venerdì 5 luglio 2013

Tacchi e rintocchi capitolo 2: solitudine




Già la solitudine. Gli era piaciuto leggere quel libro che spiegava la differenza tra solitudine esistenziale e quella sottile forma di isolamento progressivo che diventa solitudine patologica, incapacità sociale.
La solitudine esistenziale è quella con la quale si nasce e si muore, ma che durante la vita ti permette anche di riordinare i tuoi pensieri, le tue priorità, o semplicemente ti offre uno spazio contemplativo nel quale approcciarti alla tua piccolezza.
Poi c'è quella patologica che ti isola, come succedeva a lui, quando la comunicazione con il prossimo non è aderente alle tue intenzioni con loro. In quei casi, sei prudente e gentile quando ci vorrebbe un secco no, oppure rifiuti categoricamente qualcosa che invece sarebbe prudente approfondire. La condizione in cui aveva conosciuto le sue amiche però non era di questo tipo, piuttosto queste si trovavano sole a causa di una ostinata volontà a trovare un uomo come ce l'avevano in testa. Il tempo passa lento e in fretta e così una di loro non aveva mai smesso di giocare a: c'è in giro di meglio, e le altre due lo avevano passato una a riprendersi da un tradimento e a recuperare la condizione di “donna di qualcuno” che il suo retaggio culturale le imponeva, l'altra a infrangere le regole borghesi che la volevano sposata anche se non più innamorata. E lui? 
Beh lui essendo gay, il tempo l'aveva passato quasi come tutte loro, con l'unica differenza che nel rapporto con gli uomini li aveva sempre considerati migliori di lui, se era stato tradito non riusciva a trovarlo inconcepibile e le regole le aveva infrante soltanto perché prevedevano che fosse sposato con una donna. Sapeva però che in fondo c'era un po di tutte loro in lui. Di certo in ordine sparso.
Tutti e quattro si erano incontrati in un tempo in cui i  loro gesti, le parole e  persino il proprio abbigliamento, comunicavano una finta capacità di stare bene da soli, ma il ritmo con cui questi elementi venivano esposti nelle occasioni sociali, tradiva invece il disagio e insieme il desiderio di esserne finalmente affrancati.
Le risate un po'  nevrotiche agli aperitivi, l'ostentazione di una immagine “up to date” a partire dalla mattina che trovava giustificazione nel tipo di lavoro che facevano, ma che  ci rendeva pure poco avvicinabili una volta che questi era terminato. Come tutte le convenzioni di branco però si riconosceva un capo e si provava di tanto in tanto a sminuirne il potere con l'arma del pettegolezzo. La comparsa di un “uomo” all'interno del branco scombinava il solito grooming fatto di complimenti, regalini, e giri di bevute pagati a turno, perché poteva determinare l'allontanamento di uno di loro dal branco stesso. Non che questo non fosse in fondo lo scopo di ciascuno, ma un certo nervosismo si faceva largo quando una di loro frequentava qualcuno. Quando invece a frequentare qualcuno era lui, si limitavano ad un ascolto superficiale che in realtà sembrava avere lo scopo di studiare come ricondurre a loro la conversazione.
Di solito eravamo abituati a definire questo qualcuno con strani epiteti, fintanto che gli appuntamenti comuni non ne risentivano, anzi quasi ci piaceva che succedesse perché consentiva alla fortunata di ottenere un primato sui tempi delle altre e a queste ultime il gusto di vederlo naufragare con comodo. Così una volta era “lo stronzo idratato” una volta il “tuttologo appiccicoso” un'altra “l'architetto pieghina” ma di certo la funzione di questi uomini era quella di nutrire i  nostri aperitivi di un che di eccitante. Ci si sentiva come una commissione di esame esterna. Potenti e poco inclini all'indulgenza con gli ultimi arrivati.
Sapevamo quando il malcapitato era in fase di fuco, cioè adatto ad una serie di accoppiamenti, o quando il corteggiamento era tutto ciò che serviva all'ape regina di turno tra noi.
Si sa che se una era la regina, le altre lui compreso potevano solo essere operaie, ma il trono era scambievole data la vastità di candidati che rimanevano attratti da questo “sciame”.
Se da un lato ci sentivamo tutti parte di una realtà condivisa che ci vedeva vincenti, dall'altro eravamo davvero tutti poco brillanti quando invece venivamo scaricati. Niente uscite di gruppo in quei casi, ma telefonate chilometriche tra la “vedova” del momento e l'ape consolatrice che di solito ero io,  a base di domande circa il perché o il per come fosse andata così, di chi fosse la colpa, fino al completo sfinimento di uno di noi. Domande che non volevano altra risposta che quella che ci vedesse vittime di uno stronzo, trattato troppo bene.
Alcune di loro erano più pudiche in quei casi, altre invece ostentavano una corazza di vittoria anticipata che, se pur poco convincente, le consentiva di mantenersi in  un certo equilibrio sull'abisso di disperazione che coglieva tutte loro indistintamente.  
Nessuno di noi voleva ammettere che l'ipotesi di rimanere soli ci atterriva più di quella di uscire con uno psicopatico, e che il gruppo che avevamo formato avesse proprio lo scopo di consentirci quel rischio con un margine di protezione. Gli uomini che si conoscevano non sempre venivano inseriti nelle uscite a meno che “la commissione” non dovesse esprimersi sull'idoneità del candidato, e in quei casi il malcapitato si rendeva subito conto che la donna con cui usciva non era affatto sola e che i margini di manipolazione  della stessa erano quindi minimi.
Su tutte loro però lui aveva un enorme vantaggio. Lui negli anni aveva dovuto rischiare davvero nell'uscire con un uomo, talvolta persino nell'incontrarlo senza poter contare su un apparato di vigilanza come quello che loro avevano creato. In parte questo lo rendeva indistintamente diffidente con chiunque avvicinasse le sue amiche e iperprotettivo, ma lui sapeva bene cosa volesse dire trovarsi a frugare nei vestiti di un uomo mentre era sotto la doccia appena prima di farci sesso, per controllare che ciò che di più lungo avesse con se non fosse tagliente, oppure dormire con un occhio aperto per controllare che l'esausto lo fosse abbastanza da non mettere le mani di notte nei cassetti, o ancora perlustrare la camera d'albergo in cui veniva ospitato, alla ricerca di un probabile sacco nero in cui rischiava di finire intero o meno. 
Per contro le sue amiche parevano molto più indulgenti e serene quando erano in modalità “motel” con qualcuno, come se, averlo incontrato in un locale vip, invece che in un parco, facesse la differenza, o che averlo in casa le rendesse più sicure. Purtroppo nonostante facesse fico non avere pregiudizi, lui sapeva che loro consideravano i suoi rapporti più rischiosi dei loro. Ignoravano però che un rischio cosciente è un rischio minore poiché include un minimo di preparazione al peggio, cosa nella quale loro erano decisamente meno preparate, proprio perché ammalate di lieto fine, mentre lui si augurava  quantomeno una fine che lo vedesse illeso fisicamente. Certamente aveva sognato che quell'incontro fosse “quello”, quanto loro, ma lo aveva sempre tenuto per se il tempo utile per non essere ridicolo quando puntualmente non accadeva.
Nessuna telefonata per lui, nessun tentativo di sentirsi vittima di uno stronzo, solo la certezza che il lieto fine era piacevole come l'aroma del caffè dopo l'amore, ma altrettanto facile a svanire.
Nel buio della sua stanza solo le fusa della sua gatta a rassicurarlo, ma nel suo cuore la speranza di poter un giorno condividere con qualcuno la parte migliore della sua solitudine. Qualcuno che non gliela togliesse senza fargli compagnia. Esistenziale o patologica che fosse. Un uomo per tutte le stagioni.

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