domenica 30 agosto 2015

La banda del 52 cap7: cuori di nespola


In Liguria non è raro che durante lo stesso giorno il tempo atmosferico cambi drasticamente. Per questo, quando saremo stati più grandi e liberi di andare al mare, ci avreste visto partire una mattina con lo zaino da spiaggia pure se avesse piovuto. Il sole avrebbe fatto la sua comparsa in poche ore.
Succedeva così, che magari nel bel mezzo di una guerra a "cannette"(spirali di carta strette e incollate con la saliva, che sparavamo con dei tubi), ci dovessimo rifugiare alla svelta nel portone o in un box, perché da dietro la grande pineta, le nuvole erano così scure che non le   distinguevi dai cespugli di rovi! 
Io e i ragazzi ci dicevamo spesso che sarebbe stato bello fare una casetta in pineta, un rifugio solo nostro. Non doveva essere difficile con qualche asse e un telo come quello con cui si coprono i teneri lamponi dalla pioggia: lo avevamo visto dal balcone di Giuseppe che dava sugli orti abusivi a grandi terrazze. L'unico che andava in pineta era Alessandro perché mio padre e il padre di Giuse non avevano l'orto. 
Eppure mio padre lo voleva, ne parlava, perché allora visto che nessuno aveva chiesto il permesso non si prendeva anche lui un pezzo di pineta? La mamma diceva che papà era onesto. Un giorno sarei stato onesto anche io? 
Comunque, un pomeriggio Alessandro prese di nascosto la chiave che chiudeva il cancello dell'orto di suo padre, e dicendo che andavamo a dar da mangiare ai gatti della barriera salimmo in pineta. 
Come per l'intercapedine, la consapevolezza di una trasgressione accese i miei sensi. Dopo la pioggia gli aghi di pino si ammorbidivano, e la terra fradicia profumava. Salendo potevamo scorgere il piazzale del 52 e le finestre di mia mamma, ma loro oltre a non immaginarci li non ci avrebbero visto nemmeno volendo, dati i rovi incolti carichi di more succose. Alessandro era una lepre in pineta come Giuseppe sarebbe stato un delfino al mare, ma io santo cielo non ero proprio portato alla ginnastica - perché corriamo?- chiesi intanto che le gambe si graffiavano tra arbusti e spine, - perché non abbiamo molto tempo, prima che mio padre torni e la chiave deve tornare al suo posto - mi zittì Alessandro.
Era essenziale non sporcarsi di fango i vestiti, se volevo che mia madre non facesse domande, ma quella maledetta radice scombinò i miei piani. Mi trovai con la faccia per terra, proprio vicino ad una pozza dove Alessandro diceva che i rospi andassero a bere. Non l'avevo mai visto un rospo, ma se era marrone come dicevano ci dovevo somigliare un bel po..
Una grossa macchia di fango  sulla maglietta e mezzo pantalone non erano proprio facili da giustificare. La banda si sedette e ragionò: beh puoi dirgli che uno del 50 te l'ha tirato addosso perché odia i gatti, propose Alessandro, che di scuse aveva una laurea. Intanto, il panico si prendeva quel poco respiro che mi rimaneva e la mente mi presentava delle immagini tremende a base di urla e affini! Non ci torno a casa. 
Poi Giuseppe fece una domanda: Ale ma c'è l'acqua nell'orto? Certo! Rispose lui. 
L'idea era quella di lavarmi i vestiti e farli asciugare al sole. Ma secondo voi, quanto ci mettiamo?  Facciamo presto dai. 
L'orto di Ale era tra le terrazze più alte e c'era una specie di casetta dove suo padre ci mangiava pure.Controllammo che quello dell'orto di sotto non ci fosse e quatti come ratti entrammo. Il rumore della serratura ci diede una soddisfazione enorme!
Il pavimento era di cemento e le pareti di legno e lamiera. Al centro un tavolaccio delle sedie mezze rotte, un fornello a gas e la lampadina sul soffitto. Ci sedemmo li tra l'odore acre di urina di gatto randagio e un po di muffa: cavalieri di una tavola quadrata!
La canna dell'acqua legata col filo di ferro scolava in un lavandino di fortuna, dove bagnammo i miei abiti sporchi tutti contenti! In mutande e canottiera, non ero proprio a mio agio e mentre loro andarono a prendere qualche fico maturo e delle more, io li aspettai in casetta!
Guardavo con disagio la mia gambetta secca, quella operata da piccolo, quella che mi faceva sempre cadere e che mi impediva di giocare a pallone, e sospirando mi dissi che era proprio brutta!  I mei amici tornarono con un bottino delizioso, che forse senza nemmeno lavare, mangiammo scoprendo che ero l'unico a cui piaceva la pelle dei fichi! Ci fu anche chiaro che una capanna come quella potevamo sognarcela e si decise che la banda avrebbe fatto base in quella così com'era. 
Li avremo deciso le nostre avventure o le rappresaglie da fare a quelli del 50 che ci erano rivali. Il tempo passa in fretta a quella età e non ci sembrava di aver bisogno di nient'altro che ritrovarci ma il sole non entrava più dalla finestra e mi ricordai del bucato!
Se era asciutto? Si, lo era, ma nessuno di noi poteva immaginare ciò che vedemmo!
Le macchie di fango, bagnate con l'acqua si erano allargate come se nel fango, mi ci fossi immerso e i bordi erano diventati biancastri: molto peggio di prima.
Dovetti comunque vestirmi e dall'angoscia, vomitai i fichi e le more nell'orto di quello di sotto.
Alessandro e Giuseppe mi guardarono con lo sguardo di chi vede un compagno avviarsi al plotone di esecuzione, e provarono debolmente a incoraggiarmi con un: magari non se ne accorge? 
Chiudemmo la casetta e ci avviammo scendendo per il sentiero. Avevo anche io il mio " miglio verde" da compiere. Mi venne da piangere, da ridere e poi da piangere di nuovo. Perché la felicità che provavo con loro doveva costarmi tanto? Ero più fradicio della Pineta da cui scendevo.
Fu alla fine del sentiero che accadde il miracolo! "Guarda che schifo" esclamò Giuseppe fissando la bratta che c'era sotto il nespolo mentre Alessandro coglieva le ossa dei frutti marci caduti per terra. Li rigirò un po tra le mani poi sembrò avere una illuminazione. I noccioli di nespola sono quattro per frutto ( devono aver paura di estinguersi, le nespole) ed erano perfetti per la canna delle nostre cerbottane. Soffiò con tutta l'aria che aveva e il "proiettile" fece sobbalzare Giuse con un violento Ahia!!!!  
"Ma vi sembra il momento?" sbottai trovando impensabile che potessero divertirsi al mio funerale. " ma non capisci?" disse Ale 
Raccogliemmo quanti più noccioli potemmo, riempiendoci le tasche anche di polpa marcia e pelli e belli fieri andammo verso il 50 con le cerbottane dietro la schiena. I ragazzini del 50 non so che avevano ma erano tutti perfettini e ben vestiti e i loro giochi erano costosi come le biciclette con le quali giravano in tondo per non sporcarle. Fu un attimo. 
Ci dissero che non eravamo i benvenuti, men che meno io con le mie macchie,  e al segnale scatenammo l'inferno!  
Imbrattammo quei figurini, come maiali in un porcile e alle urla dei genitori scappammo su al nostro piazzale, ma lo facemmo come se fossimo stati inseguiti! Conciati com'eravamo chiamammo i genitori a nostra volta. Non potete immaginare come gli adulti furono impegnati a litigare con gli altri sui figli da difendere! " Sono stati loro" ci urlavamo spingendoci noi ragazzi tra gli adulti.
Ci misero così tanto a cavarsi d'impiccio che una volta finito per "decenza" di dirsene quattro, non ebbero più la forza di stabilire un colpevole.
Le mie macchie trovarono una spiegazione onorevole, i panni finirono in lavatrice e il mio corpo sotto la doccia. Mentre l'acqua calda scorreva lavando via tutto, il cuore, batteva all'impazzata di gratitudine per i miei amici che mi avevano salvato la vita. Chiudendo il rubinetto, mi parve di sentire l'eco dei loro battiti. 


venerdì 28 agosto 2015

La banda del 52 cap6: mugugni



La mappa del nostro territorio non poteva dirsi vasta, almeno quella parte che eravamo liberi di girare senza permessi. Per noi al momento andava dal piazzale alla grande barra che fingeva di dare al 52 l'aria di un condominio privato.
Un ragazzo, poteva dirsi grande quando si fosse potuto spingere ben oltre, come facevano quelli coi motorini o coetanei meno soggetti di noi al controllo familiare e dei vicini. Un po figli di tutti com'eravamo, il controllo avveniva anche per la tendenza a spiarsi. In realtà, ciò che gli adulti controllavano erano i cambiamenti nella vita di altri adulti: macchine nuove che determinavano sospette promozioni avvenute, i collier d'oro al collo di neo vedove che non ti avevano invitato al funerale dei mariti e via così. In tutto ciò non era perciò difficile che in assenza di news i nostri spostamenti costituissero una equivalenza d'interesse. 
I margini estremi della mappa del mondo per noi, si spingevano poco oltre il capolinea del 50, l'autobus sgarruppato che da piazza Garassini saliva fino da noi. Non è che il resto della via non sapessimo com'era, ovviamente, solo non lo avevamo ancora conquistato in piena autonomia. Essendo quella via una zona popolare e periferica, era popolata di curiosi personaggi. Aspettando il 50, che quando arrivava pareva in procinto di fondere il motore, potevi capire la reputazione di tutti. Le signore perbene, stavano rigide in piedi come davanti al plotone di esecuzione, cercando di non sporcarsi con i rivoli d'acqua per terra, le scarpe nuove e costose,  mentre altre decisamente non sembravano occuparsene. Queste, si sedevano sguaiatamente sul muretto con le gambe aperte, fumavano nell'attesa o dicevano parolacce. Mia madre, lei non era né l'una né l'altra, semplicemente appariva a disagio ovunque, come se il mondo intero le facesse schifo. 
I tre palazzi che davano sul capolinea erano curiosamente disposti in una fila obliqua e sfalsata alla fine della quale si sapeva ci fosse una misteriosa  scorciatoia, e chissà per quale umorismo urbano li chiamavamo "i tre pini". 
Scendendo col 50 si incontravano i negozi della via che prendevano il nome dal loro proprietario, per esempio, non si andava in cartoleria ma "dalla Marisa", non dal panettiere ma "dalla Francesca"( questo fa eccezione poiché lo diceva mio padre ma Francesca era la avvenente commessa, mica la padrona), non all'alimentari ma dal Claudio, non dal tabaccaio ma dal Giuvan. Se il negozio faceva schifo, allora gli veniva affibbiato un nomignolo, come per la latteria, che era solo la "zozzona" senza nome, dove compravi il latte perché sigillato ma mai le brioches con le mosche sopra. 
Alcune signore di quelle sguaiate erano autentiche celebrità a causa della mole di imbarazzo  che erano in grado di suscitare. "Smettila di fissarla" mi redarguiva la mamma " non guardarla che tra l'altro è maleducazione, girati!" Ma la "Tabaccaia" come la chiamavano non si poteva ignorare: portava i capelli cotonati biondo platino, e vestiti attillati su un corpo decisamente sformato la cui pancia sembrava un marsupio vuoto, si diceva che le prostitute facessero quella fine e io sapendo che le prostitute facevano le porcherie a pagamento, non capivo che gusto ci fosse a pagarle perché mangiassero come maiali. 
Comunque, lei se ne sbatteva di quello che si diceva di lei e quando saliva sul 50, la nostra "bocca di rosa" rionale intimava all'autista: autista? Cu vagghe cianin che me scappa u pisciu ( autista vada piano che me la faccio addosso).
Che brutta vita le prostitute genovesi, dopo aver mangiato a pagamento per anni, finivano incontinenti a vendere le sigarette nei carruggi!
Una volta giunti in piazzale Garassini, a piedi si raggiungeva piazzale Parenzo, dove facevano il mercato, e dove c'era la parrucchiera di mia madre!
Questa, di nome faceva LaParrucchiera, o almeno mia madre credeva così perché mi diceva: chiama Laparrucchiera, chiedi alLaParrucchiera e saluta LaParrucchiera. Ciao, LaParrucchiera. 
Non ho mai capito perché dovessi andarci anche io con lei, ma grazie al cielo mia madre ci andava una volta ogni tre mesi a fare la permanente. Puzzava tutto nel negozio della LaParrucchiera. Puzzavano i lavandini colmi di peli, puzzavano di vecchio i giornali, e puzzava anche lei, solo che lei sapeva di aceto. "Mamma perché LaParrucchiera puzza di aceto e tu di acido"? - e lei, " se non la smetti ti do una sberla". 
Di origini meridionali, la parrucchiera di mia madre aveva un orrendo segreto: non le piaceva fare i capelli! Come feci a saperlo? 
Una volta mentre mia mamma era sotto il casco, spostai la tenda di plastica a strisce verdi che copriva il retro e le vidi!!! Li tutte infila c'erano le melanzane e i vasetti di vetro, o meglio, le "melenzane", come le chiamava lei. Se i ragazzi della banda avessero saputo che andavo dalla parrucchiera con mia madre, mi avrebbero espulso, per cui non denunciai il fatto e divenni complice. 
La bella mamma di Alessandro i suoi lunghi capelli castano ramato, non li avrebbe mai portati in quel posto, ma per la testa di merda che si faceva mia madre ce n'era d'avanzo! Una volta finita, persino mia nonna, sua madre Verdina, era più giovanile. Per due giorni, non si poteva stargli vicino dall'odore acre. Per quanto loffia mia madre si stufo' di LaParrucchiera e prese a farseli fare in casa da mia zia Giacomina, tali e quali però. Mah!
A me del resto non toccava sorte migliore. Io ero destinato al Tonino, il barbiere zoppo con l'unghia del mignolo più lunga del righello di scuola. E ci dovevo andare ogni volta che i capelli si erano ripresi dal suo intervento! 
Nei pressi di li c'era la mia scuola media, e per quel che ne sapevo la mappa del mondo era finita. Almeno per ora.
La variante più eccitante di quella geografia,  fu solo l'inserimento del nuovo percorso del 50 barrato che invece che tutto il giro ne faceva solo metà. La Tabaccaia non ne fu affatto felice, ma del resto eravamo a Genova, dove "il mugugno e' libero", e i cambiamenti se avvengono sono sempre all'insegna del un po in meno che in più. Meno strada, meno negozi, meno casino, meno fantasia. Un luogo magico che resta immobile e tagliato in due da un fiume chiamato Bisagno che anche nel nome trascina con se quella malinconia rassegnata di chi non si aspetta un granché dalla sorgente alla Foce. 




Inviato da iPad

mercoledì 26 agosto 2015

La banda del 52 CAP 5: Bau Bau micio micio


Santo cielo, che commedie  i castighi. L'unico vantaggio di prenderne a iosa sta nel fatto che si apprendono certe verità fondamentali: 
il fattore temporale è di rado mantenuto ed è invece sempre eccessivo rispetto alla voglia dei tuoi genitori di subirlo con te. Se dicono che starai a casa un mese, lo fanno per impressionarti, non supereranno i sette giorni escluse le domeniche che non hanno nessuna intenzione di passare in casa.
la perdita dei tuoi cosiddetti "privilegi"  è uno spauracchio che serve a loro per credere che il tuo slancio, sia sotto il loro controllo. Nessun privilegio, quello che ottieni di fare permette a loro più libertà, tu, l'avrai comunque e sicuramente l'hai già avuto in ritardo
La ramanzina sulla responsabilità che sentirai quando hanno deciso che il castigo è finito è una palla pazzesca.
il perdono che si aspettano e che tu sai di non chiedere onestamente non ti impedirà la comunione, ne il paradiso, come del resto fingere di dartelo ( dopo 40 anni sapranno ancora elencare come gli hai rovinato l'esistenza) non lo impedirà a loro. moriremo tutti e non si sa  in che ordine. 
a proposito di morte, non si muore di castigo.

La mia, la passai lavandomi i capelli con lo shampoo tutti i giorni, dal momento che,  mentre al super la mamma me ne negava l'acquisto, fece l'errore di annusarlo e allora disse: lo prendo per me e il papà capito? Certo.
Si diceva in casa che fossi distratto, lo si diceva anche al postino, per cui, "distrattamente", s'intende lo usai tutto.
Dalla finestra della mia stanza, osservavo la enorme pineta: i cespugli di rovi o di ginestra, alberi, orti,  e più su, fino ad arrendermi all'incapacità del mio sguardo di coglierne i sentieri, perché c'erano, lo aveva detto Alessandro che ci era stato con suo padre. La osservavo con nel naso odore di mela verde e fantasticavo.
I grandi, i ragazzi coi brufoli le fidanzate e il motorino ci andavano di sera, ma a noi ancora non era consentito. Ci andavano con le femmine, ma anche tra di loro.
Finiti i castighi ci ritrovammo nell'indecisione. A cosa giochiamo? Meglio non far casino, ma tutti i nostri giochi preferiti ne facevano. Subbuteo? Non ho voglia di andare su a prenderlo...cose nomi città? Che palle.
Affacciati alla ringhiera del piazzale, ci fu chiaro che, dovevamo trovar qualcosa da fare fuori dalla portata delle finestre dei nostri.
Il piazzale del 52 era per metà parcheggio e per metà piazzale e sporgeva talmente tanto che sotto questi avevano fatto una grande aiuola piena di piante erba e  merde di cane. Trovato il posto, uno alla volta, a passo lieve, dagli scalini del portone scendemmo la "scaletta" che colmava il divario di altezza tra il piazzale e l'aiuola.
Li di solito, oltre a cagarci i cani di tre condominii, poteva capitare che una gatta partorisse. Di fatto, anche quello era un terreno di guerra tra gattare  e cinofili. A sorvegliare la situazione c'era un'altra figura fondamentale della mia pre-adolescenza: la signora Penza. Tutti pettegolavano su di lei e la sua famiglia dicendo che lei avesse la barba, o che mangiassero i bambini, o che la sera si trasformassero in mostri assetati di sangue, che fosse stata un uomo, ma la verità era che, la signora aveva la voce di un baritono e un petto impressionante ai lati del quale, due grossi ciuffi di pelo facevano capolino dalle ascelle, ed effettivamente, sotto il rossetto rosso sempre impeccabile, il mento appariva un po peloso a giorni alterni. Ma a farle guadagnare la sua fama di Cerbero era il fatto che nessuno poteva dirle di non dar da mangiare ai gatti randagi, come di urlare da fare paura a chiunque vedesse maltrattarli o togliere loro le vaschette che lei quotidianamente riempiva di acqua e cibo. "Minnin, minnin"  faceva per chiamarli, aggiungendo " vieni che ti do il cibo". Nel farlo la sua voce assumeva un forzato tono femminile, che noi ragazzi, nascosti sul piazzale del 52 spesso ripetevamo senza farci vedere e al quale lei rispondeva dandoci dei "bagasci" ( la parola bagascia in genovese significa prostituta ma nel gergo paesano è anche un modo affettuoso per dire mascalzone).
Una volta giunti nell'aiuola i ragazzi proposero di riuscire a passare davanti al suo balcone tirare un sassolino piccolo per farla uscire e riuscire a raggiungere il piazzale attiguo senza farci beccare. Tanto i grandi,  se anche l'avessero sentita, non potevano sapere a chi stesse urlando.
Alessandro partì per primo. Tac sul vetro. Urlo,  ma lui era gia al 50. 
Giuseppe partì non appena lei rientrò, ma fece cilecca col sasso, mentre Alex lo tirò talmente forte che si sentì urlare una voce ancora più terribile! La Signora Aveva un marito, e che marito! Grande come un portone blindato, uscì a torso nudo tirando ogni tipo di improperio possibile, dal momento che, il vetro della porta finestra si era frantumato facendo scaravoltare la sua gatta nera, ( altro fattore che generava dicerie) quasi giù dal balcone dove si sarebbe potuta infilzare nelle punte del cancello sottostante.
Io, impietrito dietro l'oleandro e tra le merde di cane, persi ogni speranza di rivedere i miei amici, perché, non c'era per loro altro modo di tornare indietro se non passandogli davanti e lui si era piazzato li come sicuro che avrebbero dovuto farlo prima o poi.
Già ma prima o poi? Quanto tempo è prima o poi?
Dovevo fare qualcosa, ma cosa? Nemmeno io potevo uscire allo scoperto, e nel rintanarmi lì, notai uno strano movimento alla radice dell'arbusto: un gattino, ancora con gli occhi chiusi, doveva aver avvertito la mia presenza e scambiandomi per sua mamma, cominciò a miagolare, arrancando verso di me! La Signora non poteva sentirlo, date le urla tonanti di suo marito, così feci un azzardo.
Con il "neonatto" in mano, (come chiamare un gatto neonato?), come presi a chiamarli in seguito, mi feci avanti dicendo solo : signore mi può aiutare? Fu come assistere alla frana di una diga con in mano un ombrello tascabile, tuttavia quel gigante alla vista del micetto si girò' e con gli occhi acquosi chiamo' la moglie che pianto' li vetri e tutto e con parole dolcissime mi disse di raggiungerla al portone. Il balcone rimase deserto e i ragazzi poterono trovare la via di fuga tanto agognata. 
Mi spiego' col garbo di una madre il rischio di rimuovere un cucciolo da dove la madre lo avesse lasciato, che avrebbe potuto rifiutarlo è quel rifiuto essergli fatale. Lo disse accarezzandomi e sentii il forte profumo che emanava. 
La banda del 52 smise di prenderla in giro, anche perché Alessandro era comunque anche lui appassionato di animali, come avrebbe dimostrato in seguito. 
Ogni giorno che potevo, cominciai a scendere dalla signora portandole il prosciutto dei miei panini e mangiando solo il pane e lei, da quel giorno, prese a chiamarmi  Gioia. Io e alessandro cominciammo a prenderci cura di gattini e smettemmo di abbaiare. 
C'erano altre persone un po' "diverse" intorno a me, persone che, non potevano mostrare a tutti il loro "profumo" ma che non per questo non ne avevano uno ottimo, checche' ne dicessero di loro. Un dopobarba può anche  nascondere un profumo di rosa. 


Inviato da iPad

lunedì 24 agosto 2015

Convalido l'iscrizione di questo blog al servizio Paperblog sotto lo pseudonimo stan ».

domenica 23 agosto 2015

La banda del 52 cap4: l'intercapedine.



Era dunque deciso, ci saremo entrati in un modo o in un altro. Diverse volte ci eravamo assiepati curiosi alle porte in griglia di ferro per sbirciare i segreti di quel buio cunicolo ma non era facile agire indisturbati, una macchina che saliva la curva, una vicina affacciata al balcone, uno dei ragazzi grandi impegnato ad aggiustarsi il motorino proprio li davanti, erano sufficienti a farci sgamare. Cominciammo dunque, verso la sera d'estate a fregare ciascuno dalle proprie case una torcia a pile, in quelle ore dove le giornate che ormai si accorciano, impigriscono i grandi e non consentono a nessuno di fare lavori con la luce del sole. Fingevamo un pomeriggio che ci andasse di giocare a carte seduti e tranquilli: niente pallonate nei box di lamiera giocando a rigori, urla e strepiti. 
Il bisogno dei nostri adulti di quiete li rendeva inclini a credere che stavamo crescendo, che oramai i nostri giochi diventassero meno "preoccupanti" e non c'è niente di più ingannevole dei propri desideri. Niente, che non avrebbe spinto anche noi a sottovalutare i rischi di quella esplorazione. 
Al momento giusto, puntammo  i fasci di luce verso il cunicolo in alto e in largo per valutarne la misura. Capimmo subito che c'erano due zone dell'intercapedine: una passava sotto le griglie  del terrapieno sotto le finestre  di casa mia, quello dove spesso mi erano volati piccoli oggetti dal davanzale, ma anche chiavi e portafogli a quelli che mettevano i motorini li sopra come parcheggio. L'altra avanzava stretta verso la schiena del 52, si poteva infatti intravederne alla fine una svolta netta verso il niente.
Ragionammo che probabilmente dietro l'atrio del portone dove d'inverno giocavamo a Subbuteo, ci fosse il proseguimento di quell'angolo dato che l'altra porticina era proprio sotto il giardino pensile di Alex. Ma sarà dritto? E se invece fosse cieco? Se le porte fossero due perché non comunicanti, dove arriverebbero.

Grossi tubi ricoperti di sporcizia tale da sembrare brandelli di stoffa, correvano sul soffitto del cunicolo: forse acqua o cosa?
Il pavimento era bagnaticcio di un rivolo puzzolente, che la luce delle torce rifletteva come una fradicia stella filante. 
Avevamo più domande che risposte, più enigmi che soluzioni. Fossimo stati adulti sarebbe bastato a desistere dall'impresa ma noi, eravamo ragazzi e il mistero dell'intercapedine si rendeva sempre più affascinante ai nostri occhi.
In quanto allo sporco, i vestiti e le scarpe che usavamo in piazzetta erano già i peggiori possibili perché le nostre mamme avevano rinunciato all'idea di mescolarli con i loro in lavatrice., e poi puzzavamo sempre di qualcosa, per cui, ammesso che ne fossimo usciti non avrebbero distinto la provenienza dell'olezzo fognario. Bene. 
Alex, Giuseppe, Alessandro, Marcolino e io ci guardavamo a vicenda perché di certo qualcuno se la stava già facendo sotto, nessuno però, osava dirlo perciò Alex arrossì, Giuseppe rise troppo, Alessandro strinse i suoi occhietti azzurri in una fessura, io abbassai il capo e naturalmente Marcolino, ebbe la sua  crisi di nervi.
Scemo, vuoi farci beccare? Gli ingiungemmo tutti. Se sei un fifone ( poverino l'unico ad ammetterlo) tu non vieni ma se fai una parola del piano coi grandi vedi! Marcolino non ci serviva a un cazzo ma non potevamo farlo fuori del tutto, perché da buon permaloso pavido era anche vendicativo, perciò gli offrimmo la parte del palo e questo sembrò bastare a calmarlo. Forse in effetti poteva essere l'unico dotato di sale in zucca ma a noi non ce ne fregava.
Si ma cosa facciamo, andiamo tutti insieme?
No, sennò facciamo casino e ci scoprono e poi è troppo facile, andremo uno alla volta, massimo due, dipende da quanto è lungo - sentenziò Perseo.
Da buon condottiero si offrì di essere il primo in modo da capire il percorso. La nostra stima del suo coraggio fu totale. E se ci sono i topi? E vabbè gli do un calcio come faccio nell'orto di mio padre!
Pensai a me che davo un calcio ad un ratto e mi scappò un goccio di piscia nelle mutande. Fa niente, ce l'avevo su da tre giorni, perché quando la mamma mi intimava di lavarmi, io in bagno, aprivo l'acqua e leggevo il Topolino.
Si ma intanto devi aprire le due porte sennò non entri e non esci, disse Giuseppe. 
Ragazzi forse non lo avete capito, fece Perseo, le porte anche se hanno la serratura non sono chiuse perché nessuno ci va li dentro, sono solo talmente arrugginite da non aprirsi facilmente! Stupore della banda, Alessandro non era solo coraggioso, era un genio!
Si fa cosi, una di queste sere Giuseppe, che tira delle bordate pazzesche, colpirà col pallone di cuoio la porta fino a quando tua mamma o la mamma di Alex si affacciano e ci urlano, e si va avanti così finche non le apriamo! 
Tutti per uno, tutti nell'intercapedine!
Da grande, mi sono chiesto che ruolo avesse la curiosità che avevamo con la nostra personalità e a parte le ovvie considerazioni sul concetto di "banda" e la necessità di mettersi alla prova in un contesto "iniziatico" e maschile, sono giunto alla conclusione che a noi non mancasse il concetto di conquista che oggi manca  nei ragazzini annoiati che conosco. Nessuno di questi oggi sopporterebbe le mazzate che abbiamo preso noi per poter dire "l'ho fatto", ne i genitori oggi, sono maneschi come lo erano i nostri. Inoltre, l'ambiente e le sue regole, erano lì per essere messi alla prova, e non solo per bellezza e credo che oggi se solo certe avventure non fossero comodamente riprodotte in tv, i ragazzini non sarebbero poi tanto diversi comunque.
Il piano delle pallonate "casuali" funzionò ma richiese diversi giorni. Quando una delle porte cedette aprendosi un po la mamma di Alex sentenziò: ma siete proprio scemi perché noi anziché spaventarci della sua sgridata non smettevamo di abbracciarci.
Si decise che la sera dopo Alessandro avrebbe fatto la sua prima incursione e ci mettemmo d'accordo tutti di fare i compiti subito dopo pranzo e a scaglioni di mezz'ora scendere giù come casualmente. 
Ci trovammo tutti li ma niente mazzo di carte a copertura, optammo per un "nascondino" in modo che se qualche genitore ci avesse cercato si poteva fare finta che invece che nella merda dell'intercapedine il malcapitato fosse solo in un nascondiglio sicuro.
Una volta del resto, per nascondersi meglio qualcuno di noi rimase chiuso nel cassone della spazzatura che a Genova stava per strada.
Da veri "uomini" non facemmo molte smancerie quando Alessandro con la torcia saltò giu nel cunicolo, ma la somma dei nostri battiti cardiaci avrebbe potuto fondere un sismografo!
Niente cellulari a quel tempo e se anche ci fossero stati non li avremo avuti alla nostra età, per cui, seguimmo Ale fino a dove la sua torcia ce lo rendeva visibile. Uno, dieci venti...contava chi faceva finta e noi nel frattempo come d'accordo ci distribuimmo nei punti convenuti.
Giuseppe nel portone perché la fioriera di merda sotto lo specchio aveva un buco che credevamo comunicasse col cunicolo. Alex vicino all'entrata casomai Ale tornasse indietro. Io alla porta di uscita e Marcolino sul piazzale incaricato di fischiare ( i suoi polmoni avevano il coraggio che non aveva il suo cuore) casomai gli adulti uscissero a cercare uno di noi, e "contare"
Il tempo si dilatò in modo inaudito e ognuno di noi immaginava contro quali mostri Perseo si stesse battendo, ognuno a seconda delle sue paure: topi, uomo nero, zombie, fantasmi di bambini scemi come noi morti in una cretinata simile. Inutile dire che questi ultimi erano i miei.
Quando Giuseppe con la testa infilata nella fioriera, udi la voce di alessandro bisbigliare mollò una scoreggia dopodiché corse ad informare Alex che poteva abbandonare la sua postazione,  che Alessandro era a metà!
Tana! urlò Marcolino tanto per. 
Oramai eravamo tutti in qualche modo dalla porta di uscita ma non si sentiva ne vedeva niente. Non dovremo andargli incontro? Eravamo li per farlo, quando un alone luminoso si fece largo dall'oscurità, Ehi coglionazzi ci siete?
Alessandro fece di corsa gli ultimi metri proprio quando il fischio di Marcolino tuonò dal piazzale. Uno di noi si precipitò a sbirciare dall'angolo e cazzo il signor Ottobelli arrivava a grandi passi a prendere la sua 128 metallizzata, mentre io facevo a Marcolino segnacci tipo fai qualcosa. Ma mica poteva fargli sgambetto no?
Mi voltai come per dire ai ragazzi di non uscire e Alex e Giuseppe finsero di essere appoggiati alla porta, coprendo in realtà la figura accovacciata di Alessandro. Pericolo scampato. La macchina si allontano' facendo un inutile colpo di clacson.
Alessandro/Perseo era uscito dal Labirinto ma al posto della testa del Minotauro tirò fuori dalle tasche alcuni oggetti che testimoniavano le esplorazioni di qualcun altro, ovvio! In realtà i tecnici del gas ( che scoprimmo si occupavano dei grossi tubi di tanto in tanto) perdevano spicci dalle tasche.
Fu il nostro turno una volta che Ale ci spiegò che non c'erano biforcazioni possibili ma che era però un bel pò lungo e sconnesso. I topi ovviamente li avremo trovati morti a dozzine. Tutti uccisi da lui. 
Io non li vidi ma devo ammettere che dato che avevo una gamba più corta e tendevo a inciampare, feci il percorso con Giuseppe, meglio dire dietro a Giuseppe. Noi la torcia non ce l'avevamo e Alessandro non poteva rischiare che perdessimo la sua. Beh, per fortuna io avevo rubato un sacco di ..Fiammiferi!
Non ci venne in mente che, esplorare una intercapedine dove correvano tubi del gas con la luce di un fiammifero, non fosse una buona idea. 
Camminammo cercando di non scontrarci nel buio tra un fiammifero e l'altro, ma era impossibile, e ad ogni contatto con lui cresceva il mio imbarazzo, ma anche il bisogno di ricercarlo nuovamente. Le mie mani al buio lo cercavano per non urlare ma quando lo trovavo qualcos'altro urlava dal mio profondo; un misto di paura e coraggio in cui non ci stava proprio quella emozione sconosciuta! Vattene maledizione! 
 Si era accorto che mi cagavo addosso dalla paura, Giuseppe, ma invece di prendermi in giro mi confortava: tieniti a me mi diceva. Nel buio i sensi cambiano di priorità, sentivo il suo tepore,  l' odore dei suoi riccioli in quella fogna faceva sparire la puzza. Tenermi a te? 
Tienimi con te. Ma quelle parole non varcarono le mie labbra. E se poi mi avesse odiato? Meglio tacere e arrossire al buio tra i topi morti se ce n'erano.  
Avevamo tutti superato la nostra prova di coraggio, ed eravamo fieri di noi stessi, solo io maledicevo in silenzio quella idea. I fischi delle nostre madri dalle finestre arbitrarono la fine di quella avventura.
Il mattino seguente il colpo di clacson della 128 metallizzata ebbe la sua spiegazione. Il maledetto Signor Ottobelli aveva l'abitudine di Strombazzare sua moglie anche fuori da casa e lei in attesa di quel rito cretino era dal balcone proprio quando Ale ne usciva dall'intercapedine e noi lo acclamavamo. Lo disse agli altri adulti e nonostante noi negammo  fino allo sfinimento, due pesanti catenacci chiusero definitivamente il nostro antro terribile e meraviglioso.
La storia dei fiammiferi non venne fuori ma dopotutto qualcosa di ben più esplosivo di una deflagrazione condominiale era già avvenuto in me. senza se e senza ma. 
Per una settimana il 52 rimase in  silenzio  per la profanazione dei suoi misteri. Neanche la sua prima volta era stata un granché. 
Ognuno di noi chiuso in casa "a riflettere" . Io con una sola certezza: dovevo procurarmi lo shampoo alla mela verde che usava Giuseppe. Per non dimenticare. 

sabato 22 agosto 2015

La banda del 52 CAP 3: cose da maschi



C'erano volte che a guardarlo negli occhi rimanevo rapito dalla luce dorata delle sue iridi nocciola. Se Alex era un simpatico, Giuseppe, dovrei dirlo ridanciano! Non se la negava mai una risata, ed era  lunga e nei toni persino adulta!
Quando, scoprendo i denti bianchissimi in una fragorosa risata, chiudeva gli occhi, temevo che non sarebbe più riuscito ad aprirli a causa dell'abbraccio in cui si avvinghiavano avide di gioia,  le sue ciglia lunghe e folte.
I Martino erano quel tipo di famiglia siciliana che avevo già visto nei parenti di mio padre: appariscenti e riservati al tempo stesso, con una eccedente attenzione all'abito domenicale, all'uso delle cose d'oro e un pelino rumorosi nel volersi bene!
Suo padre in particolare era un uomo alto e fiero, bruno di pelo e capelli che come la moda dell'epoca suggeriva, portava vistose camicie molto aperte sul torace villoso.  Occhi profondi e modi eleganti camminava sul piazzale del 52, con ampi pantaloni di lino estivo spesso bianchi e una catena d'oro con cui avrei potuto assicurare al palo la bici nuova! Mi scoprii capace di riconoscere il rumore della sua auto e di sbirciare dai vetri la sua figura con grande turbamento.
La madre invece, era una di quelle donne siciliane che avevano preso dai Normanni la propria pelle candida quasi perlacea, come mia zia Giacomina che però si faceva chiamare Mina: poco incline a lunghe conversazioni e anche lei fumatrice aveva l'aria di trascinarsi come avvinta da una gran stanchezza, pur riflettendo la stessa eleganza di suo marito.
Se proprio ce l'aveva un difetto era quello di essere talmente magra da far sembrare storte le sue gambe snelle. Non me lo ricordo, come io e Giuseppe abbiamo fatto amicizia ma a quell'età non c'era bisogno di nient'altro che annusarsi come cuccioli per stabilire una intesa. 
Siccome si erano trasferiti al 52 da poco ed erano contenti che i loro figli facessero amicizie, mi invitarono ad un pranzo la domenica. 
Devono aver preso la Maria Luisa in contropiede per essere riusciti a cavarle un si, o forse fu solo sollevata che l'invito non fosse rivolto a lei.
L'appartamento dei genitori di Giuseppe, era arredato in perfetto stile 70: tra i divani del salotto dove io e Giuseppe avremo passato diversi inverni a parlare e ridere senza un perché, campeggiava l'immancabile lampada a steli di vetro che se accesa proiettava un aurora boreale psichedelica sulle tende a grandi motivi geometrici!
L'emozione di seder a tavola con loro me la ricordo ancora, vuoi perché fu il primo invito rivolto proprio a me, vuoi perché tutto sembrava magico e speciale, come i carciofi ripieni sul piatto di portata! 
Dio, i carciofi non li conoscevo in quella forma, anche se li avevo già mangiati e quando uno di questi fu nel mio piatto, fu come se un parente  si fosse infilato nel mio bagno mentre facevo la cacca. Non puoi alzarti e andartene e non puoi chiedergli cosa ci fa li perché bene o male non è sconosciuto ne puoi sperare che ti spieghi il senso della sua presenza.
Cominciai prendendo le posate, tenendole come mi si rimproverava di non fare a casa, e come un maestro d'orchestra senza spartito le roteai vicino al carciofo nella speranza che suonasse. Niente, andava mangiato, ma come?  
Ero in trappola, seduto a capotavola con di fronte un uomo che mi agitava più del carciofo, con il mio miglior amico al quale già dovevo nascondere ciò che nemmeno sapevo cos'era, e con un ortaggio che sembrava supplicarmi, imbottito com'era, di metter fine alla sua sofferenza!
Prendevano le foglie una ad una e le portavano alla bocca, così mi decisi ad imitarli ma dimenticai di non infilarle in bocca del tutto, cosi in men che non si dica ebbi la bocca piena di foglie e la coscienza di essere fottuto. 
Credo di aver sentito solo la risata di Giuseppe mentre decidevo se ingoiare e soffocarmi o sputare in faccia al mio vicino  tutto il mio imbarazzo!
Fu cosi che imparai a succhiare solo la parte tenera delle foglie del carciofo "alla siciliana". 
Quel fatto buffo per il quale ancora provo vergogna,  suggellò la mia amicizia con Giuseppe e sua sorella più piccola la quale molto tempo dopo mi avrebbe addirittura insegnato a nuotare!
Un giorno la loro famiglia portò a casa un cane, per la precisione un barboncino bianco di nome Emi, e da quel giorno, cercavo sempre di scendere giù quando lei faceva con Giuseppe la sua passeggiata. Beniamina immediata di noi ragazzi la Emi ricambiava il nostro entusiasmo vorticando tra le nostre gambe secche e sbucciate con una velocità strabiliante. 
Purtroppo i barboncini hanno il difetto di avere un abbaio squillante acuto e insistente, per cui nonostante tutto mia madre se ne lamentava, mentre io ero felice di sentirla chiamarmi dal balcone o di sentirla correre nel corridoio. Emi non fu esente dal gusto estetico dei suoi padroni e le vidi in quegli anni con diverse tosature creative. I vicini pensavano che anche il cane si desse delle arie. Com'era buffa coi ciuffi avvolti in carta ed elastici come bigodini! Non ha mai avuto odore di cane la Emi, lei, sapeva di colonia. 
Quando fece i cuccioli fu per me una emozione grandissima. Quella cagnetta che ogni volta che mi vedeva riusciva a ficcarmi la lingua in bocca nonostante le mie proteste, mi guardava sdraiata tra i suoi bambini come consapevole di essere stata brava e quando la mia mano si avvicinò, mi leccò per la prima volta con garbo come ad indicarmi il modo in cui avrei dovuto toccare i suoi cuccioli. Che meravigliosa lezione! 
Cominciai a supplicare i miei di poter avere un animale, dato che avevamo anche un inutile giardino, ma il guaito notturno dei cuccioli non predispose mia madre a quella esperienza, cosi decisi di imparare ad andare in bici e mi infilai il manubrio nello sterno.
Nonostante fossi un imbranato, presto imparai ad andarci e con Giuseppe a fare la discesa dal curvone alla sbarra senza freni. Una caratteristica dei ragazzini è quella di ignorare quanto siano potenzialmente mortali tutti loro giochi. Cosa diavolo ci trovavamo nel rischiare l'osso del collo? 
La gara si svolgeva così: si partiva in piano dal piazzale, dove pedalando prendevamo velocità, poi giù per la prima parte di discesa verso il mitico "curvone" che tagliavamo stretto stretto verso la parte di discesa più ripida. la regola era niente freni fino ad imboccare in contromano la stradina che portava al condominio sotto il 52. Inutile dire che non avevamo mai pensato di metter qualcuno a controllare che un auto non ci venisse incontro dall'unica strada che poteva fare per uscire. E altrettanto inutile dire che ci divertivamo come deficienti.
Affannati ed eccitati io e gli altri ci scambiavamo un unico batticuore e la flebile convinzione di essere eroici, ma l'eccitazione che gli ormoni ancora non dirigevano altrove rimaneva tra noi e noi soltanto: la banda del 52! Era fantastico per me, ragazzino dai molti limiti fisici far parte di qualcosa come quello e pur disastrandomi per terra ad ogni occasione, ero incrollabilmente deciso a farne di ogni con loro: rubare i tappi della benzina dai motorini dei bulli del quartiere, sfilare le lettere dalle caselle e metterle in quella di qualcun'altro o che ne so suonare ai citofoni degli altri palazzi e scappare. 
Una sera prima di cena, la banda si riunì e decise che bisognava alzare la posta. Guardandoci negli occhi annoiati ci chiedevamo che fare, e non so chi decise che era l'ora di esplorare l'intercapedine. Si trattava di un budello che attraversava dall'interno tutto il 52 per lunghezza. Le due porte alle estremità erano un po' sgangherate ma chiuse in qualche modo: avremo dovuto preparare un piano molto accurato per farcela. 
Cosa bofonchiate, chiesero la sorella di Giuseppe e quella di Marcolino.
Niente, cose da maschi. 

giovedì 20 agosto 2015

La banda del 52 CAP 2: salsa e arena


L'estate in cui Alex si ruppe il braccio fu una tra le più funeste per noi. La famiglia Tondanelli pur abitando nella scala B era una famiglia simpaticissima. Come noi abitavano al pianterreno e nel 52 i piani terreni in realtà erano rialzati dal piazzale e gli unici ad avere un giardino.( dove finivano in continuazione i nostri palloni e dove le astute signore presero a coltivare rose per bucarceli).
La mamma di Alex portava un caschetto nero liscio e aveva una profonda voce da fumatrice incallita cosa che me la rendeva ancor più simpatica e Suo figlio Alex aveva il suo viso ma una voce assai più alta. A casa loro erano tutti un po rotondetti compresi i due gatti siamesi che io adoravo. Sembravano un pelo burberi, specie suo padre ma in realtà erano bravissime persone e avevano generato un autentico mostro di simpatia. 
Alex era il più alto di noi sgorbietti, ma non era agilissimo perché la sua qualità più grande era l'intrattenimento, come quelle volte in cui veniva a chiamarmi per scendere ma ero in castigo e lui allora si produceva in un autentico one man show per mia mamma, la quale affacciata alla finestra finiva per cedere e lasciarmi andare. Quanti castighi mi ha salvato Alex!
Comunque con un gesso dalla vita in su e un braccio ad angolo retto immobilizzato  sopra la testa,  neanche lui riuscì a ridere troppo. Era accaduto alla partita piccoli contro grandi che l'instancabile provocatore Alessandro aveva imbastito con i ragazzi dell'età dei nostri fratelli maggiori. 
Non spenderò una parola per quella ciurma di deficienti ma diciamo solo che gli ormoni che ancora tardavano ad agire in noi, in loro, erano l'ottanta per cento della materia grigia, infatti, più che una partita si rivelò una carneficina. Provai a dirlo ad Alessandro ma ottenni solo la salvifica esclusione dalla squadra. Un successo visti gli eventi.
A metà del primo tempo organizzai un ospedale da campo tra cerotti e disinfettanti, perché i grandi erano fallosi come tori e a nulla valeva l'arbitraggio di non mi ricordo chi. Con la sorella di Giuseppe e quella di  Marcolino formavamo una vera equipe di crocerossine: certo io ero un pò dissonante ma avevo sangue freddo da vendere alla vista del sangue e mi sentivo come la dottoressa Ellen Carter di Spazio 1999! 
Giocare sull'asfalto del piazzale era veramente una cosa stupida ma noi eravamo così stupidi da farlo anche in calzoncini corti cosa che i grandi a causa dei peli si vergognavano a fare. Comunque, nel bel mezzo di un tentativo di scarto Alex fece un volo che sfidava le leggi della natura e quando cadde fu evidente a tutti che i nostri miseri cerotti non sarebbero bastati.
Il braccio di Alex si gonfiò diventando subito bluastro e lo udimmo piangere di un pianto inumano!
Dall'ultimo piano della scala B fece la sua apparizione una delle figure più autorevoli del 52: la signora Burlando. Lei era infermiera, una donna altissima e possente con un marito gigante e dei figli giganti ( per un periodo avrei provato a fare il filo a sua figlia Paola, la quale più virile di me, mi ignorò come logico) ed era quella che mi fece da bambino dodici dolorosissime punture di penicillina,  che sopportai intimidito dal suo imperio. La faccia della signora Burlando fu eloquente ma disse:pronto soccorso subito; è rotto. 
La mamma  di Alex si affacciò subito dalla finestra con gli occhi strabuzzati e la sigaretta e accorsero giù altri genitori, per curiosità e per aiutare. La mamma di Marcolino, ovviamente, ingiunse al figlio solo di tornare a casa e chiuse le finestre.
Chi era stato? Un paio di nomi e un paio di "io no" da parte dei Grandi, i quali, non brillavano di coscienza e oltre ad aggiudicarsi vilmente la partita non seppero che altro fare. Alex era volato da solo: questo il verdetto! I genitori lo portarono all'ospedale e i nostri ci gonfiarono come tamburi, tant'è che Alessandro trovò scampo fuggendo nella pineta. Il mio ruolo di ospedaliero quella volta mi valse solo una pallosa reprimenda sulla violenza. Nessuno sembrava accusare i ragazzi più grandi, vuoi perché c'erano i figli maggiori di tutti, vuoi perché in fondo era stato un atto virile che nessun padre si sentiva di punire del tutto, vuoi perché alla fine la legge del più forte sembrava essere quella che vigeva. 
"Sono ragazzate" diceva uno dei padri, "sei un imbranato" diceva l'altro. Le madri invece passarono l'estate a lamentarsi per ciò che gli toccava sopportare.
Quando tornò con quella imbracatura dall'ospedale e il ferale obbligo di tenerla quaranta giorni, Alex era mesto e rosso come un peperone, ma ci trovò tutti li gonfi di botte,  incerottati e  pronti a scrivergli qualcosa sul gesso col pennarello.
Imparare a stare in equilibrio con quel coso e in quella posizione fu un gravoso compito per lui ma io lo andavo a trovare e dopo un po gli fu permesso di scendere giù e sedersi con noi sui gradini del portone, dove trovammo ogni genere di modo per farlo sentire speciale e tornò a sorridere come sapeva fare meglio di tutti.
L'estate non era solo stagione di fratture scomposte ma anche di "composte". Per la divisione tra settentrionali e meridionali accadeva che, i garage del 52 cambiassero destinazione d'uso e che alla signora Lendini si staccasse puntualmente la tappezzeria. I settentrionali ci mettevano la tenda da campeggio per le vacanze, i meridionali un bel pentolone di ferro e quintali di pomodori perini che bollivano per quindici giorni di fila producendo un vapore che oggi si dipanerebbe solo in tribunale.
Ma nonostante li chiamassero "terroni" c'era verso quella famiglia una sorta di indulgenza (forse perché erano gli unici a farlo) nel lasciargli fare quel macello, anche perché era l'unica occasione in cui i coniugi in questione  si concedevano un minimo di vita sociale. Erano riservati i genitori di Marcolino e ci tenevano alla tradizione della salsa fatta in casa. Gia, perché se la tradizione la voleva fatta in casa loro la facevano nel loro garage sotto l'appartamento della signora Lendini? Semplice data la loro natura riservata non volevano con lei condividere il destino della sua tappezzeria! 
Tra cassette di pomodori impilate dentro e fuori e rumore di bottiglie lavate bollite nei canovacci e tappate per riposare nessuno poteva riposare meglio delle bottiglie.
Non mi ricordo se ci corrompessero con qualche bottiglia della meravigliosa salsa, ma credo fosse possibile perché saran stati anche terroni ma non erano mica scemi?!
A noi ragazzi però, questa cosa piaceva e pur se non erano di molte parole, ci era permesso curiosare un po nella filiera rossa.
Inutile dire che Marcolino in quel mese, non potendo esimersi da un impegno a tempo pieno, era più facile alla nevrosi che mai.
Mio papà pur essendo siciliano di origine in garage ci si rifugiava solo se non ne poteva più di sua moglie o di noi, e diceva che doveva cambiare delle pastiglie. Non mi spiegai per diverso tempo perché non andasse in farmacia, ma mi dissero che li non vendevano le pastiglie dei freni. Chissà quant'erano malati questi freni se dovevano prendere tanto spesso delle pastiglie, ma mio papà era un uomo buono e li curava assai.
Ogni tanto, ci andavo a vedere cosa facesse, ma i garage del 52 erano pericolosissimi perché la discesa, che consentiva alle auto di entrarci, era piastrellata e scivolosa, infatti, io cadevo spesso scoordinato com'ero e se non cadevo, una volta li dentro, non sapevo che fare. Quegli attrezzi sudici, la puzza di olio di motore e l'inquietante tenda da campeggio che sormontava lo scaffale in fondo, mi davano la nausea. Preferivo di più  gli avanzi la pasta dei ravioli di mamma, che a furia di smanazzarla si sbriciolava. Con la salsa di pomodoro la Maria Luisa ci faceva dei ravioli 10x10 i cui bordi spessi rimanevano sempre crudi. Suppongo che non ne avesse molto voglia e cosi poteva fare presto a fare i ravioli perché nel piatto di ognuno ce ne stavano due al massimo e li potevi masticare per qualche ora! Certo le casalinghe ne sanno una più del diavolo eh?!
Nel resto del tempo, lucidava i pavimenti così potevo cadere anche in casa senza andare in garage. In quei frangenti, venivo spedito in giardino. La Maria Luisa non brillava di intelligenza perché pur essendo impaurita da tutto, avendo me come figlio, mandarmi in giardino non era proprio sicuro. A forma di L il lato più corto e nascosto dava sul salice piangente che si sa, vuole ombra, e sula finestra smerigliata del bagno da dove sentivo ansimare mio fratello il pomeriggio.
"Mamma Pier luigi ( ma come diavolo si fa a chiamarsi Pier qualcun'altro?) ansima nel bagno. Schiaffo (quello non si sprecava mai a casa mia), poi mi spiegò qualcosa sull'asma ma io capii solo che facendo la cacca puoi smettere di respirare e non la feci per una settimana di fila.
Il lato più lungo invece, era metà piastrelle, le stesse del garage, e metà cemento. Da bambino piccolo mi ci ero già spaccato la testa, chissà se coi pattini a rotelle avrei saputo fare un salto?
Per fortuna sopra c'erano i Martino e dal balcone la voce argentina e forte di Giuseppe mi distrasse dai miei propositi. Vi ho già parlato di Giuseppe?


Inviato da iPad

martedì 18 agosto 2015

La banda del 52 CAP 1

Era il più alto tra i suoi simili comunque ne era l'ultimo possibile. Davvero non ci si spiegava come potesse stare in piedi e da solo poteva reggere una intera montagna. Di fatto se non l'avesse retta, nessuno di quelli sotto di lui ne avrebbe avuto la forza. Certe volte io stesso lo temevo quando già da lontano lo scorgevo salendo. 
Come tutti i colossi ci proteggeva e spaventava al tempo stesso. Noi ragazzi mettevamo a dura prova la sua resistenza a colpi di pallonate ma non ricordo che mai abbia ceduto di un centimetro, solo i rovi di more riuscivano a rimanergli aggrappati e ovviamente le lucertole.
Era cosi il 52 un grande gigante di cemento nel bel mezzo di una pineta incolta e fitta che da dietro le sue spalle e dalla finestra della mia stanza mi chiamava a "grandi avventure"!
Col suo muraglione si era ricavato uno spazio e pareva tenere a bada il monte come avevo visto fare ad un enorme fermalibro di pietra coi volumi di una biblioteca scolastica. Io e la mia famiglia, vivevamo nella scala A, l'ala sinistra del gigante, considerandone il portone sotto il livello stradale come la sua bocca. poi c'era la scala B. 
Il 52 era un palazzone abitato solo da ferrovieri e dalle loro famiglie, ed era l'ultimo civico di una via tortuosa e popolare che si inerpicava dal fiume che divide la città di Genova fino ai monti. Era la fine degli anni settanta e davanti a noi si apriva uno dei decenni più promettente e fashion  della storia italiana, ma al momento, io Alessandro Giuseppe Alex e Marco detto "marcolino", eravamo alle scuole medie e puzzavamo di sudore, ci sporcavamo i vestiti come maiali scivolando sulle macchie di grasso che le auto dei nostri genitori lasciavano sul piazzale e giravamo incerottati per le cadute dagli alberi di fico della pineta. Naturalmente le ragazze non erano nemmeno prese in considerazione o forse erano loro a non farlo, non ricordo.
Marcolino faceva eccezione (credo che si guadagnò per questo il diminutivo), perche lui e sua sorella Delia erano sorvegliati da quella iena della loro madre ad ogni passo. Talmente tanto che Marco era spesso preda di vere e proprie crisi isteriche quando lei lo richiamava dal balcone.
La piazzetta era la nostra arena e ignorare i regolamenti condominiali il nostro principale obbiettivo. 
Un condominio grande come quello generava diverse lotte di classe tra gli adulti, per esempio, quelli dei piani alti e quelli del pian terreno, i meridionali e i liguri doc, i sindacalizzati e non e poi quelli che erano dirigenti o meno. Gli adulti però ci tenevano che noi andassimo tutti d'accordo e ci considerassimo alla pari. Mah! Ma la divisione che più si sentiva era quella tra scala A e B.
Per un non precisato motivo, quelli della B facevano i fichi perché i loro pianerottoli erano più grandi dei nostri o perché le cantine erano tutte dalla parte nostra, ma davvero le famiglie più snob all'apparenza erano tutte in quella scala e alle assemblee di condominio mio padre diceva che erano "tarrucchi".
La signora della porta accanto a noi era una genovese vera e anche se mio papà, era di origini siciliane era comunque nato a Nervi e l'unico in casa a parlare in dialetto genovese con lei. Mia madre parlava poco e in italiano. Insieme loro due andavano ai mercati generali a fare la spesa e poi scattava una delle cose che ricordo con più gioia: la spartizione dei viveri acquistati in cassette di legno tagliadita. Non comprendevo perché ognuno non comprasse la sua spesa e bona ma a loro piaceva cosi: portavano a casa le cose ma poi cominciava un via vai di generi alimentari da una porta all'altra con lui o lei che si rincorrevano perché secondo loro ne avevano avuta più dell'altro. Vinceva sempre la Scià (signora) Traverso il cui cognome mio papà aveva bonariamente trasformato in Traversu ad indicarne la testardaggine tipica dei sardi. Me la ricordo magrissima quasi ossuta e di una età eterna ma non più giovane. Facile al rossore in modo patologico e riservatissima amava molto noi bambini perché suo figlio era già grande e quando avevo la febbre mi portava sempre una di quelle buste di giochi piene di ogni stupidaggine che io amavo molto. Viveva con il marito e la madre sclerotica convinta che il genero la avvelenasse e Bruno il figlio, un ragazzone timido e studioso che gli diede molte soddisfazioni, mica come mio fratello. 
Sopra di noi, abitavano i genitori del mio amico Giuseppe di cui vi parlerò in seguito, e a salire ricordo solo alcune famiglie tra cui i Bianchi e gli Angelini
I ferrovieri o almeno una parte di essi facevano i turni anche di notte, come mio padre, perciò in alcune ore del giorno dormivano e questo modificava la routine di tutta la famiglia, in quelle ore io facevo i compiti o ero in castigo, perciò ti accorgevi dei giorni perché nessun genitore faceva scendere in piazzetta i suoi figli per non litigare coi vicini. Questo almeno in teoria era il motivo per cui litigavano comunque, perché qualcuno pur di levarci dalle palle ci mandava fuori lo stesso.
Era il caso di Alessandro. In assoluto lui era il leader indiscusso della nostra combriccola di rompiballe, e anche quello con la maggior libertà d'azione. Lui era la mente delle nostre malefatte perché non aveva paura di niente e di nessuno. Non era un bullo come ci sono oggi anzi mingherlino e sveglio com'era si imponeva per la sua velocità mentale e fisica, ed era capace di sfuggire a sua madre quanto ai ragazzi più grandi che adorava provocare in continuazione.
Aveva preso da sua madre i bellissimi occhi azzurri ma lei stessa non sapeva spiegarsi da chi invece avesse preso l'argento vivo del suo carattere. La signora Dara era una donna di una bellezza sconvolgente: tra tutte le mogli dei ferrovieri nessuna poteva reggerne il confronto. Alta e magra come una Mannequin con lunghi capelli castani ondulati, vestiva anni settanta e oggi, potrei dire che sembrava uno degli angeli di Charlie con le sue zeppe di legno o gli stivali color Cognac. Quando tornava a casa e passava salutava a voce bassa chinando la testa come per passare inosservata. Ma non dimentico la spessa riga di  kajal nero che incorniciava gli stessi occhi azzurri di suo figlio, e la scia di profumo che lasciava dietro se insieme agli sguardi congestionati dei ragazzi più grandi di noi. Era una donna timida sposata ad un uomo che ricordo sempre un pò ragazzo nell'aspetto e bello come lei. La figlia, ugualmente bella in viso e Alessandro erano i loro figli ma solo lui era in grado di farle strillare la parola deficiente in modo da udirla fino al mare!
Che fosse inverno o estate il 52 sapeva regalarci mille possibilità di avventura e da solo costituì la più grande palestra che abbia mai frequentato. La grande curva che precedeva il piazzale, era il nostro posto preferito per giocare a palla avvelenata ma quelli più bravi di me, quelli che sul pallone non ci cadevano, come Alessandro e Giuseppe giocavano anche a "cannonate".
Il gioco consisteva nel tirare con quanta più forza possibile il pallone sul muro con un calcio, niente di che, ma il rumore del pallone di cuoio compresso sul cemento pareva davvero un colpo di cannone. Potevano però verificarsi due tipiche occasioni. La prima era che il pallone finisse nel giardino di mamma falcidiandone le calle o le ortensie ma la peggiore era che finisse nella Diga!
Il muraglione di cemento che conteneva la montagna aveva un buco profondo tra gli sterpi più bassi e il pallone poteva bucarsi tra i rovi se leggero, ma se era di cuoio finiva proprio li per il suo peso. Non dimenticherò mai la prima volta che Alessandro andò nella Diga a prenderlo.
dalla pineta camminò sul ciglio del  muraglione poi lo vedemmo sparire tra i rovi e dopo aver tenuto il fiato sospeso il pallone schizzò dal profondo verso di noi e da quel giorno Alessandro fu una sorta di Perseo capace di uscire dal labirinto! Non c'era verso di capire il pericolo che correvamo, tranne quando la signora del quinto piano ci beccava dal balcone e si metteva ad urlare garantendoci un castigo esemplare( credo lo facesse apposta). A turno ognuno di noi avrebbe tentato di essere Perseo. Persino io.