martedì 27 novembre 2012

quarant'anni nell'armadio di mamma: gli anni Ottanta, parte prima


Il grembiule nero col fiocco azzurro strideva notevolmente col concetto di “esame” della quinta elementare, ma compresi che nonostante avrei preferito alla matematica, persino un volo dalla rupe Tarpea, dovevo farmi forza ed affrontare quello che tutti credevano essere il primo esame della mia vita. Ero bravissimo anche al gioco con l'elastico, ma non era compreso nelle materie di esame così come anche non lo erano gli spintoni alla bambina, con cui mi sarei fidanzato nella seguente prima media, con una semplice stretta di mano al museo di Scienze naturali. Lo superai quell'esame, ma francamente se mi avessero detto che il grembiule non l'avrei più portato comunque, non mi sarei presentato!


 Erano gli anni Ottanta diamine, e uno splendido decennio mi aspettava! Si, mi avrebbe accolto vestito un po maluccio, visto che mi toccavano gli abiti smessi del cugino Claudio, e con uno strano odore persistente che veniva dalle ascelle senza che sapessi perché, , ma presto dopo aver risolto il problema dell'igiene personale, (che a quell'età è una incomprensibile necessità degli adulti), avrei migliorato anche quello, perché negli anni ottanta tutto sembrava migliorare, fiorire, e illuminare il viale del futuro di meraviglia!
La televisione era a colori, e se l'Italia fu una delle ultime nazioni ad avviare le trasmissioni a colori, noi fummo gli ultimi ad averla in casa per non essere da meno! Mia madre “come se fosse mia madre” cominciò a tornare a casa con strani capelli ricciuti, e pareva che quella specie di acconciatura elettrica, fosse “permanente”, anche se non capivo perché se io dovevo farmi la doccia tutti i giorni, lei invece,  fosse libera di puzzare di acido nei capelli, lavandoli solo una volta a settimana! Questo non fu propedeutico alle effusioni fra noi, il che per lei suppongo, fosse un autentico sollievo.


Di tre anni più grande di me, mio fratello “come fosse mio fratello”, aveva una voce sempre più roca e peli sotto il naso che non capivo a cosa servissero ma smise di ascoltare Lucio Dalla il giorno che papà gli comperò “Lo Stereo” coi dischi, mentre io dovevo cavarmela con un complicatissimo strumento che leggeva nastri ed era pure “Geloso”! Noi da quel giorno perdemmo la pace, soprattutto quando tornò con un disco rock che incitava a rompere un Muro, ma che rompeva di più i nostri timpani.
Compresi che lui era davvero “il preferito” quando diversi anni dopo  seppi che in Germania persone evidentemente fedeli allo stesso gruppo rock cercavano di fare a pezzi davvero un Muro, e mentre alcuni di loro furono uccisi per questo, lui che a mio avviso con le vibrazioni delle casse ne era il vero responsabile, non incorse nemmeno in un rimprovero.


La conversione di mia madre “come se fosse mia madre” ad una ben nota religione “porta a porta”(che non vendeva aspirapolveri ma passaporti per un nuovo mondo) avvenne credo in quegli anni o poco prima..e fu l'unica svolta fashion della Maria Luisa, la quale si trovò a confrontarsi con le nuove “sorelle di fede” e i loro armadi. Apro una piccola parentesi sul mio sviluppo in tal senso, prima di tornare alle “sorelle” e i loro casti tagli sartoriali: io, cominciai a desiderare di essere alla moda dopo che la mia fidanzatina tentò di baciarmi, e dopo il conseguente spintone (del tutto simile a quello datole alle Elementari), che inconsapevole del suo intervento al cuore, provocò la nostra separazione e la mia prima sospensione. Che fortuna ebbi nel desiderare la canotta con lo scollo a barca e i lati aperti alla Den Harrow, proprio mentre chi te la poteva comprare si preparava al Giudizio Universale e alla Fine del Mondo!!!! Insieme al concetto di futuro, anche il concetto di concupiscenza, e attrazione naturale subì in me una conversione nel vedere Giovanni, in mutande all'ora di ginnastica,(mutande che nessuno di noi riempiva come lui). Conversione che, non si allineava proprio per niente ai nuovi precetti Marialuisani!
La Maria Luisa non dovette come altre, subire l'allungamento delle gonne, (40 cm dal pavimento max) a causa della fede, perché  era già abituata a nascondere le gambe piuttosto” pesanti” e va anche detto che le sue “sorelle” amavano farsi cucire abiti su misura (a poco prezzo per motivi di fede) dalle sorelle più sfigate della congrega che sapevano cucire. Se è vero che il mondo doveva finire, è vero però che le signore alle funzioni domenicali, non avevano l'aspetto che ci si sarebbe aspettato da delle  aspiranti sopravvissute, infatti, fiorivano abiti  confezionati con stoffe lucide, con enormi spalline e cinturoni ricopiati dal Postalmarket.  Maniche a sbuffo e colori sgargianti per le più agiate, mentre quelle come mia madre “come se fosse mia madre” e a questo punto anche “ come se fosse loro sorella”, venivano ricopiati dal cugino povero del Postalmarket: il Vestro. Con evidenti differenze stilistiche.


Ma fuori dall'esercito dei piazzisti della  salvezza, una giovanetta con i capelli neri e biondi, altrettanto religiosa credo, poiché coperta di croci, diceva a tutti di essere “Come una Vergine” e tutti ci credevano talmente, che fece più proseliti della Marialuisa e le sue sorelle “come se fossero sorelle”! Tutti la chiamavano Madonna e credo che qualche preghiera gliela rivolsi anche io...di nascosto dal momento che non eravamo più cattolici.
Le scuole medie oltre alla mia curiosità per il segreto delle mutande di Giovanni, furono segnate da due cose fondamentali: la giacca verdone della Signorina Ottoboni, l'insegnante di lettere che pareva non accettare gli anni ottanta, quindi vestiva ancora anni settanta, e i completini a pied de poule gigante, che mi incantavano come fossero un gioco del tanto agognato e mai avuto Commodore 64 della Gilda, la più bella della classe, che ci schifava tutti e che si faceva la frangia a fontanella multipla con quintali di lacca!
Alla fine della terza  media, mi ritrovai di nuovo all'esame ma stavolta molto più complesso e senza neanche la Paper Mate la penna più figa che c'era, più figa perfino della Gilda, della gomma pane e della colla con la paletta! Mi promossero con un Distinto che non era poco nonostante nell'ora di artistica disegnassi dei mostri che avrebbero giustificato l'intervento dei servizi sociali. Ma del resto cosa potevano farmi, togliermi dai genitori che non erano nemmeno i miei? Nell'imbarazzo evidente,  mi liquidarono come “molto intelligente e adatto alle materie artistiche”.


L'adolescenza fece il suo ingresso verso la metà degli anni ottanta, dopo che scoprii che una maglietta bianca non poteva essere accettabile se non aveva un po di frutta stampata sopra un cerchio con scritto Fruit of the loom, ma prima di sapere quanto gli Abba (che nel frattempo si erano sciolti) e Boy George sarebbero stati importanti per me.
Le cose a livello economico andavano un po' meglio dal momento che papà era stato promosso Deviatore Capo, e la Maria Luisa per festeggiare  si comprò un paio di occhiali dorati che con la permanente facevano di lei una perfetta cristiana e non sapendosi spiegare altrimenti la mia apatia me ne comprò un paio uguali, forse  perché potessi vedere meglio il mondo che doveva sparire...già da un po' ma che di fatto, sembrava in quegli anni godere di ottima salute.


Insieme al mio amichetto Fabio e a sua mamma, ebbi il permesso di andare per la prima volta al cinema a vedere un mostro che voleva sempre telefonare a casa sua, e che aveva un dito medio rosso e impressionante che si accendeva quando era spaventato.... Che bello il cinema con la mamma di Fabio che i soldi per il pop corn non solo ce li aveva, ma non vedeva l'ora di spenderli!

Ma gli ormoni in quegli anni non provocarono solo la sudorazione imbarazzante di cui ero afflitto, e ben presto il loro lavoro su di me andò a scontrarsi con i precetti a cui mio malgrado ero assoggettato in una Guerra che negli anni ottanta era lecito definire “Stellare”. In bilico tra la principessa Leila e un modesto Ian Solo, passavo da una cotta per l'amico di mio fratello alla sempre più  fraterna amicizia con la figlia dell'amica di mamma. Dalla Bibbia e le preghiere per i peccati, agli annunci Personali(altra invenzione poi sostituita da Internet) del giornale “Seconda mano” che in realtà armarono la mia di mano, facendomi scoprire il piacere dell'autoerotismo.

 Ormai la spaccatura tra me e la mia famiglia era netta quanto quella della carlinga dell'aereo che si schiantò a Ustica, e come quella vicenda si sarebbe protratta per decenni ma ormai dovevo andare alle superiori e altri quesiti più impellenti si affacciavano alla mia mente.
Primo fra tutti, lo schieramento politico tra destra e sinistra che contraddistingueva fortemente gli Istituti statali, e poi la decisione se essere Metallaro o Dark.... Non potendo seguire le mode mondane cominciai ad andarci il più vicino possibile togliendo ogni colore dallo scarno armadio che avevo, e come ogni adolescente fumando di nascosto! 
Le brutte compagnie come le chiamava mia madre “come se fosse mia madre” cominciarono a sembrarmi molto più attraenti dei “fratelli come se fossero miei fratelli” e decisamente più di mio fratello che non era neanche mio fratello sul serio, e nello specifico presero il nome della mia compagna di banco....Simona la quale..


Segue.....


mercoledì 21 novembre 2012

Quarant'anni nell'armadio di mamma: gli anni settanta


 Avvenne tutto probabilmente verso la fine di un ottobre del 1969, ma forse già da un po' i loro sguardi si incrociavano furtivamente tra le occasioni familiari come compleanni e cene abituali.
 Forse entrambi erano già genitori, di certo parenti, ma prima di esserlo erano un uomo e una donna. Tra loro due famiglie formatesi forse nel caos del 68. 
Giovani e pieni di ribellione, me li immagino ritrovarsi spesso a discutere tutti insieme di amore libero, politica e famiglia, ad immaginarne una che rompesse gli schemi bigotti nei quali erano cresciuti. Forse, accade al mare una sera di autunno accanto ad un falò, finalmente soli e liberi si sono amati così i miei genitori naturali. Purtroppo però quel desiderio bruciante fomentato dall'infelicità che li aveva attratti, li allontanò quando mia madre scoprì di essere incinta di suo cognato.
D'amore penso si sia trattato, se negli anni in cui abortire era un modo per affermare la propria indipendenza e diritto a scegliere, lei non lo fece e invece di sminuzzarmi consegnandomi al nulla dal quale ero stato chiamato, mi lasciò lì ad aspettarla. Si, perché anche se era incinta di me, ero io che la aspettavo, che aspettavo senza difesa che la luce mi mostrasse il suo volto.
La vita non è mai ovvia e qualcosa andò storto, poiché il ventitré giugno del settanta quel volto e quella luce io non li vidi, pur venendo al mondo e per avere una famiglia  aspettai altri tre anni, passando dall'ospedale all'orfanotrofio. Ma ero un bambino speciale, qualcuno che forse non poteva amarmi come avrebbe voluto mi riconobbe, mi diede un nome prima di lasciarmi, Fabrizio, come il De André cantante genovese che credo lei ascoltasse nell'attesa e nel tormento su come sistemare la sua situazione.
Che anni quelli, anni di piombo, anni in cui i cambiamenti si generavano  con violenza per la società e anche per me nel mio piccolo. La mia adozione venne dichiarata “protetta”, ma nulla mi protesse davvero se non il cielo in qualche buffo modo. 

Guardavo le scarpe di mia madre “come se fosse mia madre”, col tacco quadrato e alto in similpelle bordeaux e maxifibbia in finto osso con stupore e di lei fotografavo ogni cosa. 

I suoi occhiali neri e grossi tanto simili a quelli che consideriamo “moderni” oggi, si abbinavano al capello corto e cotonato che le facevano sembrare la faccia piccola, la manica del  suo cappotto marrone a losanghe era ruvida, lo sentivo sulla mano piccola ogni volta che mi sfiorava mentre camminavamo per mano.
Quella donna non portava i pantaloni tanto in voga verso la fine degli anni settanta, non come forse li aveva portati la mia madre biologica, attillati e a zampa di elefante, e neanche la minigonna che li aveva preceduti. Non c'era nessuna ribellione estetica nei miei genitori adottivi, nessun tipo di sperimentazione moderna del concetto di famiglia. Niente di “stupefacente” a casa nostra che  era arredata secondo il gusto dell'epoca e le modeste possibilità di papà, preoccupato per la crisi petrolifera del 73 e le norme di “austerity” energetica a cui ci si doveva assoggettare. Ma da li a poco lui e sua moglie sarebbero stati considerati come “pari” dalla società, anche se non credo che fossero coscienti di cosa significasse. 
Dalla scatola dei bottoni di mia nonna nacque credo il mio amore per l'estetica, giocavo solo con quelli quando andavamo a trovarla, una scatola di latta che conservo ancora, colma di bottoni gioiello di epoche precedenti, li mettevo in fila sul tavolo del suo soggiorno, attento a non disturbarle e molti di loro luccicavano colpiti dai raggi di sole che passavano dalla finestra. Lei era una sarta, ma ormai faceva più poche cose. Nella dispensa oltre alla scatola di bottoni aveva una raccolta completa rilegata in pelle della rivista Grand Hotel che potevo sfogliare!
Donne filiformi indossavano strani abiti, e parole incomprensibili per me credo li descrivessero, parole come tailleur, longuette e décolleté. Ricordo però che niente di simile era presente nell'armadio di mia madre come se fosse mia madre, ne per le strade e ritenni che dovevano essere proprio cose vecchie. Vecchie e magnifiche.
Col mio montgomery ruvido quanto il cappotto a losanghe marroni di mamma, e un altrettanto ispido berretto di lana calcato in testa, tornavamo a casa.
A ben pensarci, quegli anni non erano poi tanto diversi da oggi, insoddisfazione violenza e incapacità dello Stato di risolvere questioni economiche causavano le stesse ansietà di oggi, ma    questo perché ancora non eravamo entrati nei magnifici anni ottanta. A casa ascoltavamo la filodiffusione da una radio rossa con soli tre rumorosi bottoni e il filo nero che spezzava il disegno a  fiori, delle piastrelle della cucina. 
Comunque, per un bambino come me, gli anni settanta erano solo numeri, ma la preoccupazione dei miei, i loro discorsi sulla necessità di “accontentarsi”, parlavano di tempi difficili anche  per chi come mio padre pur avendo un “lavoro sicuro”, come statale nelle Ferrovie di Stato, non si schierava politicamente a destra o a sinistra, e Sonny and Cher, sicuramente li avrebbero considerati come matti d'oltreoceano.  Con poche lire, forse cinquanta,tirate fuori da un portafoglio, però ci usciva il gelato col quale lento come sempre finivo per imbrattarmi i vestiti che spesso arrivavano smessi dai cugini più grandi, direttamente nel mio armadio.
Ma c'era anche l'estate negli anni settanta, e quando il grosso telefono nero suonava in casa e sentivo mia mamma proferire la parola “campeggio”, sapevo che era arrivata!
La mamma  allora, tirava fuori le sue scarpe di tela con la zeppa di corda e i lacci alla caviglia e la borsa di maglia color mattone, i vestiti in acrilico che mi davano sempre la scossa  e il costume da bagno con i pantaloncini scuri a vita alta (niente bikini) e il pezzo di sopra a fiori di un colore spento.
Papà controllava che la tela della tenda comprata a rate  non fosse marcita nel garage e preparava l'immancabile “portapacchi” della sua 128 per la partenza.
C'era anche mio fratello come se fosse mio fratello che nel 73 aveva sei anni e portava ancora i sandali con gli occhietti mentre io quelli da frate! La televisione era ancora in bianco e nero, nera  come la mia immaginazione e bianca come il cappellino alla marinara che mettevo al campeggio.
Inutile dire che la nostra tenda era sempre la più lontana dai bagni pubblici del campeggio, che facevamo con la zia Ada suo marito Fausto e i due loro figli. La Zia Ada si specializzò quegli anni nel lancio della pentola del sugo (cadde numerose volte negli sconnessi vialetti dei campeggi con la pentola in mano).
Nel 75 avrei cominciato la scuola, ovviamente pubblica.
In questo viaggio nel tempo, vi porterò con me tra l'armadio di mamma e il mio,tra la nostra vita ridicola e drammatica e il glorioso tempo dell'innovazione,  fino ai tempi moderni. Perchè dovreste venire con me? Perché intanto tutti avete ficcanasato nell'armadio delle vostre, e in secondo luogo perché intendo raccontarvi il profondo divario che c'era tra la vita della gente comune e il mondo della moda, ma soprattutto perché quel trentennio portò vere novità. Il baule della moda, non era ancora colmo al punto da doverlo “rivisitare”, infatti, in quegli anni si “inventava” e creativo non era chi trovava un modo nuovo di guardare una cosa già vista, ma colui che dal nulla faceva venire alla luce ciò che non c'era.
Tra un racconto tragicomico e dettagli di stile autentico io con la collaborazione di Giorgio Schimmenti vi delizierò spero  di immagini e parole. Il suo prezioso  apporto in qualità di fashion  editor e amico  a questa piccola collana che terminerà con gli anni duemila, solleticherà, spero, il vostro gusto e magari spero vi aiuterà a recuperare oggetti di seduzione e cari ricordi, perché anche voi come noi possiate giungere alla conclusione che il Jersey di cotone sta alla “libertà” come io e mia madre stavamo alla definizione “famiglia naturale”, in modo cioè  inversamente proporzionale a ciò che appariva

venerdì 9 novembre 2012

omofobia: le indignazioni virtuali non ci bastano.

Per la prima volta voglio proporvi la riflessione di un amico sulla bocciatura della legge contro l'omofobia, da poco vergognosamente accaduta in suolo italico. Ma ciò che più mi preme non è la palese indignazione quanto la semplicità con cui Tiziano autore del testo che leggerete, ci mostra la strada più vera per provarne di autentica
:OMOFOBIA
A volte bisogna esporsi ed io lo faccio. E per una volta abbandono la vena sarcastica, a volte acida.
Tema che affronto: la bocciatura della legge anti-omofobia, ennesima bocciatura. E non mi scaglio contro chi non ha votato a favore. Rifletto, perché infastidito, dal proliferare in questi giorni sui vari social di lamentele quasi populiste e di considerazioni sterili e prive di sostanza.
Sono infastidito da chi continua ad affermare che in Italia ci sono il Vaticano ed il Papa ad impedire ogni scelta libera, “moderna” e contemporanea alla società che cambia. Non amo la Chiesa, quella con la “C” maiuscola appunto, ma oggettivamente che vi aspettate? 
Sono poi infastidito da chi in questi giorni pone sempre il confronto tra Italia ed altri paesi: USA, Francia e Spagna aprono al matrimonio tra omosessuali e in alcuni casi alle adozioni. 
Alla prima questione mi sento di rispondere che il problema non è la dottrina del Vaticano ma l’atteggiamento genuflesso della nostra classe politica che ha, ovviamente e da sempre, il suo tornaconto.
In merito a quanto stanno facendo gli altri paesi semplicemente sono più progressisti dell’Italia, da sempre, su tutte le questioni (divorzio, aborto, quote rosa, suffragio femminile ecc.): guardiamo in casa nostra e forse, se ammettiamo che la nostra cultura maschilista e testosteronica impedisce il progresso, avremmo fatto un passo avanti.
Il mio pensiero, ed ho posizioni precise in merito ai temi della lotta gay, è che dovremmo pensare che di per se è mortificante delegare il rispetto della categoria ad una legge che non cambierà l’atteggiamento sociale nei confronti dell’omosessualità: educhiamo i nostri figli (i vostri in realtà) alla coscienza civile, al rispetto, all’educazione non solo in termini di Uomo – uguale – Potere.
Affermo di non credere e/o bramare il matrimonio gay: amore, affinità, condivisione, complanarità emotiva non lo richiedono. Il portafoglio invece si e quindi auspico riconoscimento dei diritti delle coppie di fatto. Ma è un altro discorso.
Non ho alcun interesse in merito all’adozione per le coppie gay e francamente, pur nel rispetto di chi ne sente necessità, non riesco a condividere sino in fondo: ma il mio istinto paterno sta a zero , quasi quanto la necessità di una prospettiva o proiezione di me stesso nel futuro. 
Amo pensare di avere inizio e fine con me stesso e per le –poche- persone che amo.
Tutto questo, sinteticamente espresso, lo affermo nel desiderio di veder superate, un giorno, le etichette: e le etichette saranno cancellate quando i gay, per primi, usciranno dal loro “ghetto” che è innanzitutto spazio-temporale e mentale. E, sottolineo, profondamente vigliacco. In qualche modo è stata venduta l’anima al diavolo della Benevolenza: trasformati in macchiette, piumette svolazzanti, ricchi di clichè spesso patetici; dai tempi del “Vizietto”, e son passati 35 anni, è cambiato il taglio dei vestiti, ma la tristezza è la medesima. C’è un modo per amare chi si desidera senza giustificarsi con il trucco o coprendosi di barba simil virile. 
C’è ancora il coraggio di prendersela per una mancata legge? Per farsi rispettare bisogna evadere dalle proprie prigioni. 
Prigioni che odio quanto odio i ghetti con tutto me stesso e mai li ho frequentati: vivo trasversalmente il mondo e la società. Aggiungo che frequento pochissimi gay, perché di fatto mi annoiano, peraltro frequento pochissimi architetti per lo stesso motivo: ed io lo sono.