunque volente o nolente una difficile convivenza con questi fenomeni in un momento in cui i comportamenti infantili assodati si mischiano a nuovi schemi comportamentali di cui non conosciamo gli esiti: se fare i capricci o cercare coccole suscitava nei nostri adulti reazioni conosciute e affidabili, avere una erezione o un dolore premestruale al seno non  avrebbero significato niente di certo. Avresti potuto ricevere un abbraccio che non potevi ricambiare o una sgridata che non meritavi. 
Molto dipendeva dalla natura delle proprie madri e padri, purtroppo, da ciò che questi avevano imparato dalle reazioni dei loro genitori sommate alle ottuse convinzioni che si erano formati una volta diventati  genitori tuoi e dei tuoi genitali. Mia madre ad esempio, si arrabbiava moltissimo se papà usciva dal bagno in mutande dopo essersi lavato e con me si arrabbiava perché ne uscivo vestito ma senza averlo fatto: mia madre era arrabbiata a tempo pieno. Diceva ad esempio, che sua madre non le aveva spiegato molto sui maschi e me lo disse, come se questo  dovesse spiegare qualcosa ma a me. 
 Fatto sta che  del il mio pene me ne cominciai ad occupare in modo assai discontinuo e sbrigativo eccezion fatta per la masturbazione a cui dedicavo attenzioni più prolungate in quegli anni. 
Siccome ti masturbi,  e i tuoi genitori lo scoprono solo perché non sei attento o perché  dal cesso non esci più o ne esci arrossato come un peperone, ecco che improvvisamente,  sei dichiarato in qualche modo disgustoso o ingiustamente colto da pulsioni inproprie. Ma come?  Ti parlano di sesso prima che ti interessi o neanche te ne parlano, quando sei li che non sai che ti succede, pensano che tu ce l'abbia con loro o che sia colmo di pensieri sull'altro sesso ( di cui ne sai quanto del tuo e cioè niente) ma se diavolo ti masturbi,  allora si che gli fai schifo! Se finalmente e da solo, hai capito a cosa serve, beh quello e' un problema. 
E anche qui il pene ha il suo peso poiché la masturbazione femminile pare essere più discreta in un certo senso e probabilmente, meno facile da ravvisare per un genitore. Forse fu per questo che presi a riempirmi le mutande con i bigodini di mia madre la quale non avrebbe mai scoperto il segreto delle sue messe in piega. Detestavo il disprezzo che le leggevo negli occhi per il mio sesso o per l'idea che se ne era fatta e non potei che ricambiarla a modo mio. Di questo dovrei non andar fiero lo so, ma non posso che provare invece una certa soddisfazione per la creatività con cui mi ero espresso. 
Certe volte avrei voluto essere come Goldrake che pur avendo i magli rotanti, l'alabarda spaziale non ce l'aveva in mezzo alle gambe, o come il Big Jim a cui il pene doveva essere caduto, così come credo mia madre si augurasse per me, invece ero come un supereroe imbranato a cui si sguainava la spada senza controllo.  Un sacco di cose nel mondo erano fatte a forma di pene: gli obelischi, i grattacieli americani, i coni gelato ( che smisi di mangiare) e le penne bic, o così comincio' a sembrarmi. 
Ci mancava anche il pene a dirmi cosa fare e quando...
Non ti senti potente in quei momenti o spregiudicato e malizioso come credono. 
Alla fine io avrei voluto parlare delle mie emozioni al riguardo, del turbamento che non provavo per il sesso ma per la triste fine di quei giorni in cui col pene ci facevo pipì e basta e  per quello che ora avrei dovuto farci secondo l'Enciclopedia Medica che  mi aveva mostrato tempo prima e che non mi convinceva proprio, ma come poteva reagire mia madre al mio interesse per un secondo pene e non per una vagina? 
Quel genio,  dopo aver parlato a mio papà circa il perché della mia improvvisa tristezza e della mia chiusura se ne uscì con la trovata del secolo dicendomi: "senti guarda che data la tua storia e' normale che tu ti senta così ma se vuoi non appena avrai  diciotto anni potrai sapere chi sono i tuoi genitori naturali e se vuoi ti accompagno io a prendere i documenti che saranno necessari". Ricordo ancora il senso di disperazione che mi colse guardando la sua espressione da " io si,che so cosa provi" e riuscii solo a dirle: cazzo mamma, forse è meglio che ti lavi la testa come avevi detto di fare. " smettila di dire parolacce santo cielo". 
Si, i genitori sanno sempre cosa ci succede, lo sanno perché ci sono passati prima di noi, perché sono sopravvissuti all' adolescenza. Lo sanno perché credono di sapere quello che siamo ma preferiscono occuparsi  di ciò che sembriamo, specie se sembriamo diversi da loro. I genitori non capiscono un "cazzo" ma è meglio che non glielo diciate così,  altrimenti penseranno che avete in mente solo quello e, se per caso fosse vero, allora ne  sarebbero di gran lunga più spaventati di voi. 
Perché non ce l'hanno il coraggio di dirvi che possono solo insegnarvi ad essere come loro dal momento che ciò che erano alla vostra età lo hanno dimenticato o rifiutato. Ne l'onesta' di dirvi che il vostro pene o la vostra vagina non determinano chi sarete, chi amerete e chi diventerete. 



martedì 6 ottobre 2015

La banda del 52 CAP 16: il mare dentro.


Il mare a Genova rientrava nella familiarità di ogni gesto . La sua risacca si rifletteva nel "mugugno" della gente per strada, il moto ondoso, nelle salite e nelle discese della città e il salmastro della  acqua, nel carattere forte  dei suoi abitanti come nella ruggine di ogni cardine.  
Per i ragazzi che diventavano grandi, andare al mare senza i genitori, rappresentava la conquista della libertà che avrebbe raggiunto il culmine con l'esplorazione da Levante a Ponente della sua Riviera. 
Da piccoli,  c'eravamo andati al mare ma a causa del frastagliato litorale roccioso, le spiagge adatte a bambini e famiglie impegnavano una giornata di tragitto per essere raggiunte o soldi a sufficienza, per accedere ai lidi privati presenti nella città. Dei miei, solo mio padre sapeva nuotare ma ansioso come era si guardò bene dall'insegnarcelo, mentre la Maria Luisa sfidava la fisica elementare non riuscendo a galleggiare neanche col salvagente. Del mare, da bambino,  ricordo solo la sabbia nel sedere e il fastidioso concetto di digestione, secondo il quale mare e cibo non si potevano coniugare, come anche le parolacce di papà in coda con la macchina a passo d'uomo, nella via del ritorno. 
Il bello del 52 era che essendo un palazzo  di ferrovieri, noi famigliari, godevamo di una preziosa tessera del treno  gratuita e per ragazzi adolescenti e squattrinati come noi, questa era già ricchezza. Ad un certo punto,  dovevamo essere diventati abbastanza grandi o insopportabili  da aver ottenuto il permesso di prendere il treno per andare al mare il pomeriggio. 
Si trattava in realtà di un paio di fermate dalla stazione principale ma di certo, il treno, era più rapido di un bus e gratis. Dopo fiumi di raccomandazioni, si andò zaini in spalla verso lo scoglio di Quarto al mare,  dove c'era una spiaggia libera, una parte ricavata da scogli, e alcune piazzole di vecchio  cemento realizzate anni prima per chissà che,  ormai ricoperte di muschi e  parte del panorama. Come ci sentivamo grandi  seduti nello scompartimento a ridacchiare di questo o quello, o a mostrare le tessere ferroviarie al controllore, che ci sorrideva come avrebbe fatto ai suoi figli. 
Giuseppe e Alessandro sapevano nuotare mentre io invece no, così le prime volte rimanevo sull'asciugamano o li aspettavo sulla battigia per decretare chi di loro era il vincitore del tragitto dalla "piattaforma" alla spiaggia in velocità, ma certo non ero proprio felice del compromesso.
La sensazione di esclusione da loro e da quell'elemento così a portata di mano mi faceva sentire come di fronte ad una torta in vetrina. La sorellina di Giuseppe, che sua madre mandava obbligatoriamente con lui, sembrava capire la mia frustrazione e, forse perché anche lei era un po sola, tornava festosa da me a dirmi ogni cosa che aveva visto con la maschera sotto l'acqua: i ricci di mare, gli oggetti sul fondo, o che altro. Strizzava  i suoi lunghi capelli di ragazzina portandoli di lato con la grazia di una fatina del mare e con la sua voce allegra, mi invitava più volte a scendere in acqua con lei, " vieni di qui che è più facile e si tocca" mi diceva certissima della affidabilità delle sue "ispezioni", e io la seguivo fino magari a sedermi su uno scoglietto mentre lei saliva e scendeva dalla superficie per prendere fiato! 
Mi prendeva conchiglie sempre diverse o vecchi pezzi di vetro che rimestati per anni nel moto ondoso del fondo si erano arrotondati fino a sembrare giade chiarissime e preziose. Tenendoli tra le mani riflettevo su come si fossero trasformati e mi chiedevo se anche io avrei avuto quella occasione, se anche per me ci fosse una trasformazione possibile che da "coccio d mi potesse rendere "gemma".  Il mio sguardo, mentre lei pescava i tesori, si volgeva alle persone che ci circondavano: tutti sembravano sentirsi in dovere di prendere il sole e mostrare così i loro corpi senza l'imbarazzo che provavo io. Come avevano vinto quel senso di vulnerabilità e vergogna che incuteva il costume da bagno? O non lo avevano mai avuto? Si lasciavano bagnare come quei vetri fino a sembrare lucidi e scintillanti al sole. Abbarbicato allo scoglio cercavo di mettere in acqua la maggior parte del mio corpo per essere brillante al sole anche io. 
Di certo quell'imbarazzo, non l'aveva Giuseppe, che ne indossava un costume bianco e fin troppo trasparente se bagnato, e che non appena steso il telo sullo scoglio, si spogliava impaziente con le sue gambe pelose e i bei piedi per correre con Alessandro alla Piattaforma: una lastra di cemento posata tra due scogli da cui le onde potevano coglierti alle spalle, come l'imbarazzo coglieva me in quei momenti. Io ero l'ultimo a rimanere in costume e nonostante fossi agile in pineta, i miei piedi sembravano troppo delicati per i ciottoli della spiaggia o le creste rocciose degli scogli, tra i quali più spesso mi trovavo carponi a tentare di valicarli. 
La naturalezza con cui quella bambina affrontava il mare così vasto e mosso, mi diede coraggio è un giorno mentre i ragazzi si spingevano in acqua dalla piattaforma io e lei, ci mettemmo in un punto riparato dalla confusione e li accadde!
Con la sua mascherina mi indicava dove mettere i piedi e mi trovai con fuori dall'acqua solo la testa. "Vado a controllare com'è sotto" mi disse la sirenetta!
Ci sono momenti magici nella nostra vita che si rivelano in modo inaspettato e che suggellano in noi cambiamenti profondi come il mare: in quell'abbraccio liquido la mia mano si staccò dalla durezza della pietra a cui era aggrappata, senza  che quasi me ne accorgessi. Mi trovai sospeso e  contrariamente a ciò che la paura mi aveva detto circa il mare, questi mi cullava come non mi aspettavo. Per la prima volta, un elemento del mondo che temevo sembrava volermi affrancare da ogni peso, da ogni incapacità dicendomi silente col suo moto, di non far niente, che niente c'era da fare che non fosse già fatto. Eravamo io e lui e mi parve, che tutta la gente chiassosa e i ragazzi spavaldi fossero spariti, come inghiottiti da un silenzio nel quale il mio respiro e le onde si sincronizzavano leggeri. Non sapevo se era l'acqua salata a rigarmi il viso col sapore di una lacrima o le mie  lacrime ad aggiungersi al mare, ma fu come se una cataratta dei cieli si fosse aperta nel cuore ed ogni dolore lavato via dalle onde di quel mare di sale!
Nella bolla di quell'istante di felicità assoluta che poteva sembrare una nascita o una morte senza che ci fosse differenza, una vocina arrivo' chiara alle mie orecchie: " Fabri ma ci tocchi?"
I piedi che fino a quelle parole mi erano parsi fluidi come le alghe, tornarono a pesare nel cercare la risposta e non trovando nulla sotto di essi, si comportarono  da bravi macigni quali erano stati portandomi a fondo. Il battito del cuore e il respiro, stonavano tra loro cercando di vincere uno sull'altro, come se ne bastasse uno soltanto a sopravvivere e di nuovo, mentre l'acqua mi invadeva in ogni vuoto del corpo come un barattolo, un'altra scoperta mi colse sotto le onde. Gli occhi si spalancarono mettendo gradualmente a fuoco un panorama sommerso di suoni, colori e immagini e il fiato misto ad acqua che avevo in bocca mi costrinse a rinunciare all'acqua, trovandomi di nuovo immobile e in pace. La faccina di Federica ingrandita dalla maschera subacquea mi fece addirittura ridere e riemersi in una fragorosa risata come venendo al mondo per la seconda volta ma senza piangere.
Una volta raggiunta la terra ferma, la mia sirenetta mi abbraccio' felice e alle spalle, come le onde, Giuseppe e Alessandro, che avevano visto tutta la scena festeggiarono il mio "varo" da veri compagni. Ancora una volta la banda del 52 si era comportata come una famiglia ma più felice di come sarebbero stati i miei se avessero visto tutto ciò, non immagino neanche quali genere di punizioni e reprimende avrebbero potuto darmi ripetendo che potevo anche morire, senza aggiungere che potevo anche invece, aver imparato a nuotare sebbene non come ci si aspetta che succeda. 
Sul treno di ritorno, mi sembrava di sentire ancora il rullio del mare nello stomaco. Le mele verdi avevano lasciato posto al sale e alla sensazione di aver vinto da solo, le paure che avevo di non essere come gli altri. Di essere per forza destinato a guardare la vita come guardavo il mare prima di quel giorno: senza entrarci dentro con tutto me stesso. Il mare mi aveva fatto morire e rinascere in un solo giorno o forse ero solo pronto a vivere davvero?