venerdì 17 settembre 2010

"la piazzetta" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 14


La piazzetta, era per noi bambini genovesi, il punto di ritrovo per le attività sociali e per il gioco. Niente oratorio, ma soprattutto, in piazzetta si poteva giocare al pallone, a nascondino, al pampano, alle avventure, nessun regolamento condominiale regolava orari o tipi di gioco. Solo gli spazi utili nel parcheggio o nella “curva” determinavano l'uso che ne potevamo fare.

L'imperativo sessista però dominava sottilmente anche il “gioco”, pentolini, bambole alle femminucce, il pallone e le guerre ai maschietti. Scusate e io?

Come diamine potevo giocare al pallone se il pentolino si bruciava nel “Dolceforno”? O come pensare a vestire una bambola per il ballo, se la banda nemica ci attaccava?

Scendevo a giocare con la gioia dell'ora d'aria, perché io a casa, non potevo giocare in camera. Per carità avevamo un giardinetto, dove mi ruppi la testa dall'entusiasmo, e che divenne off limit quando un giorno mia madre mi trovò sotto il salice piangente preoccupato per l'albero, come vi ho già raccontato, e avevo anche uno sgabuzzino di un metro e mezzo per tre, con “finestra di fronte”, dove un mobile giallo, era stato pitturato talmente tante volte, che non si chiudevano più le ante. Di conseguenza, dovevo essere fortunato...ma io mi sentivo come Harry Potter nel sottoscala dei parenti Babbani.

Allora non festeggiavamo più il Natale, perché mia madre si era convertita ad una religione più economica di quella cattolica, niente compleanni, niente capodanni, niente di niente, i regali me li facevano per “buona condotta”...ma questa è un altra storia.

Delia e Federica, erano le due bambine della mia età, Alessandro, Giuseppe, Alex e Marco detto marcolino, (perché non lo so, ma era sempre isterico e con una voce stridula che lo rendeva simile a paperino) i bambini. Giocare con i ragazzi mi piaceva, ma dalla partita a pallone ero escluso, in quanto, con la mia gambetta sifula non ero un buon attaccante, allora decisero di farmi portiere, ma io raccontavo pettegolezzi appoggiato al palo, perché avevo capito “portiera”, quindi finì la mia carriera sportiva. Al contrario di ciò che facilmente si pensa non è che con le bambine andasse meglio, come può essere divertente giocare al negozio con i sassi, se quando li vendevo per patate mi dicevano “ma sono zucchine?” .“ Ma sono sassi, cretina” rispondevo stizzito, “e poi hai le gambe più storte delle mie, ma io metto i pantaloni perché mi stanno meglio che a te!”.

Nei ruoli facevo confusione, ma non venivo preso in giro, come succederebbe oggi, noi infatti ci giudicavamo in base alla capacità di svolgere il compito assegnatoci dal gioco. Il mio preferito?

L'esplorazione dell'intercapedine! Il nostro caseggiato era di 5 piani, e dalla curva sopra i tombini, c'era la porta dell'intercapedine che percorreva al buio, tutta la lunghezza dell'edificio, tra rivoli schifosi ragnatele e tubi delle condutture, un vero tugurio. Attraversarlo alla luce dei fiammiferi, era il gioco. Se non ti cagavi addosso prima, e raggiungevi la porta d'uscita dall'altro lato, avevi vinto.

Lì non contava essere maschi o femmine, lì contava il coraggio di vincere la paura del buio, ed io ero imbattibile! Mentre gli altri o le altre si perdevano a guardare le schifezze che avevano intorno, io, come una novella Lara Croft, puntavo la luce verso il basso di lato, così seguivo la strada e vedevo gli angoli delle svolte fino all'uscita. Mi guadagnai molto rispetto con quel sistema. Ecco perché, molti gay hanno ruoli professionali di spicco, da grandi. Noi cominciamo da piccoli a “dover eccellere” in qualcosa, in modo da ottenere una sorta di “bonus”, un'immunità , al televoto di un pubblico sovrano, che sentiamo già considerarci con un segno meno.

Ma c'erano altri giochi divertenti tipo, rigori sulle saracinesche di lamiera dei garage(che stavano sotto gli appartamenti), guerra con le nespole marce( di cui riutilizzavamo i quattro semi come proiettili delle cerbottane), e appiccica i topi col vischio!

Le mamme degli altri erano più o meno come la mia, informi, loquaci o mute poco importava, e vestite per casa,( cioè, con vestaglie o simili), ma quando uscivano per andare dal medico, te ne accorgevi. Passavano dal portone, profumate con profumi troppo olezzati, che mal si accompagnavano all'odore di naftalina dei vestiti “buoni”, l'oro degli anelli era giallo, e il numero dipendeva dalla graduatoria del marito in ferrovia(erano tutti ferrovieri i condomini), le calze rigorosamente contenitive color carne, i cappotti col collo di diversi animali più o meno prestigiosi o pelosi, curiosamente simili alle caricature Drag degli spettacoli gay.

La mamma, è un altro tasto dolens nella controversia sull'induzione all'orientamento sessuale dei bambini. Secondo molti psicologi delle vecchie scuole, essa riveste un ruolo condizionante se non conscia della sua responsabilità al riguardo.( quelli delle nuove, si occupano di guarirci non potendo più fare diversamente per guadagnare lauti onorari da altrettante ”mamme colpevoli”)

Non deve essere oppressiva, seduttiva, normativa, castrante, o contraddittoria. Ma cosa resta in una donna se gli togli tutto ciò?

La signora F. mamma dell'Alessandro però era diversa da tutte le 19 casalinghe dell'intero palazzo. Lei aveva ancora la forma di una donna, lunghi capelli mori, un viso da diva del cinema con acquosi occhi verdissimi, e una abbronzatura atomica perenne. Lei dal dottore doveva andarci tutti i giorni, perchè io me la ricordo sempre vestita a festa con tacchi altissimi e piccoli strangolini di seta legati al collo Quando mi salutava ,chinandosi su di me, mi sentivo come la pastorella di Fatima, pronta a ricevere altro che i tre segreti! Le altre comari compresa la Maria Luisa, ne parlavano male, dicevano che bevesse, e io non ci trovavo nulla di strano. Se una, è sempre poco vestita, deve avere caldo, pensavo, e se ha caldo dovrà pur bere!

Comunque Alessandro non era un bambino gay, eppure lei aveva tutte le caratteristiche di una madre bla bla bla secondo le teorie psicologiche allora in voga. La mia, al massimo avrebbe potuto indurmi al suicidio, al cattivo gusto, o persino alla santità ma di certo non all'omosessualità per desiderio di emulazione edipica. Io già da piccolo volevo solo essere favoloso, non una donna, ma un uomo non obbligato a ripassare da dove era uscito, dopo nove mesi di attesa, da parte del suo allora esiguo pubblico, senza per questo, dover passare una vita a nascondersi!

Per fortuna, c'era la nonna Verdina, la mamma di mia madre, che mi adorava così com'ero e mi permetteva di giocare a casa sua con la scatola dei suoi bottoni “gioiello”. Quella era la cosa più gay che potevo fare, ma ci giocava anche mio cugino, che diventò eterosessuale e depresso....vai a capirci qualcosa! Nel garage col papà ci andavo di rado, perché puzzava di benzina e i miei adorati sandaletti di gomma blu , si sarebbero sporcati di grasso, ma ci andavo a bere dal rubinetto se avevo sete mentre ero in piazzetta.

Vissi in quegli anni, un infanzia felice, imparai a ficcarmi il manubrio della bici nello stomaco, a cadere dai pattini sulle scale al grido di holiday on stairs, insomma a fare le cose di un bambino normale in modo speciale. Un fischio dalla finestra, segnava la fine della mia ora d'aria, e il ritorno alla mia stanzetta/sgabuzzino, dove guardando la finestra mi dicevo “ Se la apro e volo non torno più”!....to be continued!



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