domenica 13 settembre 2015

La banda del 52 cap11: il patto

Solo in quel tempo della vita chiamato adolescenza, si aprono scenari misteriosi su chi siamo, e sulla relativa reazione degli altri a questo. Forse perché, una parte delle informazioni già accumulate circa noi stessi riguarda le caratteristiche che "dobbiamo" avere, e non quelle che, direttamente si collegheranno alla nostra unicità nel mondo.
I genitori ti dicono che sei bravo o meno, se sei bello o brutto, se sono fieri di te o no solo in base a ciò che si aspettano, ma sono in parte coscienti che è un blando tentativo di difesa contro la paura che la domanda "chi sono?" fa a loro, come a te. 
Da bambino, ti affidi ai responsi che ti arrivano e seppur soffri se sono negativi o contraddittori,  non hai altra scelta che crederci. Sai come ti vogliono. Come conviene che sia. 
C'è uno stallo delle informazioni che avviene proprio nella pre-adolescenza, dove, le informazioni assodate non sono più sufficienti, ne adeguate e sembra che non ne arrivino di nuove. I genitori, anche loro, paiono rendersi conto di questo "vuoto" ma certamente molto dopo di te. un tempo dove per qualche stupida ragione smettono di toccarti, e cominciano a guardarti di sottecchi con sospetto.
La sete di risposta del giovane aumenta in modo inversamente proporzionale  al margine di onestà consentito ai genitori per soddisfarla. Alcuni genitori infatti, finiscono per non farlo in tempo o affatto. Ma che potrebbero dire? Che cosa davvero sono in grado di scorgere nella nebbia di un giovane prima di lui? Solo ombre, come quelle che ti dicono che non esistano quando sei piccolo. Quelle che da grandi temono più dei loro piccoli figli. Ciò che tu vorresti sapere di te, di cosa ti stia succedendo, se sia "normale"o no, importa più a te che a loro, perché loro hanno dimenticato e fingono di ricordare, come fingono di sapere. 
Per un po, il mio uomo di carta era bastato a darmi una idea "materiale" di ciò che era un uomo, ma finì anche lui per deludermi, per perdere di interesse, perché quegli uomini di carta hanno solo un cazzo per le mani e una faccia che sembra dirti che può bastare!
Non ho mai detto nulla, non volevo essere diverso,ma sentivo come a fare la differenza non era la mia pelle e le sue sensazioni ma alcuni sentimenti, che non sapevo abbinare tra loro. A volte ero pieno di tristezza anche se la verifica era andata bene o troppo euforico, in momenti in cui non sembrava esserci spazio, ma di tutti i sentimenti, uno era davvero difficile da amministrare: l'angoscia di essere unico, di non sapere se da qualche parte qualcuno era sopravvissuto dopo averla provata.  Si localizzava nel petto poco prima della gola oppure era capace di avvamparmi le cosce come di somigliare alla vertigine. La sensazione che mi separasse dagli altri era netta. Talvolta mi impediva di muovermi. 
Ma come potevo, anche con la massima fiducia, andare da mia madre e dirle cosa provavo? Lei, che sembrava dirmi  con ogni suo gesto "non potrei sopportare oltre", lei, che ritraeva quasi subito  la mano quando trovavo il coraggio di prendergliela sul tavolo, dicendomi: non c'ho testa. Eppure da bambino mi schiacciava dolcemente l'unghia del pollice come una cocccola. 
O mio padre, che era capace di non parlarmi per un giorno intero se la sera prima, dimenticavo di dargli la buona notte con un bacio sulla guancia, ma che sapevo che mi riteneva fatto male, perché da me voleva solo gratitudine ma non mi insegnava a fare niente.
Dovevo restare bambino, con la mia gambetta malandata, le guanciotte e gli occhi lucidi fissi su di lei, col  desiderio delle braccia di lui che mi sollevano, capace di accontentarmi di poco. Invece sono cresciuto e devo avere un aspetto orribile coi miei peli di troppo, il sudore, i brufoli e quel coso in mezzo alle gambe che mi ossessiona ma che sembra funzionare solo quando mi accarezzo da solo. Quando ripetendomi che sarò magro, sembro l'unico capace di amore  per quel corpo disgraziato.
No, lo sapevo io e lo sapevano anche loro, eravamo sotto lo stesso tetto ma per forza. Nessuno escluso. Lo sapevo di più ancora quando entravo in camera loro, di quelli che sanno tutto, che hanno già deciso se gli vai a genio o no. Una camera ordinata e senza odore, dove le collane di mamma sono  carine, mai usate, eppure tutte li nel ciotolino. Come me, anche loro si erano sforzate inutilmente di piacergli, ottenendo solo di poter rimanerle intorno. Di mio padre niente, l'ordine maniacale di una donna ne cancellava ogni traccia ad eccezione di una cravatta amaranto poggiata sulla sedia a dondolo per non sgualcirsi: la cravatta di un ferroviere che fa il suo dovere.
Nei pomeriggi d'inverno sul comodo divano di velluto a casa di Giuseppe, avrei voluto chiedergli se succedeva anche a lui, ma quante volte vi ho già detto che sorrideva? Sorrideva ai suoi peli che invece di portargli disagio, sembravano adornarlo perfettamente, sorrideva alle mie frasi, e qualche volta, nella scompostezza della libertà di un divano e di una età indefinita,  sorrideva anche appoggiato a me, per poi spostarsi senza disagio solo per accomodarsi meglio. Sorrideva senza il disgusto con cui sorridevano gli adulti, anche quando, prendevo una sua ciocca di capelli fino a tenderla per poi mollarla e vederla rituffarsi nel mare gioioso dei suoi riccioli.
Era un pomeriggio  perfetto quello in cui la mia vicina salì le scale come invasata. Vestita di grigio, era talmente magra che pareva impossibile che fosse tanto svelta. Il campanello suonò e mia madre dopo due parole, uscì sul pianerottolo con lei, accostando la porta in modo che non fossero udibili: morta impiccata. E' incredibile come l'idea protezione degli adulti sia direttamente collegata al loro crederci stupidi, ma io le avevo sentite quelle due parole, eccome se le avevo sentite.
In breve tempo rumori di altre serrature e di ciabatte sulle scale, testimoniarono la gravità di un fatto che andava oltre l'abitudine di farsi i fatti propri. Per un istante ebbi timore che qualcuno avesse trovato l'orribile risposta alla mia domanda, che sciocco. Solo uno sciocco ragazzo poteva augurarsi di essere lui al centro della loro attenzione solo per non affrontare il peso della parola morte.
Ci ero andato ai funerali, quello del nonno per esempio, ma ero piccolo e ricordavo solo di stare zitto e avvinghiato ad un braccio senza poter chiedere niente. Avevo visto morire i gattini d'inverno o sotto una macchina, la loro madre ma nonostante avessi pianto per l'inanimata fragilità di quelle creature non comprendevo come questo mi riguardasse.
Nel caos della notizia io e gli altri della banda, sgattaiolammo dalle porte di casa e ci riunimmo di fronte alle cantine nel sottoscala, dato che, l'atrio era già pieno di adulti nei loro abiti da casa. Che avete capito voi? chiesi.
Alessandro disse che sua madre, era svenuta in casa non appena aveva visto dal balcone tutte quelle persone dirigersi verso l'imbocco della pineta, e che perciò non poteva trattarsi di un animale. Giuseppe, visibilmente spaventato aveva smesso di sorridere e aveva gli occhi lucidi quando Alex, disse che sua madre aveva saputo di una ragazza grande trovata morta in pineta.
Ma morta come? Era caduta? E' scivolosa la pineta, lo sapevamo noi. Inutile chiedere ai genitori, per tutti la risposta fu: vai a giocare di là. Vai a giocare? E a cosa, al morto in pineta?
Come potevano anche solo pensare che ne avessimo la capacità? Che fossimo così vuoti da non sapere che quella ragazza, era inanimata come un gattino proprio nella nostra pineta? Da non sapere che una madre stava cercando di rianimarla o di fare qualcosa, proprio come le gatte facevano coi loro piccini assiderati? Ci guardammo come consapevoli di un orrore senza nome, un orrore che mi parve persino peggiore del mio. Gli adulti erano le regole, la menzogna, noi la verità.
Così da altri come noi riuscimmo a sapere che la ragazza, era la sorella grande di una bambina che vedevamo ai Tre Pini di tanto in tanto, a sapere che uno dei vecchi che si recavano agli orti abusivi l'aveva vista penzolare da un albero: morta impiccata.
Una drogata, un cane randagio dei pastori, una matta, una ribelle. Nei giorni seguenti, la ragazza morta divenne tutto ciò di bocca in bocca, come se ognuno potesse scegliere come disprezzarla invece di portarle un fiore, come se bastasse dichiararla diversa da loro per sentirsi meglio. Mia madre stessa, disse solo che quella era la fine che facevano i ragazzi che non danno retta ai genitori. Altri dissero che sarebbe andata all'inferno senza tanti complimenti. 

Quella notte il buio fu più difficile da accogliere. provai a trattenere il respiro fino a che potevo per cercare di capire cosa avesse provato soffocando ma la mia bocca si spalancò come i polmoni, e maledicendo quel modo i adulti insieme all'aria qualcos'altro salì dal mio profondo. Il giorno seguente guardai i miei amici negli occhi come non avevo mai fatto prima. Non dissi niente, ma fissai le iridi azzurre di Alessandro, quelle dorate di Giuseppe e quelle nere di Alex, e ci vidi la mia stessa decisione. Andammo esattamente sotto l'albero maledetto, raccogliemmo qualche fiore spontaneo e Io tirai fuori un nastro che avevo preso dal cassetto delle carte regalo in dispensa. Alla bene e meglio, formai un mazzetto acconcio e lo deposi li sotto, sulla terra ancora smossa dagli inutili soccorsi. Dovremmo dire una preghiera? chiese Alex che andava a catechismo. No facciamo un patto, proposi io. Che genere di patto? chiese Alessandro.
Promettiamo di non diventare come loro,  falsi come i nostri, dissi io. Promettiamo che se qualcuno di noi avesse un segreto che gli fa male  potrà tenerlo per se fino a che può, ma se proprio non ce la fa più, allora  venga qui a scriverlo col suo nome e sotterrarlo, tanto per un bel pò qui non ci verrà più nessuno a curiosare. Ogni mese futuro, verremo qui e se ci saranno i foglietti ognuno deciderà se dirlo o no, se ancora valido o meno. Se non ce li troviamo allora uno di noi avrà tradito la banda.  Comincio io e ci lascio il mio fino al mese prossimo. Finimmo abbracciandoci e dai loro abbracci fui sollevato più che da ogni parola. non mi chiesero quale fosse il mio segreto ed ebbi la netta sensazione che non ce ne fosse bisogno.
Al funerale ci andarono tutti, ma ogni volta che la signora prendeva l'autobus tutti la evitavano, dicevano per rispetto del suo dolore. Mi chiesi se anche quella ragazza era stata lasciata talmente in pace da andarsela a cercare per sempre.
C'era fuori dalla chiesa, uno di quegli odiosi marmocchi del 50 A, uno che senza un perché ce l'aveva con me. 
" Frocio" mi disse sibilando mentre mi passava a fianco. Ora avevo avuto la mia risposta, e anche se lo sapevo cos'era un "frocio" non mi piaceva quella parola su di me. Rimasi immobile sperando che nessuno lo avesse sentito o impaurito di voltarmi e vederli allontanarsi da me, , ma i miei amici mi avevano già superato e Giuseppe cominciò a spingerlo dicendogli: a chi hai detto frocio? A lui, disse indicandomi e aggiunse: e a te che cazzo te ne frega? 
Sorrideva sempre Giuseppe, ma non quel giorno, quel giorno c'era poco da ridere e non solo perché nella bara che aspettavamo c'era una ragazza, ma anche perché era il giorno dopo il nostro patto. Lo gonfiarono di botte  sebbene io cercai di calmarli. "Ora finirete nei casini appena torna a casa quello lì". Nessuno deve dirti quella cosa, fu la risposta e basta.
Non avevo l'età per spiegare a loro e a me  la non violenza, o la differenza  tra alzar le mani e rispondere ma fui solo felice. Mi augurai che ci fosse una altra parola per definire ciò che ero, che non fosse quella, mentre tornavamo a casa, ma più tardi, sotto quell'albero, solo e accovacciato a riflettere, mi parve di vederla sorridere, quella ragazza. con un foglio tra le mani.


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