venerdì 28 giugno 2013

Tacchi e rintocchi capitolo 1: Qualcosa si rompe

Sul coperchio della scatola aveva scritto con un pennarello un invito a fare pace.
Suonava un po infantile e lo sapeva, fare pace, ma infondo era la comunicazione migliore che poteva fare in quanto, proprio perché infantile, conteneva l'entusiasmo di ricominciare, una dose di scuse e la promessa altrettanto infantile che non sarebbe più accaduto. C'era in quell'appello su una scatola di scarpe anche l'invito a considerare l'accaduto tra loro nell'ottica più semplice possibile, non  minimizzando la gravità delle parole che si erano detti, quanto la possibilità di considerarle solo parole: se fanno male ce ne sono altre che fanno guarire che possono ancora essere dette.
Le aveva viste in un negozio e immediatamente aveva pensato a lei, a come le sue caviglie sottili e la lunghezza delle sue gambe sarebbe stata valorizzata da quella calzatura, e come spesso fanno le donne le aveva comprate istintivamente.

Di lei le era sempre piaciuto il modo in cui si relazionava agli altri, il suo sorriso, i modi cordiali e quella capacità di rallentare il tempo frenetico intorno a lei per consentire un contatto più genuino tra le persone. Anche se lei si occupava in fondo di numeri, essendo una “commerciale” lo faceva con l'aria di chi i numeri li avrebbe ottenuti comunque ma non senza anche la stima di chi glieli avrebbe fatti raggiungere. Lei voleva tutto ma sapeva come averlo senza nemmeno chiedere, ecco cosa gli piaceva. 
Eppure era riuscito a farla infuriare, quando le aveva detto ciò che pensava circa il suo fidanzato, ma soprattutto ciò che credeva essere il vero motivo per cui lei, nonostante gli avesse detto di non essere innamorata, se lo teneva, e gradualmente gli consentiva di ridurre le occasioni in cui potevano stare insieme, fino ad avere su di lei pieno controllo ma senza mai dire di farlo. In qualità di amico ci aveva provato a coinvolgerlo, a conoscerlo meglio, e infine persino a farselo piacere, ma quell'uomo non era affatto interessato a fare nuove amicizie. Entrambi erano interessati solo a lei. 

L'abitudine a considerarsi “riconoscente” quando qualcuno lo apprezzava lo aveva spinto sempre verso la facile impresa di mettersi da parte. Se non faccio rumore se mi accontento forse non mi lascerà. Ma se da un lato lui sapeva farlo, non poteva evitare di sentirsene “costretto”. Negli anni l'unica maniera di poter continuare ad avere amicizie sembrava essere questa: ingigantire ciò che riceveva e minimizzare i suoi bisogni. Stai in un angolo se ti ci mettono, che ti costa, lo hai già fatto, fai il bravo, ringrazia sempre e non sognarti mai di dire ciò che vedi.

Nonostante tutto lui piaceva a chiunque in particolare alle donne. Il suo aspetto asciutto conteneva una certa eleganza grezza, ed era sempre stato facile per lui incominciare una relazione amichevole.
Le persone sono attratte o dall'innegabile bellezza o da una parvenza di essa, ma in ogni caso  l' amicizia contiene anche  un principio di “ seduzione”, e lui seduceva le donne con naturalezza, e con un linguaggio del corpo in cui le donne riconoscevano qualcosa di se, e gli uomini o ne erano attratti sessualmente o trovavano in lui quella soddisfazione al proprio ego maschile, che il suo lato femminile naturalmente  offriva. 
Queste caratteristiche lo rendevano idoneo ad un successo sociale che invece non aveva. Una contraddizione apparente che lo aveva spinto a domandarsi più volte cosa gli mancasse.
Il portiere dello stabile lo salutò cordialmente perché lo conosceva. Prese quindi l'ascensore e varcata la porta dello show-room dove lei lavorava, si accordò con la ragazza in reception affinché questa consegnasse le scarpe alla sua amica, fingendo di non sapere chi le avesse mandate, e se ne tornò in strada.
Siccome le parole tra loro avevano fatto scintille, aveva pensato che una azione sarebbe stata di gran lunga più efficace, e gli sembrava di vederla fare una risata una volta letto il messaggio sul coperchio, o così almeno si augurava. Tenne il cellulare a portata di orecchio. Quanto diavolo ci vuole per aprire un sacchetto? Lentamente, col passare delle ore si raccontò di una probabile riunione, di come non doveva aspettarsi nulla e per calmare l'ansia che sentiva salire, si disse che L'Universo ha i suoi tempi e non  poteva far altro che aspettare. Aspettare come sempre.

Gli venne in mente quando chiuso nelle sua stanza dopo aver fatto arrabbiare la mamma, aspettava,  in un silenzio assoluto di sentire i suoi passi nel corridoio, di vedere la porta aprirsi e tra le lacrime poterle correre incontro e ricevere quell'abbraccio che non aveva saputo chiedere, o meglio che non credeva di poter ottenere se non prima facendosi colpevole di qualcosa.
La luce fredda del display annunciò un messaggio di testo che diceva: non abbiamo litigato, ci sono cose che vanno oltre i litigi e per ora va bene così, qualcosa si rompe ma gli affetti restano comunque. E spendere per questo non è il rimedio. Grazie per il pensiero te li rimando domani. Un abbraccio.
Eccola la tua risposta! Gli diceva la una voce interiore. Ma come poteva esserci un affetto, un abbraccio, una gratitudine per un pensiero insieme ad un categorico vaffanculo? Perché non dire solo occhio per occhio? In fondo siamo ancora primitivi.
La gente mente e lo fa ammantando di grazia le sue feroci parole, come se queste potessero fare un male minore, come se fossero migliori di quelle che li hanno offesi o feriti, perché troppo dirette. Non c'era solo un rifiuto all'offerta di pace, che poteva anche starci, ma la pretesa che si potesse indorarla in modo che  non si potesse replicare. Una torta di merda ma ben decorata. In perfetto stile “commerciale” si dice così.
Lei che l'aveva convinto ad esplorare il “grigio” nei rapporti umani, le mostrava ora a cosa servisse. A lavarsene le mani in modo inappuntabile. Non c'era traccia di tutta la confidenza che avevano avuto che si erano dati reciprocamente, nessun frammento delle notti che lui aveva passato in ospedale con lei, per farla sentire al sicuro, o della mano che le teneva nei luoghi affollati dove la obbligava a sentire quanta aria e non persone quei luoghi contenessero, in modo che potesse continuare a respirare invece di sentirsi soffocare. Tutto ciò che c'era stato prima dell'arrivo di quell'uomo.
 Onestamente anche nelle parole che lui le aveva urlato al telefono non c'era stata la dolcezza dei ricordi, ma solo la rabbia di sentirla preoccupata per ciò che le amiche in comune avrebbero pensato di lei ora che aveva palesato la sua opinione sul suo uomo. Amiche con le quali si era già rotto qualcosa in lei,  ma per le quali restava l'affetto.  Come si dice in grigio stronza?

Il cuore, leggendo quelle parole fredde che per la loro intensità distruttiva avrebbero meritato una voce bella sonora gridata nelle sue orecchie e non qualche riga di testo, perse qualche battito, ma la sua natura gli fornì immediatamente l'antidoto: la rassegnazione precoce  ad avere perso. Un altra volta. Lasciami soffrire cazzo, si diceva nella mente. Il cuore si rompe, o come diceva lei a  rompersi è  “qualcosa”? 
Forse non era il cuore che le si era rotto, perché  lui lo sapeva che il cuore si aggiusta, guarisce, sempre e con poco quando si rompe davvero, anche con una bugia, ma ci sono cose infinitamente più fragili che si rompono per davvero negli esseri umani. 
Mentre il fumo della sigaretta stentava a calmarlo, quel qualcosa occupava i suoi pensieri. Poi un altro pensiero, altrettanto semplice lo illuminò: l'orologio segnava le ventuno. Meccanismi, bilanciamenti, sincronie, un tempo. Ecco cosa era qualcosa! Un meccanismo, un equilibrio.
Cominciò ad indagare a ritroso, nei meccanismi del loro rapporto, ma avrebbe dovuto dire dei suoi rapporti con chiunque e scoprì che come un orologiaio doveva conoscere tutti i singoli pezzi dell'ingranaggio per sapere dove si fosse inceppato, e che tutti gli ingranaggi basilari di un orologio sono gli stessi.

Certo un “comunque” avrebbe risparmiato tempo e sforzi. Non funziona ma comunque è sempre un orologio, è un qualcosa che resta come l'affetto. Ma a che cazzo ti serve un orologio rotto? Non lo butti ma lo tieni al buio nel cassetto. Cassetto nel quale non è mai chiaro se ci finisce perché rotto o perché non essendo curato smette di funzionare. Ci finisce comunque per mano di colui al quale è stato affidato o che lo ha voluto sapendo di doverne avere cura.

Il meccanismo si era fermato tanto tempo prima, quando nessuno aveva girato la “corda” e quell'orologio segnava un ora inutile, una qualsiasi di cui nessuno avrebbe tenuto conto. Nel buio le lancette prima perdono ritmo poi lo recuperano, dopodiché si fermano nel quadrante coscienti che non fa nessuna differenza se nel buio un ora sia esatta. 
Come c'era finito in quel cassetto, o in quella stanza da bambino, in quell'appartamento di fortuna da grande? Sempre nello stesso modo, per mano di qualcuno.
Negli anni però aveva imparato che al buio si può gridare, che se anche consenti a qualcuno di mettertici,
dopo un po puoi provare a dire: ehi guarda che ci sto da un po ma non per questo ci sto bene, ma anche aveva capito che nessuno può metterti da parte senza il tuo permesso.
Come questo permesso fosse accordato era materia più complessa ma di certo sapeva che era facile per chi gli dava considerazione ottenerlo prima o poi.
La paura della solitudine gioca brutti scherzi come anche l'abitudine ad essa.

giovedì 27 giugno 2013

Tacchi e rintocchi: prefazione.

Nel mio cammino verso la comprensione dei delicati meccanismi che connettono le persone siano queste connessioni amorose amichevoli o semplicemente sociali, mi sono spesso sentito un autentico ramingo.
In parte, ero convinto che la mia incapacità a comprendere come le persone si legano tra loro fosse dovuto alla natura contraddittoria del mio primo atto di connessione, cioè quello materno, che fu precocemente interrotto poco dopo la mia nascita  e successivamente malamente surrogato da una madre adottiva (anch'essa bipolare). 
Era naturale che mi sentissi come una periferica "configurata" a metà, quindi cercai per anni le istruzioni mancanti affinché anche per me si verificasse quel meraviglioso miracolo chiamato "connessione emotiva con gli altri". Negli anni in cui questa connessione naturale mi era venuta a mancare imparai istintivamente a farne a meno, sviluppando un comportamento che osservato da fuori mi faceva sembrare un bambino proprio a modino: buono, silenzioso, e per niente aggressivo. Credo che il comportamento docile e silenzioso,  il mio sguardo implorante che suscitava nei grandi il desiderio di amarmi come se fosse facile, mi avesse reso idoneo all'adozione, ma ciò avvenne per una qualche volontà di sopravvivenza che i miei geni operavano al di fuori della mia consapevolezza, e non già per una precoce "capacità sociale".
Tant'è vero, che solo in tarda adolescenza cominciai a capire che era la mia storia personale, ormai nota a tutti, che rendeva gli adulti più accondiscendenti nei miei confronti e i piccoli più curiosi di scoprirmi. Niente a che vedere con qualche dono, o qualche "speciale" caratteristica sviluppata grazie alla mia dolorosa esperienza abandonica, come piace molto credere ai patiti del lieto fine, o ai romantici che hanno talmente paura del dolore da volerci vedere per forza un qualche miracoloso "achievement", nel caso si trovassero a soffrire come cani. 
La fautrice di questa grande menzogna secondo la quale sarei stato un bambino speciale, fu proprio la mia madre adottiva la quale era incensata da tutti per il "grande gesto d'amore" che aveva avuto nell'adottarmi, come se in fondo, non l'avesse fatto per sentirsi normale  ma come se pienamente realizzata avesse un giorno ricevuto una qualche chiamata celeste, che le diceva di lasciare ogni cosa per salvarmi dal' oblìo, e che per tale convinzione finì infatti, per chiedermi di essere "speciale" in modo che la sua immagine di santità non venisse scalfitta.
Purtroppo io ero un bambino come tanti altri ma con la metà delle certezze di diventare un adulto sano di mente o socialmente equilibrato, e tutta quella enfasi sul modo in cui ero diventato figlio, non fece altro che caricarmi di una responsabilità più adatta ad un piccolo Einstein che ad un bambino come me. Così da quell'impostura secondo la quale mia madre era una donna straordinaria e io un dolcissimo bambino silenzioso che un giorno avrebbe dato chissà quali soddisfazioni, si formò la figura di un ragazzo che non si sentiva mai abbastanza "riuscito" e di una madre che meritava più riconoscenza, e la mia "configurazione", a questo punto un pò forzata mandò in corto il mio sistema emozionale facendomi incazzare come una bestia e mettendomi in condizioni di sfiorare la crudeltà nell'infliggere a quella donna esattamente l'opposto di ciò che l'avrebbe resa fiera di sè come madre. Fortunatamente il lato oscuro della normalità, non ebbe il sopravvento su di me, sempre per quella programmazione che non so chi mi installò, che mi imponeva di vivere e di farlo a lungo, cosa che non prevedeva la deriva della mia persona verso la sociopatia grave o la condotta criminale.
Comunque col tempo dovetti "settarmi" in modo da ottenere l'aiuto che mi serviva, dato che, avevo deciso di fare a meno della famiglia nel suo senso più stretto e banale, ma anche avevo scoperto il piacere di conoscere il mondo di persone che facilmente rimanevano attratte dal giovane che ero. Non fu facile, perché di suo la gioventù è già piuttosto crudele e indifferente con il prossimo, e nel mio caso questo fattore si univa alla erronea convinzione che i sentimenti che ferivo, non avrebbero ammazzato le persone che li provavano!
Più tardi, dovetti fare pace anche col mondo femminile, e grazie a diversi fattori e persone, e ad alcuni scopi che volevo raggiungere, imparai a provare quell'empatia che credo essere l'esatta connessione di cui sopra e il cui delicato equilibrio crea la capacità di relazione e al tempo stesso la capacità di essere autosufficiente. Non potevo diventare, come lo era diventata la mia madre adottiva,  una samaritana seriale nè mi andava di diventare un misantropo totale come tanti bambini ormai adulti con una storia come la mia sapevo essere diventati: io volevo essere un adulto, una brava persona forte, senza nient'altro di speciale che il saper stare sulle proprie gambe. Questa era per me la "configurazione" che il destino sembrava aver minacciato di togliermi ma che invece mi aveva proposto di raggiungere attraverso una strada diversa dal solito, e che non mi sarei fatto sfuggire! 
Oggi ho 43 anni e a parte qualche malware ogni tanto mi piace pensarmi come uno di quei server a torretta che di certo hanno più hardware del necessario, ma che ancora oggi si dimostrano molto affidabili. Questa è la premessa, come vi ho abituato assai prolissa, che vi spiegherà perché  nel racconto che settimanalmente pubblicherò un capitolo alla volta, io abbia affrontato il tema dell'amicizia con le donne, e nella  fattispecie con tre delle mie amiche, considerando i loro aspetti emotivi come parte di un meccanismo materiale simile a quello di un orologio, al fine di rendermeli più comprensibili, così come io mi sono meglio compreso pensandomi come un device che come una persona.
Il tempo è un fattore che condiziona fortemente le nostre possibilità se crediamo, come la realtà materiale ci insegna di averne un quantitativo limitato per realizzare i nostri desideri, ma la mia esperienza mi ha anche insegnato che la qualità delle relazioni che non vanifichiamo nell'ottusa premura di essere o avere, ci consente di affrontare più dolcemente il suo scorrere verso lo zero. Le donne che vi racconto, camminano nel tempo che ci è comune al ritmo dei loro desideri e illusioni, ma lo fanno sui tacchi!