martedì 28 settembre 2010

"il dilemma" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap21


La mimosa cresceva spontanea nella pineta dietro la casa dov'ero cresciuto, insieme alle ginestre, anch'esse gialle ma profumatissime..Le decisioni in merito alla partenza erano prese. Io dovevo lasciare l'appartamento, e comunicai la disdetta del contratto di affitto. Non ricordo come lo dissi a mia madre, forse seguii il metodo claudiano dell'imposizione di realtà! La tanto odiata cucina, finì in un magazzino se ben ricordo,o dissi che non potevo portarla dietro, la camera da letto rimase lì, in quanto mi era stata regalata dalla vicina dei miei, che di certo non la voleva indietro, l'attaccapanni in foglia d'argento lo diedi a mio fratello per sdebitarmi almeno in parte del suo aiuto.

L'idea di non avere nulla, non mi deprimeva, anzi mi dava un senso di leggerezza. Forse non c'è molto che puoi avere se non sei nel posto giusto per te, quindi sarebbe stato ragionevole aspettarsi di meglio dal futuro e viaggiare “leggeri”. A casa di Claudio, le cose erano meno facili, in quanto lui dovette chiudere l'attività per trasferirsi e ciò addolorò non poco i suoi, che l'avevano tanto aiutato ad aprirla. Inoltre, nonostante la sua turbolenza, la vita di quelle persone non aveva conosciuto allegria più grande che vederlo crescere. Lui lasciava quella casa in un silenzio angosciante, mentre io lasciavo il silenzio angosciante “a casa.”.

Ogni tanto andavo a casa dei miei, e comprendevo il frastuono del silenzio che vi si era insediato dopo la scomparsa di mio padre e la mia uscita. La stanzetta dove avevo giocato da bambino, era ormai vuota, il giardino aveva meno voglia di fiorire, e nei corridoi, l'eco dei litigi sibilava a bassa voce, la mia stessa mamma, sembrava piccola lì dentro da sola. La sua preoccupazione per la nonna cresceva di giorno in giorno, e credo fosse diventata una necessità. un pensiero necessario alla sua sopravvivenza, forse, o il modo per rendere la sopravvivenza stessa più accettabile. La morte di papà mi aveva colto quasi di sorpresa, mentre ero al lavoro. Venni avvisato dell'accaduto al telefono, e mi precipitai a casa dove regnava il caos. Se n'era andato nella sua camera, la stessa, dove lei continuava a sentirlo respirare, e rimase in casa per tre giorni, per un problema di ”orario del decesso”. Qualche giorno prima sembrava stare meglio, e si fece tagliare i capelli, in giardino. Mentre glieli tagliavo, gli vedevo gli “undici”( i nervi posteriori al collo resi evidenti dalla magrezza). E mi ricordai di un film, che sosteneva che, la visibilità degli undici, era un segno di prossimità alla morte. Tagliavo i suoi capelli ricci, e speravo che fosse stato solo un film idiota, ma mi sbagliavo. La cosa veramente idiota, era la pantomima che si era creata, cioè, il fingere che nessuno sapesse la verità, circa le sue condizioni. Non so chi la cominciò per primo, ma ci finimmo dentro tutti! Tutti perdemmo la possibilità di dire ciò che valeva la pena di esser detto: “ ti voglio bene, scusami, per favore perdonami, e grazie.

Compresi che mio padre, era come quella piccola pietra a cuneo che sostiene i ponti o le navate, “la chiave di volta”! Apparentemente sembra solo una decorazione, ma in realtà i pesanti archivolti, contano su di lei per “scaricare” il proprio peso, ed essa da sola, garantisce la funzionalità strutturale dell'intero edificio. Vincenzo, era un uomo retto, e onesto con un senso della famiglia molto sviluppato. Da ragazzo i suoi occhi verde bottiglia facevano strage di cuori femminili, ma solo una donna divenne sua moglie, la Maria Luisa. Lei era talmente timida e inibita, che non si fece lusingare dalle attenzioni del “maliardo” e forse per questa sua coriacea rigidità, suscito in lui il desiderio di conquista! Le due famiglie non conciliavano, e la mia nonna materna, non vedeva di buon occhio quell'unione o così mi aveva raccontato mia madre, ma la Maria Luisa non si fece condizionare, evidentemente, e lo sposò all'età di 21 anni. Non ebbero la gioia di generare figli propri, e questo cambiò la maria luisa, per sempre, la fece sentire “anormale”, e questo, divenne poi un grosso ostacolo. Convinse il Vincenzo ad avviare le pratiche per l'adozione, e dico convinse, perché mio padre era perplesso circa l'avere figli “non suoi”. La sua onestà lo spingeva a chiedersi se fosse capace di amarli come se lo fossero, mentre l'ansia della maria di essere “normalizzata”, la spingeva a non desiderare altro. Il suo amore per lei, lo spinse a sopportare umilianti esami, per verificare le cause della sterilità, che però li condussero ad altre domande ancora. Apparentemente nessuno dei due pareva, secondo le conoscenze mediche di allora, incapace a livello fisico, ma la natura ha un bizzarro modo di esprimersi, e dovettero rassegnarsi a non avere risposte certe.

Gli orfanotrofi allora dichiaravano adottabili molti bambini italiani e piccoli d'età, forse a causa dell'amore libero degli anni settanta, e loro si recavano in questo Istituto con cadenze regolari.

I bambini nelle corsie, chiamavano “mamma” ogni signora in visita, e la Maria, non dimenticò mai quelle voci. Il sistema prevedeva che i genitori adottivi si recassero all'istituto con dei giochi, e che stessero qualche ora con tutti i bambini, mentre le operatrici cercavano di intuire quale bambino fosse più incline ad avvicinarglisi. L'iniquo metodo impediva ai piccoli più traumatizzati di avere una chance, ma la giustizia aveva la bilancia rotta, se qualcuno li aveva abbandonati, e questo era il meglio possibile per allora. Finita la visita, seguivano i colloqui, e veniva fissata la visita successiva.

Non so dopo quanto tempo, i miei, furono considerati “pronti” per il primo figlio, ma so che, mio fratello aveva tre anni quando tornò a casa con loro. Io, dovetti aspettare altri tre anni.

Che i miei genitori fossero buoni ero certo, poiché io in una delle loro visite, mi addormentai in braccio alla maria luisa, e così divenni suo figlio.

Mio padre litigò bruscamente con la direttrice dell'orfanotrofio, la quale tergiversava sulle mie condizioni di salute. Avevo i bronchi conciatelli, e uno dei miei piedi voleva indossare le scarpette con la punta di gesso. Piede equino, fu la diagnosi dell'ortopedico, risolvibile con un intervento verso gli otto anni. Io speravo che mi avrebbero fatto a punta anche l'altro e che sarei diventato una ballerina famosa, ma invece mi toccarono le scarpette ortopediche basse.

Diventammo così una famiglia “normale”!

Nel salotto di casa, il divano di mio padre, era occupato da Lillo, il gatto siamese, che mio padre adorava. “sta lì tutto il giorno” mi diceva mia madre, “se lo prendo lui miagola e torna lì ad aspettare...”. Presi ciò che dovevo prendere abbastanza in fretta, in modo da non scoppiare a piangere, mentre mia madre con i gesti di un automa, metteva tutto in una borsa. La baciai e le dissi di non preoccuparsi, che mi sarei fermato a Novara solo per un po', ma mentii e lei lo sapeva.

Quando chiusi lo sportello della macchina di Claudio, che mi aveva aspettato giù , lei era alla finestra, come quando mi fischiava per tornare a casa, ma non fischiò, anzi, sventolò una mano senza forza e io feci altrettanto.

La scomparsa della nostra chiave di volta, fece crollare le architravi della finzione e oguno di noi, a modo suo, mostrò di che qualità fosse fatto davvero.

Mio fratello, era sposato, e prese per primo la distanza da noi, cercò di dimenticarsi da dove veniva, e ci riuscì perfettamente. Mia madre, cominciava a realizzare le sue colpe, e l'inutilità di una scelta, che al tempo in cui venne fatta, dovette sembrarle la migliore possibile. Io, cosciente del rischio di “riscrittura” della propria storia, la congelai dentro di me, e girai la pagina non senza un pizzico di egoismo.

Portai con me la gratitudine e il perdono, ma non pensai un solo minuto di tornare indietro, mentre Claudio sensibile com'era mi prese la mano e la poggiò sulla sua gamba, ricoprendola con la sua. In silenzio. Le persone lasciano o vengono lasciate in continuazione, alcune guardano avanti altre si voltano, e comeracconta la Bibbia sulla moglie di Lot, diventano statue di sale. Quella leggenda, ci dimostra che voltarsi indietro, è più dannoso che andare avanti, e che non possiamo andare avanti davvero, se non ci lasciamo alle spalle un po' di cenere.

Non posso dirmi certo che lì non ci fosse ancora qualcosa per me, ma ero certo di non volerlo, ricordai le parole di Mann, che disse:

“Quando l'uomo è portato a trascendere sé stesso ha solo due scelte, può costruire o distruggere, amare o odiare”. Una scelta sola non è una scelta ma due sono un vero dilemma...

.to be continued





"la mia casa dov'è?" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 20



Il mio fidanzato, frequentava la scuola di trucco ormai da mesi, ed io nell'ordine mi ero trasformato in:

  1. l'uomo di Atlantide (applicazioni di protesi in lattice)

  2. uomo di 120 chili (ingrassamento del viso con le polveri)

  3. una donna

  4. la regina delle Aracni.


Ma il colmo lo raggiungemmo quando per l'esame di fine anno mi chiese di sottopormi al calco completo del viso! Non è che il mio fosse talmente bello da immortalarlo su gesso, gliene serviva uno e il mio era gratis, esattamente come altre mie parti anatomiche!

Nei locali della scuola mi spiegarono che sarei stato ricoperto di alginato dentistico fino ai margini delle attaccature, naso, occhi e bocca compresi. Io sospettai di dover respirare col fondo schiena, e obbiettai che non mi ero ancora esercitato a sufficienza, ma l'insegnante mi disse che due simpatiche cannucce avrebbero raggiunto le mie narici consentendomi di respirare per il tempo necessario al materiale di indurirsi. “ Nel tuo caso, non ci vorrà molto” aggiunse Claudio, per mettermi a mio agio. Lo fulminai con lo sguardo, e negoziai la prestazione, come quando da bambino, mia madre mi chiese di farle un favore in pubblico, e io volli 10 pacchetti di figurine!

Mentre mi sdraiavo sul lettino, feci pensieri “ariosi” per vincere l'ansia. L'alginato era gelido e appiccicoso, e mano mano il freddo mi invadeva i lineamenti, mentre sceglievo a cosa pensare nel tempo di posa. E' buio ora, e le labbra sono chiuse, non posso parlare, né vedere, posso solo vedere con la mente! Mi vedevo all'altare, pelata col velo bianco, la mari con i baffi (mica posticci), mi consegnava al futuro marito, e per l'emozione gli viene una bollata(gli scappa la pipì), Claudio vestito di Nero e Cobalto, ha i capelli raccolti e le scarpe col tacco. Ci sono tutti al matrimonio cafone, la mia parte ha due sedie, quella di Claudio, ne ha sessanta per tutti i clienti della Cage, e per i suoi! Suo padre saluta gli invitati che si congratulano, e lui gli dice “speriamo che duri” e gli invitati lo rassicurano, dicendo “ non ci ha mai delusi”. La mia mamma ha i capelli gonfi e una smorfia sul viso, mia nonna invece, è commossa dietro al ventaglio! Procedo sulla navata con i mei rollerblade di pizzo, al suono di “Dancing Queen” degli Abba , mentre mi sembra di conoscerlo, il prete, Roberto La betty, mi consegna il bouquet, un mazzo di carciofi e rovi, mi giro piano verso il mio futuro moglio e lui mi guarda dicendomi “ vorrei darti di più” - “di così?” dico io comprensivo.

Il prete ha la faccia dell'Ingegner Maggi e comincia la formula....io sto per dire “LO VOGLIO “

(che non era proprio una novità) quando sento un urlo “Staccategli la faccia!”

Due mani si insinuano ai lati del mio viso ed una luce abbagliante mi invade, “Sono morta?” - “No, mi dice l'insegnante di Claudio con la mia faccia in mano!

“sai che stavo per sposarti?” dico al mio fidanzato togliendomi i residui di materiale dal viso.

“Sei l'unico che dormiva, mi hai fatto fare una figuraccia” mi rimproverò.

Quel pomeriggio, io Claudio e la mia faccia di lattice, girammo per la zona dei navigli, e notai per la prima volta che a nessuno per strada poteva fregargliene di meno di noi! Fu una sensazione magnifica, perché non aveva a che fare con l'indifferenza, ma con la “normalità”. Tutte quelle facce non vedevano in noi, nient'altro che i soliti “alternativi”, gli stessi già visti altrove!

Il Naviglio era brutto come il Bisagno, ma l'aveva fatto Leonardo! Il Bisagno poveretto, la strada se l'era fatta da solo, e i genovesi ci avevano costruito intorno, inoltre, dal Naviglio arrivarono i marmi del Duomo, mentre dal Bisagno arrivavano solo i sacchi della “rumenta” (spazzatura).

Sul naviglio c'erano le “case di ringhiera”, grandi edifici con ballatoi esterni al posto dei pianerottoli esterni, sul Bisagno c'erano solo le ringhiere abbandonate senza casa! Insomma ogni due case ne sceglievo una dove avrei vissuto, e Claudio rideva divertito! Mi sentivo ispirato, innamorato e nel posto giusto al momento giusto, lì riuscivo ad immaginarmi un futuro, e in quel futuro c'era posto per noi due!

In fondo è questo che significa sentirsi “ a casa”, e poco importa se le fondamenta della propria sono affondate in una città o nell'altra, perché ci sono milioni di fondamenta che aspettano di ospitare la “tua” casa, e tu puoi scegliere dove quel cemento sia più sopportabile!

Comprammo un giornale, per verificare la possibilità di trovare lavoro, e scoprii che molti negozi cercavano personale, e anche questo era incoraggiante!

Bere il caffè alla Pusterla nel quartiere Ticinese, poteva essere esaltante, così come la Rinascente, con i suoi truccatori snob col sopracciglio ad ala di gabbiano e le barbe scolpite con l'aerografo, ti facevano sentire una diva in visita. I giardini segreti di austeri palazzi del centro ospitavano fenicotteri rosa, mentre ricche signore ricevevano proposte da giovani uomini prezzolati, in eleganti caffetterie. Questa Milano, scintillante ospitava anche gente comune, nella via Buenos Aires, gente come noi, a cui offriva un corso dove coltivare le proprie illusioni, ma tutti sapevano di essere in un posto unico, non eguagliabile all'America, ma altrettanto ricco di fermentosa creatività, un luogo, dove apprendere mestieri prestigiosi o semplici, dove potevi aspettarti di essere avvicinato da un talent scout in cerca proprio della tua faccia, o di vedere personaggi celebri, fingere una quotidianità banale, e banali persone quotidiane, interpretare il proprio “giorno perfetto”. Cartelloni pubblicitari grandi come intere facciate, sembravano gridarti “ Ehi! Ma ti rendi conto di dove sei?”,

vetrine scenografiche, ti invitavano a far parte “della scena”, non senza questo o quel capo addosso. Per questo l'uomo ama la città, mi ricordo di aver letto, perché aumenta a dismisura il senso del possibile, e te lo lascia credere alla tua portata. Potete pensare che mi illudessi, e fareste bene, perché l'illusione e il desiderio, erano ciò che cercavo! Pagare gli onerosi affitti di una città come quella, mi pareva poca cosa, quasi un privilegio, per poter respirare il profumo di un eccellenza che allora sentivi emanarsi da ogni suo angolo!

Forse, fu proprio quel giorno che compresi che lasciare Genova, era la cosa giusta da fare, anche se non mi potevo accorgere, che quella scelta avrebbe avuto un prezzo molto alto!

domenica 26 settembre 2010

"la samaritana seriale" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 19


Le pulizie domenicali, erano un vero incubo per me, ma mica ci avevo la colf! Non avevo neanche la golf, che tanto si usava a Genova, e i miei maglioni pungevano come vi ho già detto. Ma per rendere il dovere, un piacere, io usavo la musica. Non avrei sopportato di strizzare lo straccio senza cantare “non gioco più, me ne vado” o passare lo spazzolone senza urlare a squarciagola, “ Ancora ancora, ancora”, ma il meglio veniva quando pulivo il cesso sibilando “nessuno mi può giudicare ….nemmeno tu!”.

Mentre mettevo la cera, suonò il campanello, che siccome non suonava mai, mi sembrò un suono estraneo quindi suonò due volte. Non era il tanto agognato postino, era mia madre!

Il bagno con viakal era pulito, ma lei non si era fatta cinque piani a piedi per sincerarsene, quindi sentivo odore di casini. “Ah, “ faccio io, “stavo pulendo, entra!” “ ma cosa la passi a fare la cera, che magari scivoli e ti fai male?” fece lei entrando. Si era dimenticata, di quando a sette anni camminavo con le pattine per casa, e raggiungevo il cesso in derapage, perché la signora aveva passato la cera.

La casa era un po' desolante ma non abbastanza da giustificare quello sguardo, anche se i pensili della cucina ancora da pagare, giacevano sul pavimento in ordine sparso, “ senti, io non so proprio come puoi essere così”, le mani sostenevano una testa pesantissima di pensieri, e il gomito non era allineato al polso, facendola sembrare spezzata, mentre sperava che il tavolo reggesse lei e tutto il suo dolore.

Mia madre, aveva impiegato quasi tutta la sua vita a sopportare la normalità, a considerare i suoi coinvolgimenti emotivi o fisici, come doveri, ad assolverli con un certo scrupolo per un altro numero di anni, e a farceli pagare tutti ora che era rimasta sola. Per carità, io non nego che fosse stato un bel colpo, vedere nello stesso anno un matrimonio, un funerale, un divorzio, e la casa improvvisamente vuota, ma avrebbe dovuto essere un sollievo per lei, visto tutto il roccolare fatto negli anni su ognuno di noi, invece, ora non aveva più nessuno da incolpare, e molto tempo per pensare!

“ma cosa le dico?” mi ripetevo nella mente mentre facevo il caffè, e spegnevo mina, affinché non si rovinasse la giornata, “Così come?” mi sembrò una pessima idea, ma ormai le corde vocali avevano già vibrato, “a fare “la vita che vuoi fare” proprio non ce la faceva a chiamare le cose col suo nome

“ma guarda che mica mi faccio pagare eh?” dissi cercando d'essere di qualche conforto, e aggiunsi “ senti mamma, farò come hai fatto tu, solo che io ne sono un po più contento!” - sgomento e silenzio “quanto zucchero?” Quello sarebbe stato il momento perfetto per annunciarle la mia imminente partenza, e chiamare un ambulanza, ma non lo feci, mi sedetti lì con lei, e le dissi che non doveva neanche provarci a capire, perché io non avevo mai voluto capire cosa ci trovasse mio padre in lei, ero solo contento per loro più di quanto loro non lo fossero per loro stessi. “ma io e tuo padre, siamo un uomo e una donna!” che argomento convincente, pensai.

“ma mica gli unici sulla terra, in fondo, spero che papà non abbia vissuto solo di te, mamma, perchè se così fosse, allora la sua scomparsa si tingerebbe di mistero, per me!” Ciò che intendevo dire, era che, siccome litigavano sempre, e lei ci aveva infarcito le orecchie di lamentele, non potevo credere che “L'UNIONE NATURALE” bastasse a rendere tutto giusto, e quindi era probabile che se mio padre le fosse stato fedele, a 65 anni si augurasse una via d'uscita! Sapete quegli stupidi pensieri che si fanno quando sei infelice e insoddisfatto “ma che vita di merda, per vivere così....sarebbe meglio...”. Ecco, visto che gli ultimi anni, lui viveva in “esilio” in salotto, e lei in cucina, poteva forse averlo pensato? E se fosse stato esaudito?.In ogni caso, io che colpa ne avevo?

“Senti, mamma io vorrei solo provare ad essere felice, e lo sarei di più se sta cucina sparisse dai miei occhi, e con questo credo di rispondere ai tuoi dubbi”. Lei, non rispose, perché quando si scaricava, poi stava bene, ed era pronta a ritornare alla sua vita e a dimenticarsi di te. Lo faceva anche quando ero piccolo, si sfogava insultando sua sorella al telefono o mio padre, e poi non li cagava più! Infatti, si alzò dalla sedia e disse” vado che tra dieci minuti, passa il 50! “.

Chiusi la porta, con la serenità con cui forse mio padre chiuse gli occhi, quindi poca e riaccesi lo stereo. Donatella rettore cantava "Lamette”,

Qualche tempo dopo, la mia genitrice aveva avuto una brillante idea “ La nonna, è sempre più svanita, e siccome qua dice che non ci vuole venire, mi sa che dovrò andare io la, mica posso lasciarla da sola? “. C'eravamo,! La “ samaritana” aveva deciso di incamminarsi sul sentiero, solo che la mia, era "seriale" e il passante , prima di curarlo, lo infortunava di proposito.




sabato 25 settembre 2010

"vissi d'Arte e farinate" Ge-Mi storia banale di u n gay speciale spciale cap 18


Il demone del liscio, si era impossessato di me, e raccontai alla mari delle nostre incursioni danzanti a Milano, mentre lei mi esprimeva le sue perplessità,circa il viverci, in quella città.

Lei c'era andata molto vicino quando aveva vissuto in un paese vicino a Novara, e capiva bene il mio entusiasmo mentre la pettinavo. Eravamo riusciti a farle crescere i capelli e glieli pettinavamo a onde morbide di color rame scuro. “Flamboyant” lo chiamavamo, e lei una volta finito scimmiottava per noi, la signora francese, facendo le facce della “Signorina Silvani”, mentre quando viveva a Novara indossava pesanti gonne di Giudice, in panno e capelli corti da catechista!

Lei era la mia bambola preferita, quindi sì , non ho mai smesso di giocarci, ma preferivo quelle multifunzionali in carne ed ossa.

Avevo deciso di diventare parrucchiere, dopo il grave incidente in motorino, perché avevo detto “se sono sopravvissuto è per fare ciò che voglio davvero!” così convinsi mia madre ad iscrivermi alla scuola di parrucchieri genovesi., inoltre era orribile vedere la propria “adorata” madre, sciatta e anche mal pettinata tutti i santi giorni! La scuola di parrucchieri era nella prestigiosa via XX Settembre, ed era decisamente costosa, ma la mamma non si scoraggiò e con la borsetta sulle ginocchia, ascoltava la padrona parlarle del programma. “il corso dura due anni e le possibilità di lavoro sono alte” le diceva mostrandole la lista delle assunzioni dei vecchi allievi “la rata mensile è di tot ed è compreso il materiale e la divisa”. La signora parrucchiera-padrona, era decisamente bruttina e col suo caschetto liscio e brillante mi ricordava “il pianeta delle scimmie”. L'idea che mi trovassero lavoro, sembrava buona alla mia mamma, che firmò col sangue i documenti-capestro della scuola. Da dopo l'incidente, forse la maria luisa, si era rassegnata a pensare che se facevo la parrucchiera almeno non mi potevo far male, oppure sperava rimanessi fulminato col phon , ma comunque quella fu la cosa più bella che fece per me, dopo aver pagato il dentista che mi aveva ridato il sorriso. Ero l'unico “maschio” del corso, e vestito da barbiere facevo cagare, ma giravo fiero con il pettine in mano. Nel corridoio annoiate signore aspettavano il loro turno come “cavie” perché pagavano pochissimo quindi il corridoio era pieno! Shampoo piega colore e colpo di sole il primo anno, taglio e acconciatura finale il secondo anno, poi c'era l'esame e se non stavi sulle palle a tutti, ma soprattutto se i tuoi non avevano saltato MAI una rata, eri promossa !

La mia insegnante Lasabrina tuttattaccato era brutta come la padrona , ma si sentiva una gran figa, con i suoi riccioli anni ottanta color pannocchia e la frangia bombata e laccata. Passava a dare il “tocco finale” alle cavie, col pettine a forchetta, e ti correggeva gli errori che non ti insegnava ad evitare! I colori venivano preparati di nascosto, nello stesso stanzino dove riempivano gli shampoo del lavatesta col detersivo dei piatti! Le signore si scambiavano sguardi e sorrisetti maliziosi, quando mi vedevano, ma io col mio ciuffo non sapevo proprio cosa avessero da ridere, uscendo con quelle teste orrende! Dopo due anni portai all'esame il caschetto identico a quello della padrona e fui promossa con pieni voti, e spedita a fare pratica da una parrucchiera che teneva un sacchetto di cose d'oro sul soppalco, che mi mandava a pulire, e che si incazzava come un fico quando le dicevo: “signora, quel sacchetto è ancora qui, glielo metto in cassa così non dimentica di portarlo a casa?”

Poverina, il marito era in galera ….chissà perché?, ci sono persone che fanno proprio fatica a vivere!La mari adorava il suo ruolo di mia mamma gay, ed era l'unica che mi sarebbe mancata nell'andare a Milano, e mentre le raccontavo il mio progetto di vivere con Claudio, potevo sentire le sue amorevoli rotelle macinare qualche pensata. La casa nei pressi di Novara era ancora di famiglia, e mi disse che potevamo appoggiarci lì per i primi tempi....”ma dovrai parlarne con tuo marito..” obbiettai commosso, “Non preoccuparti, ma devi solo promettermi di fare sesso in camera nostra, perché il letto è ancora quello di mia suocera!”- “Allora sai che facciamo?” dissi “Ti porto con me a Teatro, a vedere la Tosca, ti va? “- “ma al Carlo Felice? Ma come fai ad avere i biglietti, sono introvabili oltreché costosi”. In effetti, dal matrimonio, l'unico benefit che avevo conservato era una serie di biglietti per alcune prime d'opera, a due soldi, avuti dall'insegnante di tedesco della mia gà ex moglie, e che nessuno mi aveva chiesto indietro.(evidentemente meno preziosi della saliera, per alcuni) “amore, mai domandarsi da dove ti arriva qualcosa, ma piuttosto, cosa potersi mettere per quel qualcosa, è la domanda giusta!”

Il foyer del teatro era gremito di persone della Genova bene, e io e la mari stavamo un figurino, ma non potevamo riuscire a star seri, continuavamo a sgomitarci l'un l'altro per segnalarci quel vestito o quella pettinatura ridicola o eccessiva. La paralisi creativa, aleggiava nella stanza, perché ogni persona lì dentro era sintonizzata sulla frequenza di conferma del proprio status. A molti l'opera sarà anche piaciuta, ma ad altrettanti piaceva di più il fatto di “esserci”, la mari invece conosceva gli “usi di corte” ed era l'infiltrata perfetta, in quanto a me, mi aspettavo che uno degli uscieri, mi sbattesse fuori. Cinque minuti erano il tempo giusto per dover salutare alcuni dei presenti se li avessimo mai conosciuti, scambiarsi convenevoli, e spettegolare dopo il commiato, ma noi eravamo come i servi, alla Scala di Milano mandati lì per disprezzo all'imperatrice d' Austria, dai loro padroni, quindi per risolvere l'empasse la mari ebbe un colpo di genio! Ci baciammo come due amanti furtivi, mettendo fine al caso che e si era creato. “Mi sento sollevata” mi disse la mari “ Perché? risposi, “ vedi, è da quando siamo entrati che immagino voci sussurrare , o quello è suo figlio, o l'ha pagato”.

.”Capisco, mari sai quanto detesti l'ambiguità!” Dopo che la soprano si era lanciata dalla torre , io e la mari concludemmo che essere in sovrappeso può esserti fatale, ma in certi momenti è peggio non averci una torre. Convenimmo con Valentino che una festa andasse lasciata quando c'era ancora gente, e invece di brindare con una coppa di champagne al mio futuro milanese io e la mari, ci mangiammo una bella fetta di farinata.

To be continued.....





mercoledì 22 settembre 2010

"Rosaria contro S.Rita" ge-mi storia banale di un gay speciale cap 17






Questo era il nome dell'unica bambola che ho posseduto, una bambola di pezza, che una aspirante fidanzata di mio fratello mi aveva regalato in cambio di una sua fotografia. Per fortuna, potei tenerla anche perché ero già abbastanza grande. Dopo la telefonata della moglie dell'amico gay di mio fratello, era venuto fuori un bel botto, nell'ambito delle “amicizie familiari”. Quella furbona della mamma, aveva creduto che frequentando un ristretto gruppo di famiglie, in cui “quelle certe cose” non erano ammesse, avrebbe potuto limitare o inibire il mio gene gay, ma non aveva fatto i conti con la parabola biblica dei lupi in manto di agnelli. Eppure la leggeva spesso la bibbia.

Forse più realisticamente non aveva fatto i conti con la legge dell'attrazione, che governa ogni cosa, e che dice che, ciò che ci accade è frutto di un prolungato pensiero, abbinato ad un emozione dominante che “attira dall'Universo tutto ciò che si trova sulla stessa frequenza, materializzando quindi cose persone e fatti reali.

Se questo principio sia vero o no, non saprei, ma io ai maschi ci pensavo un bel po' e lei lo sapeva e pensava con orrore alla stessa evenienza. Risultato, io i maschi li attiravo anche se sposati, e lei aveva l'orrore su cui si era tanto concentrata. Eliminando il dramma, che deriva dalla sorpresa, ed essendo coscienti dei propri pensieri, avremo potuto essere felici entrambi, io come uomo gay, lei come martire! Del resto, mia madre era devota di S. Rita, una donna che fu obbligata a sposare un crudele guerriero e che ebbe due figli dediti al peccato. Ma la Rita(non ancora santa) era una che pregava, e dai che ti ridai, Dio l'accontentò. Se avesse ricordato che chiedeva di salvare i suoi figli dal peccato, (concentrandosi su quello) e di essere libera dal marito per servire dio,(il quale non aveva pretese fisiche su di lei)tutti i santi giorni, non si sarebbe sorpresa che i figli fossero morti entrambi, e che il marito fosse caduto in battaglia! Invece di ringraziare il cielo per la grazia concessa, e spassarsela un po', quella gina della Rita si chiuse in convento a coltivare le rose di maggio! La fanno santa, perché quelli che l'avrebbero fatta nera, erano già morti!

Invece, la Maria Luisa, non era felice per niente che la notizia della mia peccaminosa favolosità e della sua santità imminente si fosse sparsa e per limitare le perdite mi aveva proibito di uscire da solo!

Così passavo il pomeriggio con lei da mia nonna, e le sere fissavo “rosaria” che avevo seduto sulla mensola sopra la scrivania. Mi guardava con la sua faccia di pezza a forma di fagiolo e il corpo molle pieno di sabbia. La circolazione di rosaria, non era un granché, aveva le mani e i piedi gonfi, i capelli blu di lana legati a trecce, e io mi dicevo “sei una bambola di pezza, ma non è detto che tutti debbano saperlo! Forse riesco a farti vivere come una Barbie.”

Mia madre nel mettermi in castigo si castigava da sola, perchè se io non potevo stare da solo doveva stare con me, quindi adottai la strategia del “carcerato recuperabile”, che consisteva nel:

  1. Mostrare segni di contrizione (andare in cucina sedersi con lei ma non vicino e non dire una parola. Augurare la buonanotte senza avere risposta x due giorni!

  2. Dopo il secondo giorno, farsi vedere a fare qualcosa di carino, come disegnare, o leggere.

  3. Chiedere di poter fare “qualcosa” di utile

A quel punto, scattò, la proposta di attività rieducativa, le chiesi se mi aiutava a cambiare le trecce di Rosaria. Nella norma, avrebbe dovuto rifiutare, ma io sapevo che da piccola non aveva giocato un granché, e che con la moina giusta, mi avrebbe assecondato per transfert infantile. Nel giro di due giorni sfornammo un guardaroba per Rosaria da diva di Hollywood, e addirittura io trovavo i vestitini finiti già sulla bambola. Mi fece persino un bolerino di persiano (lana finto astrakan) con una rosellina sul bavero, che sarà stato alto quattro dita. Un capolavoro!

Secondo me, si era rotta le balle di rimuginare sulla vergogna, e la “detenzione” pesava anche a lei, quindi si lanciò in questa attività con me già grande, con la gioia della bambina che non era mai stata. Passammo momenti di grande intimità, io e lei, ma non durò molto però, me la fece buttare perché le raccontai che nella camera della ragazza che me l'aveva regalata, c'era un limone pieno di spilli. Lei collegò la bruttezza della ragazza e le chiacchiere di zona, e decretò che la bambola era oggetto di magico rituale.

Credo che pensasse che in quanto a sfiga, avessimo già il massimo della vita, e così Rosaria finì nella spazzatura e con lei tutto il suo guardaroba.

Pazienza, almeno lei, aveva avuto una svolta glamour, da bambola di pezza, a supermodel anche se solo per poco! Io ripresi a scrivere ai fermoposta...in attesa della mia di svolta!

La detenzione e il programma di “recupero” erano miseramente falliti ma io non avevo nessuna intenzione di fare felice né santa Rita, né la Maria Luisa.

Il pensiero di vivere a Milano, occupava ormai completamente i pensieri miei, e di Claudio. Lui era convinto di poter trovare un lavoro nell'ambiente dei truccatori, ed io come parrucchiere, potevo fare il mio lavoro dovunque.

Una delle passioni con cui Claudio aveva cercato di “sfondare” era il ballo liscio da sala. Aveva fatto numerose gare, ed era richiestissimo dalle dame presenti alle sagre paesane della Liguria.

Potevo io come compagno di un ballerino non imparare? Ma certo che no! Quindi all'inizio cominciò ad insegnarmi i passi in camera sua, ma potevano due maschi ballare insieme? Al contrario delle donne che lo fanno da sempre, no! Ma nella sua stanza le parrucche sulle mensole non si formalizzavano, e allora mi “sacrificai” ed imparai i passi della dama! Dopo qualche tempo, ci trasferimmo in soggiorno, perchè la zia Tina diventava matta a sentire la musica suonare. Seduta sulla sua panchetta ondeggiava col suo culone morbido mentre io e Claudio giravamo un valzer od una mazurca. Che magia lasciarsi portare da quel nanetto garbato che per me era meglio di Julio Iglesias, seguire i suoi passi offrendogli i miei, in un tutto armonico. La Tina e sua cognata a volte si commuovevano, forse, in quella scena così semplice, ritrovavano i ricordi di un romanticismo antico, o di un amore mai assaporato, ed erano capaci di essere felici per noi.

La pratica però a Genova, si limitava a quelle stanze, in quanto come già detto, in nessuno dei “dancing” avremo potuto farlo pubblicamente, o almeno così credevamo.

Claudio, aveva sentito parlare di un locale gay a Milano dove gli uomini, ballavano il liscio in una sala con tanto di orchestra dal vivo, e nell'altra pista si ballava disco. Nuova Idea si chiamava il locale, e mi promise che una volta mi ci avrebbe portato! Era proprio un idea nuova, e come al solito non era venuta ad un genovese! Da noi c'erno i “dancing” o le balere, nei primi, si ballava di sera e le donne ci andavano con i fuseaux e la maglietta di paillettes ”stampate”, nelle seconde ci si andava d'estate a digerire la salamella o il fritto misto.

La Nuova Idea aveva all'entrata come un Red Carpet che si percorreva al coperto prima di accedere al guardaroba, dove una biondona sfatta e cotonata ti prendeva le giacche sporcandole con la cenere delle sue sigarette sempre accese. Girandosi si pagava l'ingresso e si riceveva un biglietto verde che era la consumazione compresa nel prezzo, ad un altra donna mora e sfatta con la sigaretta accesa.

Io ero emozionato come la Canalis al Kodak Theatre e Claudio con la sua camicia bianca e il pantalone nero con le pence e gli stivaletti....sembrava D'Artagnan!

Ci saranno state almeno un centinaio di coppie uomo-uomo , e donna-donna che ballavano felici. L'età andava dalla nostra ai 92 della più anziana delle “ballerine”, che era un abituè del locale e che non smise di ballare dalle dieci a mezzanotte! Uomini giovani si facevano portare da signori maturi con la vanità di chi è corteggiato. Perché danzare per quegli uomini anziani era un ottimo surrogato di un sesso, forse, non più facile da ottenere, ed avevano nel portare, tutta la leggerezza che l'età toglie nel muoversi quotidiano. Li immaginavo, giovani, costretti a ballare con donne, guardarsi tra loro, come in un film, senza potersi toccare. Ironia della sorte avevano dovuto pagare la libertà, con tutti gli anni del loro vigore giovanile, ormai passati e mi commossi mentre Claudio ci introduceva in pista. Il livello, dei ballerini andava da 0 a 100 ma i più abili indulgevano sulla lentezza dei meno esperti. Le coppie che frequentavano dei corsi di ballo, erano palesi come un brufolo sul naso, poiché la contorsione delle loro schiene, e la trasfigurazione degli sguardi raggiungevano livelli “mistici”. Due tra loro meritavano la palma d'oro della scarpetta da ballo, lui aveva riccioli brizzolati tagliati a palloncino, e baffi, l'altro lui aveva gli stessi ricci( ma possibile?) tinti di un nero profondo come i miei dubbi, entrambi erano a dir poco longilinei e comunicavano tra loro con le dita perché le facce erano opposte e contrarie come da copione. Giravano il valzer, come dervisci turchi, a tal punto che pensai che si scambiassero i lineamenti come in una centrifuga per Dna..perchè la somiglianza era impressionante. Che dire, i Ginger e Fred ci facevano sfigurare, ma c'erano anche le coppie lesbiche tipo Humprey Bogart e Ingrid Bergman, lei alta col capello corto e impomatato con la divisa laterale, vestiva in un completo doppiopetto(che nascondeva il petto ) gessato, e i suoi modi nel condurre la sua dama, erano da vero gentleman! L'unica frizione della convivenza dei generi sulla pista da ballo, era generata dalla tendenza delle coppie di donne al litigio coi maschi anche se gay, quindi quando preso dall'emozione come un bambino allo zoo mi irrigidivo e sbandavo un po' scontrandone una, mi profondevo in mille scuse per tutto il resto dei giri pista, ma se “Rosaria” mi avesse visto le avrei sorriso sedendola sul divanetto, e le sarebbe piaciuto vedermi girare il valzer con uno dei suoi vestiti che quella sera io indossavo nella mia mente, ma i rintocchi dell'orologio, si facevano prossimi al limite impostomi dalla mia fata buona e allora prima di trasformarmi in un gay pelato e peloso, scappai via verso la macchina/carrozza/opel megane e nel tragitto persi la mia....banana di cristallo.....to be continued


martedì 21 settembre 2010

"via gli occhiali" Ge-mi storia banale di un gay speciale cap 16


Il giorno dopo la gitarella meneghina, tutto mi sembrava ancora più piccolo. Piccole clienti, piccola titolare, che piccola era sul serio, ma ora l'avrei messa in tasca, per non sentirla starnazzare, e piccola città.

Forse mi succedeva come può succedere in un amore al capolinea, reggi reggi fino a quando l'incontro “decisivo”, ti cambia la prospettiva. Allora tutto ciò che ti irritava già, ma al quale avevi abbassato il volume fino a renderlo un film muto, diventa assordante e insostenibile!

Gli occhiali con cui guardavo la mia vita a Genova, erano bruscamente volati via dai miei occhi, e tirandoli su da terra, mi resi conto che, se avessi potuto invertire le lenti, avrei preferito. E' decisamente più bello vedere oltre il proprio naso, vedere tutto più grande. Sai, per esempio, che comodità con certi amanti “modesti”?

Ma davvero la possibilità di realizzarsi potrebbe dipendere proprio da questo? Come potevo, infatti pensare di riuscire a sfruttare un potenziale visibile al microscopio? Nessuno sarebbe mai venuto ad “ingrandirmi”, dovevo farlo da solo.

Fino a quel tempo “farsi piccoli” mi era servito ad adattarmi agli imbuti comportamentali a cui mi ero reso soggetto. Diventa questo, ora sì che stai diventando quello,se camminassi senza dondolare allora si che, e quant'altro ripetuto migliaia di volte al giorno, mi avevano convinto a “sparire” in modo da essere meno visto possibile. La lotta tra i mediocri e i migliori era in atto da sempre nel mondo, e nel mio, io l'avevo apparentemente persa.

Ma ormai, essere fuori di casa, e “potenzialmente libero, non bastava, e fare delle scoperte, per quanto sensazionali, neppure, perché io in realtà il mondo lo guardavo dal basso comunque e quindi minime cose mi parevano enormi. Neanche Z la formica era disposta ad accontentarsi di essere solo una formichina laboriosa, e io quel cartone animato l'avevo visto!

Le domeniche pomeriggio, erano meno suine,ora che il mio fidanzato mi guardava come si guarda una tela. Ma lui non era Caravaggio e la mia testa lucida, non era molto Sistina. Mi affrescava comunque, secondo l'ultima lezione alla scuola di trucco. Via libera a ceroni, correttori, e plastiline, dopodiché per struccarmi avrei dovuto chiamare gli spurghi od usare un idrante! Capirete che la mia faccia violacea, a fine lavori, mi rendeva di settimana in settimana, sempre più simile a Bette Davis negli ultimi anni della sua vita, e questo per noi gay era perfetto a livello iconografico.

Ma l'amore è anche sacrificio, anche se, sul braccio questa frase se la tatuano sempre gli stessi, e cioè quelli che hanno sul naso, gli occhiali che” li” rimpiccioliscono!

Un vero gay milanese, come avrebbe affrontato la questione “marito/moglio”? Voglio dire, ce l'avevano anche loro la fissa della “normalità”, o essendo così favolosamente tanti, non se la sognavano nemmeno? Il mio sospetto era che la coppia, in condizioni di svantaggio, fosse un operazione matematica, tipo due è meglio che uno, ma se uno è centomila, allora due non è un po pochino? La matematica dell'amore, come quella dei numeri, mi distruggeva la mente e di fatto non mi aiutava a conoscermi meglio, anzi insinuava in me dei dubbi.

Nel frattempo, l'odore di minestrone tagliato grosso, mi convinceva che aspettare di avere una Mastercard per tutto il resto, era meglio.

Quella sera tornando a casa, la solita telefonata a casa, con il solito dialogo, con il solito genitore.

“ciao, come va?”Io

“come vuoi che vada, hai mangiato?” Lei

“si, si, e tu?” lanciando gli abiti e aggiungendo una busta alla mensola della posta inevasa.

“mi sono fatta, le lumache della bofrost(nota marca di congelati), sono buoni quei prodotti lì” col respiro corto di chi si è già stufato

“ah beh! Almeno non ti stanchi a cucinare” (mai fatto) con lo spazzolino tra i denti e la guancia

“oggi sono stato da Claudio, si stava bene in campagna...sussurro tanto per provarci.

“Vabbè, vai a dormire che domani lavori”...”notte ma”

Click! Spengo la luce, e mi sdraio, il peso delle coperte del mio ridicolo letto singolo, sembra un macigno sul cuore, ....sarà la lana scadente!



















lunedì 20 settembre 2010

"un caffé non può bastare" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 15


Quando volevano fare i fantastici, quelli dell'età di mio fratello, andavano a bere il caffé a Milano. A me, sembrava che andassero a Las Vegas! Mia madre non lo sapeva che suo figlio maggiore faceva questi giri, ma se per questo, non sapeva neanche dei giri che lui faceva con la 500 di mamma sulle alture della città, scendendo a tutta birra per le curve col freno a mano tirato, né delle mie traversate della pineta fino a casa della nonna.

Lei, non voleva sapere, lei non lo poteva sopportare.

Lasciarsi Genova, alle spalle di mattina mi dava la sensazione di “fuggire di nascosto”, e mi sentivo eccitato mentre passando sulla sopraelevata l'odore del pesce impestava l'abitacolo della macchina di Claudio. Il mercato del pesce, è come tutti i mercati del pesce, o almeno come erano una volta, l'unica particolarità di quello genovese, era che stava vicino alla “casa del Boia”, e che tutti lì dentro gridavano. La casa del boia era una casa situata nei pressi di una delle antiche porte della città , ma ormai le uniche teste ad essere mozzate erano quelle delle acciughe !

La sopraelevata, partiva dalla Foce del Bisagno(zona del noto Salone Nautico), e con i suoi altissimi tacchi, calpestava il Porto, sottoripa, Caricamento, fino a congiungersi con la zona di sampiadarena. Come una modella sinuosa e curvilinea, si credeva una top, e guardava dall'alto i tetti dei caruggi, li snobbava piantando i suoi piloni, con il disprezzo dei giovani, per gli anziani, ma ai miei occhi, era solo una battona urbana col tailleur, e le scarpe “troppo alte”.

“prendiamo solo una striscia di focaccia” avevo chiesto prima di partire, l'unica cosa che adoravo della mia città, e che desideravo avere con me.

Luci e ombre, trafiggevano il mio finestrino, e mentre l'odore di pesce spariva, e la focaccia si freddava tra le mani, i miei occhi diventavano pesanti, troppo per rimanere aperti. Da bambino, mi addormentavo puntualmente alla funzione domenicale, la mamma mi scrollava un po' se la testa mi ciondolava. Io volevo vedere la “superclassifica show” alla tv ma non potevo mai vederla tutta perchè bisognava prepararsi per andare lì. Mio padre non ci veniva, e se la guardava tutta.

Continuo ad avere un sonno insistente, quando faccio qualcosa che non mi aggrada.

Ma quella mattina, io ero nella carrozza/zucca/opel mègane, del mio principe azzurro , diretto verso il regno di molto molto lontano, e il sonno non era una via di uscita , quella volta, ma un lusso “principesco”.

La barriera di Milano, era davanti a me quando Claudio mi svegliò, ed era la più grande fila di caselli mai vista prima, e Milano, non dava l'idea di ricevere volentieri delle visite, ma passammo ugualmente. Appena superata la barriera Claudio imboccò con sicurezza la tangenziale che le indicazioni suggerivano come la migliore. La sopraelevata, si sarebbe dovuta vergognare di fronte a tutte quelle “ragazze di buona famiglia”, vestite a festa! Pareva dunque che Milano fosse fatta a cerchio, come i gironi dell'inferno, ideale per il peccato non credete? Comunque il concetto è semplice se la giri tutta ti ritrovi dov'eri partito!

Ma dentro un cerchio ce ne sono altri, e in ogni viale decine di rotonde! Un travelgum sarebbe stato utile in tutto quel girare intorno! “ se continuiamo a girare faremo un buco!” dissi una volta chiaro che ci eravamo smarriti. Ma che ce ne fregava a noi di perderci in quella città meravigliosa?

“ se facciamo un buco, amore sappiamo cosa farne!” rispose Claudio col suo solito buonumore!

A mia insaputa, Claudio aveva ben chiaro le tappe del nostro pellegrinaggio fashion, infatti, parcheggiò la macchina vicino ad una stazione della metropolitana, che ci avrebbe portato in centro.

La prima sorpresa la ebbi proprio nei corridoi che uniscono la linea rossa alle altre due.

C'erano bar, edicole e negozi sottoterra a Milano, e pensai che essendo la città della Moda, forse persino i topi, curavano il look! La verità è che, nessuno a Milano può rientrare a casa senza almeno un sacchetto. Mica come da noi, che se dovevi fare acquisti, lo facevi un giorno solo ed in un unico posto. A Genova chi va in posta va solo lì, e se deve pagare, non compra, se deve versare, non compra per risparmiare! Tant'è vero che nei sottopassaggi al massimo trovavi il tabacchino per comprare le sigarette “ di nascosto”.

Ma il negozio nel quale Claudio mi invitava ad entrare era a dir poco incredibile! Boa di piume copricapi, e scarpe altissime si mescolavano a completi sexy e a piccoli cazzetti a molla che saltellavano sul bancone, era lungo e stretto, ma lo spazio, era sfruttato al massimo! Ecco dove lui aveva preso le scarpe che gli avevo visto in camera, quelle di vernice nera con le fibbia.

Non chiedetemi per farne cosa, ma comprai anch'io un paio di altissime décolleté zeppate nere, e lo feci solo perché nel provarle non incontrai lo sguardo stupito di nessuno, unitamente al fatto che calzarle mi diede un brivido! Con i nostri sacchetti, uscimmo nella zona di Cadorna, per raggiugere a piedi la scuola di trucco. Donne giovani e bellissime si mescolavano con signore raffinate a spasso con cani molto “perbene”, (solo in seguito capii che era la zona delle agenzie di modelle) e nonostante ci fossero mille bar erano tutte magrissime e più o meno bionde. Non potei fare a meno di controllarmi gli abiti, temendo che ci fosse scritto “genovese” a luci intermittenti. Claudio era decisamente più adeguato, con i suoi stivaletti borchiati, e i pantaloni di pelle nera, peccato la statura....Di sicuro comunque, il mio indice fashion si incrementava, poiché le macchie d'olio della focaccia erano ovunque nei miei pantaloni, ma almeno ben distribuite!

I gay di Milano, erano ovunque, ma a differenza nostra, che a Genova tenevamo gli occhi ad altezza “cavallo”, loro gli occhi li tenevano ad altezza “Campbell”, infatti i nostri sguardi si incrociavano solo quanto bastava per “riconoscersi”, ma non si tratteneva oltre. Provai a camminare gurdando così alto, ma inciampai in un dislivello e rinunciai. Pieni di sacchetti, potevano portare la borsa come io portavo la stempiatura “tutti i giorni”. Quello per me fu un vero imprinting! A vevo sempre desiderato poterlo fare, ma quando cercavo di comprarne una a Genova, al massimo trovavo uno zaino, o una ventiquattr'ore ! Loro, milanesi, avevano tracolle, postine, borse tipo bowling, shopper etc... un vero paradiso.

Pagammo l'iscrizione di Claudio e ricevemmo in cambio una lista di oggetti extra necessari al'”allievo” per assurgere al ruolo di “discepola truccatrice” e un indirizzo dove comprare tali meraviglie. “ te la daranno la bacchetta magica?” gli chiesi, “ ce l'ho già!” e mi pentii subito di averglielo chiesto.

Se guardavo le case, mi chiedevo se mai avrei potuto abitarci anch'io, e se i cessi di quegli appartamenti, non fossero piccoli come il mio! Potevo vedere alcuni lampadari e data la grandezza, persino dalla strada, e immaginavo “stanze da bagno” dove per prendere la carta igienica , ti servisse il tapis roulant! Mi scoppiavano gli occhi a fine giornata, e quando chiusi la portiera della macchina, per tornare indietro, mi chiedevo: “ ma come cazzo faceva mio fratello a venire a Milano , solo per bere un caffè?”

to be continued!








venerdì 17 settembre 2010

"la piazzetta" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 14


La piazzetta, era per noi bambini genovesi, il punto di ritrovo per le attività sociali e per il gioco. Niente oratorio, ma soprattutto, in piazzetta si poteva giocare al pallone, a nascondino, al pampano, alle avventure, nessun regolamento condominiale regolava orari o tipi di gioco. Solo gli spazi utili nel parcheggio o nella “curva” determinavano l'uso che ne potevamo fare.

L'imperativo sessista però dominava sottilmente anche il “gioco”, pentolini, bambole alle femminucce, il pallone e le guerre ai maschietti. Scusate e io?

Come diamine potevo giocare al pallone se il pentolino si bruciava nel “Dolceforno”? O come pensare a vestire una bambola per il ballo, se la banda nemica ci attaccava?

Scendevo a giocare con la gioia dell'ora d'aria, perché io a casa, non potevo giocare in camera. Per carità avevamo un giardinetto, dove mi ruppi la testa dall'entusiasmo, e che divenne off limit quando un giorno mia madre mi trovò sotto il salice piangente preoccupato per l'albero, come vi ho già raccontato, e avevo anche uno sgabuzzino di un metro e mezzo per tre, con “finestra di fronte”, dove un mobile giallo, era stato pitturato talmente tante volte, che non si chiudevano più le ante. Di conseguenza, dovevo essere fortunato...ma io mi sentivo come Harry Potter nel sottoscala dei parenti Babbani.

Allora non festeggiavamo più il Natale, perché mia madre si era convertita ad una religione più economica di quella cattolica, niente compleanni, niente capodanni, niente di niente, i regali me li facevano per “buona condotta”...ma questa è un altra storia.

Delia e Federica, erano le due bambine della mia età, Alessandro, Giuseppe, Alex e Marco detto marcolino, (perché non lo so, ma era sempre isterico e con una voce stridula che lo rendeva simile a paperino) i bambini. Giocare con i ragazzi mi piaceva, ma dalla partita a pallone ero escluso, in quanto, con la mia gambetta sifula non ero un buon attaccante, allora decisero di farmi portiere, ma io raccontavo pettegolezzi appoggiato al palo, perché avevo capito “portiera”, quindi finì la mia carriera sportiva. Al contrario di ciò che facilmente si pensa non è che con le bambine andasse meglio, come può essere divertente giocare al negozio con i sassi, se quando li vendevo per patate mi dicevano “ma sono zucchine?” .“ Ma sono sassi, cretina” rispondevo stizzito, “e poi hai le gambe più storte delle mie, ma io metto i pantaloni perché mi stanno meglio che a te!”.

Nei ruoli facevo confusione, ma non venivo preso in giro, come succederebbe oggi, noi infatti ci giudicavamo in base alla capacità di svolgere il compito assegnatoci dal gioco. Il mio preferito?

L'esplorazione dell'intercapedine! Il nostro caseggiato era di 5 piani, e dalla curva sopra i tombini, c'era la porta dell'intercapedine che percorreva al buio, tutta la lunghezza dell'edificio, tra rivoli schifosi ragnatele e tubi delle condutture, un vero tugurio. Attraversarlo alla luce dei fiammiferi, era il gioco. Se non ti cagavi addosso prima, e raggiungevi la porta d'uscita dall'altro lato, avevi vinto.

Lì non contava essere maschi o femmine, lì contava il coraggio di vincere la paura del buio, ed io ero imbattibile! Mentre gli altri o le altre si perdevano a guardare le schifezze che avevano intorno, io, come una novella Lara Croft, puntavo la luce verso il basso di lato, così seguivo la strada e vedevo gli angoli delle svolte fino all'uscita. Mi guadagnai molto rispetto con quel sistema. Ecco perché, molti gay hanno ruoli professionali di spicco, da grandi. Noi cominciamo da piccoli a “dover eccellere” in qualcosa, in modo da ottenere una sorta di “bonus”, un'immunità , al televoto di un pubblico sovrano, che sentiamo già considerarci con un segno meno.

Ma c'erano altri giochi divertenti tipo, rigori sulle saracinesche di lamiera dei garage(che stavano sotto gli appartamenti), guerra con le nespole marce( di cui riutilizzavamo i quattro semi come proiettili delle cerbottane), e appiccica i topi col vischio!

Le mamme degli altri erano più o meno come la mia, informi, loquaci o mute poco importava, e vestite per casa,( cioè, con vestaglie o simili), ma quando uscivano per andare dal medico, te ne accorgevi. Passavano dal portone, profumate con profumi troppo olezzati, che mal si accompagnavano all'odore di naftalina dei vestiti “buoni”, l'oro degli anelli era giallo, e il numero dipendeva dalla graduatoria del marito in ferrovia(erano tutti ferrovieri i condomini), le calze rigorosamente contenitive color carne, i cappotti col collo di diversi animali più o meno prestigiosi o pelosi, curiosamente simili alle caricature Drag degli spettacoli gay.

La mamma, è un altro tasto dolens nella controversia sull'induzione all'orientamento sessuale dei bambini. Secondo molti psicologi delle vecchie scuole, essa riveste un ruolo condizionante se non conscia della sua responsabilità al riguardo.( quelli delle nuove, si occupano di guarirci non potendo più fare diversamente per guadagnare lauti onorari da altrettante ”mamme colpevoli”)

Non deve essere oppressiva, seduttiva, normativa, castrante, o contraddittoria. Ma cosa resta in una donna se gli togli tutto ciò?

La signora F. mamma dell'Alessandro però era diversa da tutte le 19 casalinghe dell'intero palazzo. Lei aveva ancora la forma di una donna, lunghi capelli mori, un viso da diva del cinema con acquosi occhi verdissimi, e una abbronzatura atomica perenne. Lei dal dottore doveva andarci tutti i giorni, perchè io me la ricordo sempre vestita a festa con tacchi altissimi e piccoli strangolini di seta legati al collo Quando mi salutava ,chinandosi su di me, mi sentivo come la pastorella di Fatima, pronta a ricevere altro che i tre segreti! Le altre comari compresa la Maria Luisa, ne parlavano male, dicevano che bevesse, e io non ci trovavo nulla di strano. Se una, è sempre poco vestita, deve avere caldo, pensavo, e se ha caldo dovrà pur bere!

Comunque Alessandro non era un bambino gay, eppure lei aveva tutte le caratteristiche di una madre bla bla bla secondo le teorie psicologiche allora in voga. La mia, al massimo avrebbe potuto indurmi al suicidio, al cattivo gusto, o persino alla santità ma di certo non all'omosessualità per desiderio di emulazione edipica. Io già da piccolo volevo solo essere favoloso, non una donna, ma un uomo non obbligato a ripassare da dove era uscito, dopo nove mesi di attesa, da parte del suo allora esiguo pubblico, senza per questo, dover passare una vita a nascondersi!

Per fortuna, c'era la nonna Verdina, la mamma di mia madre, che mi adorava così com'ero e mi permetteva di giocare a casa sua con la scatola dei suoi bottoni “gioiello”. Quella era la cosa più gay che potevo fare, ma ci giocava anche mio cugino, che diventò eterosessuale e depresso....vai a capirci qualcosa! Nel garage col papà ci andavo di rado, perché puzzava di benzina e i miei adorati sandaletti di gomma blu , si sarebbero sporcati di grasso, ma ci andavo a bere dal rubinetto se avevo sete mentre ero in piazzetta.

Vissi in quegli anni, un infanzia felice, imparai a ficcarmi il manubrio della bici nello stomaco, a cadere dai pattini sulle scale al grido di holiday on stairs, insomma a fare le cose di un bambino normale in modo speciale. Un fischio dalla finestra, segnava la fine della mia ora d'aria, e il ritorno alla mia stanzetta/sgabuzzino, dove guardando la finestra mi dicevo “ Se la apro e volo non torno più”!....to be continued!



giovedì 16 settembre 2010

"api regine,cicale e fuchi" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 13



I mesi passavano, e io ricevevo ogni mese un orsetto trudi della collezione streetbears, (in tutto 6), dal mio fidanzato. Sapendo che la collezione finiva al sesto, pensai di dovermi sbrigare.

A quel tempo, tutto il mio essere era proiettato nel desiderio di “rifarmi una famiglia”, e secondo la legge di attrazione, le cose si disponevano esattamente così.

Cosa mi portava verso lo stare in coppia? Perchè, invece, non assaporare fino in fondo la tanto agognata libertà?

Il vantaggio della diversità, è anche quello di avere più opzioni di vita possibile, rispetto alla condizione che ci vorrebbe tutti obbligati a riprodurci, pertanto a fungere da strumento caduco di diffusione dei nostri geni, abbiamo infatti grazie al limite imposto da una natura bizzarra o saggia, non saprei, il privilegio di pensare alla nostra vita come ad una esplorazione “non finalizzata.” Senza le pressioni esterne che riceviamo, questo sarebbe un modo più lussuoso di vivere, a mio avviso, ma la “colonia umana” che tutti ci comprende ma non tutti ci accoglie, condiziona tale libertà, spingendoci quindi ad una qualche definizione. Per tale motivo, ho individuato alcune tipologie di gay, in relazione al bisogno di coppia, o alla sua negazione totale. La mia osservazione della natura, che imprudentemente mi aveva “girato le spalle”, e l'amore per le favole, me le fanno immaginare così.

  1. Le formiche, sono gay “operosi” di aspetto banale, che “militano” nei gruppi culturali e nei movimenti sociali. Organizzano modeste colonie e condividono i frutti del proprio lavoro. Generalmente impostano rapporti durevoli e solidali non senza divagazioni. L'atteggiamento è laconico,tendente alla pallosità.

  2. Le cicale, sono gay “frivoli”, non amano riunirsi in colonie, ma sono parassiti paganti dello stesso nido, dotato di ogni confort, compresi saune e bagniturchi, e salette relax. Di aspetto sfavillante, si contemplano l'un l'altro per perfezionarsi, e raccogliere lusinghe individuali. Dichiarano l'intenzione di avere una relazione, ma la rifuggono appena possibile, in quanto affetti dalla sindrome di “c'è in giro di meglio”.L'atteggiamento è sempre un po' eccessivo.

  3. Le api Regine, sono gay non sempre appariscenti nell'aspetto ma camaleontici e poliedrici. Non si riuniscono in colonie ma si incontrano tra loro spesso, amanti come sono delle comunicazioni. Costruiscono un nido accogliente e funzionale che proteggono da sguardi indiscreti, dove consumano ripetuti accoppiamenti tra una migrazione e l'altra. Amano circondarsi di attenzioni, e sanno essere protettivi. La coppia non trova posto in maniera durevole durante l'età “fertile”, e viene di solito rimandata alla tarda maturità, dove poi rischia di essere sostituita dai viaggi l'atteggiamento è “regale”.

  4. I fuchi, sono i gay a cui credo di appartenere. I fuchi, non sono fichi. I fuchi hanno la fissa di farsi una famiglia, e per tale motivo sono sempre disponibili a fare “nido”e ad esserne poi sfrattati. Appartengono ad una categoria migratoria e nomade, capaci di grandi spostamenti per raggiungere il proprio scopo. Dopo l'accoppiamento, diventano quasi fastidiosi e pigri(capirai dopo tutto quel girare in cerca) in quanto la coppia decreta di solito l' esaurimento del proprio scopo. L'atteggiamento è implorante !

  5. Le zanzarine, sono gay giovani, o immaturi che si muovono in sciami annuali e rumorosi attraverso le vie del centro, ronzando slogan e mostrando pubblicamente il “pungiglione, per poi sparire nel resto dell'anno dietro a cespugli nei parchi pubblici .

    L'atteggiamento è noioso e l'ideale di coppia promiscuo.

Che siate formiche, cicale, api regine o fuchi, tutti siamo più piccoli dello spazio a nostra disposizione, pertanto la mancanza di confini può rendere il territorio vasto e per lo più inesplorato. Io, non avevo l'animo della giovane marmotta, inoltre, pare che gli esseri umani sprechino gran parte del loro tempo sulla terra, nel compensare il senso di perdita provato prima. Non feci eccezione alla regola, quindi volevo dimostrare, che una coppia “diversa” si poteva formare con ugual dignità rispetto alle coppie cosiddette “normali”. Questo non aveva a che fare con l'amore, ma con una spinta idealistica, e una certa dose di lotta sociale a noi genovesi tanto cara.

Claudio, era una persona amabile, e provai per lui un sentimento onesto, ma rappresentava anche il “mezzo” tramite cui ottenere conferma del mio valore, il pensiero magico poteva essere questo “se lui accetta di vivere con me, allora io valgo davvero, e la mia famiglia si sbagliava”.

La volontà di dare torto a chi mi aveva imposto un “segno meno”, pesò non poco sugli eventi, forzandone il corso.

Lui, dalla sua parte, probabilmente faceva pensieri simili, e siccome la suddetta legge di attrazione è infallibile, i nostri pensieri crearono una realtà oggettiva, materializzarono un progetto, che dava a ciascuno di noi il proprio tornaconto!

La decisione di frequentare quella scuola, era il suo alibi per giustificare l'uscita da casa, io la sua sicurezza nel farlo. I momenti di grande disagio che vivevo con la mia famiglia, mi spingevano a desiderare di non incontrare più nessuno. Nessuno che col suo sguardo mi accusasse, o mi compatisse. Mi dicevo che se me ne fossi andato, il tempo avrebbe reso per tutti meno doloroso il suo passare, per l'ennesima volta caddi nel tranello di essere io a risolvere il problema. La convinzione di averlo creato, sottilmente si era radicata e faceva il suo lavoro.

La caratteristica principale di Claudio era la “travolgenza”. Come nessuno, lui sapeva dare l'incerto per certo, ed in questo possedeva più potere di quanto ne immaginasse.

“Bambi,( per bambino) domenica andiamo a Milano, devo portare i soldi dell'iscrizione, e ci facciamo un bel giretto!”- mi annunciò con entusiasmo.

Di entusiasmo ce n'era ben poco nella cucina di sua madre, dove lei e la zia Tina non contenevano le lacrime. In fondo, i ruoli tra figlio/genitore, qualche volta si invertono, e loro sembravano bambine abbandonate dall'unico oggetto del loro amore e ragione di vita.

“ghe lù dito, mia Cloudio, aspeta in po..”- “ ma ti sé, u cria e alua ghe diggu vanni dunde t'oi “( glielo detto, Claudio guarda aspetta un po', ma lo sai, lui grida, e allora gli ho detto vai dove vuoi)

mi sussurrava in cucinino, mentre la consolavo. “Quellu garsunin, ne fa muì”( quel ragazzo ci farà morire) aggiungeva la zia, mistificando la paura con una finta rabbia. Io, non sapevo proprio come mitigare quella pena, perché non l'avevo mai vista negli occhi di mia madre, quelle donne, erano impaurite non contrarie alla felicità del figlio, ma impreparate al cambiamento. Sembrava che nulla avesse potuto placare l'irrequietezza di quell'anima mite, a nulla era valsa l'accettazione dei suoi genitori, i vestiti da donna che la zia Tina stessa, gli confezionava, ora per carnevale, ora per uno spettacolo, a nulla l'accogliere in casa, il suo compagno, e accettare di saperci amanti rumorosi in camera sua, con il loro permesso. Ma l'accettazione e l'apparente resa ai suoi desideri colorati, e la gioia di saperlo felice con qualcuno, erano parte del giusto amore incondizionato di una vera famiglia. Per tale motivo, se ai miei occhi, lui mi sembrava ingrato ed esigente, di fatto non lo era. Lui voleva che loro fossero fieri di lui, e anche lui sentiva di doverli rendere tali con qualcosa di più della “normalità”, mentre io non trovavo proprio il modo di farlo.

“Dai, bélin non fate così!” ci ingiunse un Claudio trionfante, “quando sarò diplomata, a te zia, ti trucco da troia, e a te mamma da diva di Hollywood!”, poi fece urlare una con un pizzicotto, e abbracciò teneramente l'altra, mentre io piangevo di gioia.

Questo era Claudio in quei giorni, croce e delizia di noi che l'amavamo!

Passammo il resto della giornata, lì nella vigna a far progetti, fino al tramonto dove milioni di lucciole ci circondavano tra i tralicci. Davvero non potevo immaginare niente di più romantico del cielo stellato e della terra pulsante di altrettanta luce, luce che, rendeva i contorni dei nostri corpi sfumati in un tutt'uno!”ti amo, Bambi”.mi sussurava insieme a promesse.

Forse l'amore è altro? Non lo so, a me sembrava molto simile alla sensazione di pienezza che cercavo, e anche se Claudio aveva la bazza, era metà di me d'altezza, e pieno di orpelli, io lo vedevo “azzurro” come nessuno. Non ci restava che comunicare alla Mari la lieta novella.








domenica 12 settembre 2010

"poi ti ci abitui" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 12


Le cose, cominciavano a mettersi per il verso giusto, pensai, quando Claudio si faceva sempre più intenzionato a frequentare quel corso. Nel frattempo, un altro pellegrino aveva trovato accoglienza a casa della mari, un gattino piccolo e pezzato! Nel tentare di dargli un nome, io e la mari ci interrogavamo su quale affibbiargli. Dato che era bianco con piccole macchie grigie, e una spruzzata di rosso...decidemmo di chiamarlo Aglio, ma mica si poteva gridare “aglioooooooo “ come niente fosse, a Genova, infatti, avremo rischiato di trovarci alla porta, un nugolo di casalinghe convinte di una vendita a prezzi stracciati. A Genova giravano spesso i camion della frutta col megafono, o l'arrotino, o l'impagliatore di sedie, ...insomma per far palanche ci dava un gran da fare! La genialità della mari non si fece attendere e decise così, di chiamarlo aglio in inglese “Garlick”. Suonava proprio chic, quel nome, anche se il poverino, non sembrava in formissima.

Una sera, suonò il telefono e la mari sconvolta disse: “ C'è garlick che sta male, continua a cadergli la testa per terra”- “arrivo subito!” risposi allarmato.

L'amore per gli animali, ci univa profondamente, più erano conciati più sentivamo di dargli una mano, del resto da ragazzo, ne avevo soccorsi, allevati, e salvati un bel po'! C'era una pineta a ridosso del mio caseggiato, non ancora disboscata per costruire case, e lì tra gli orti abusivi, e gli alberi da frutto spontanei, io ci passavo le giornate intere. Non era raro imbattersi in cuccioli abbandonati, talvolta, dalla stessa madre, perché malati, e io me ne facevo carico insieme ad altri.

Credo di aver toccato gatti col cimurro, la rogna, la congiuntivite purulenta e chissà che altro, ma non mi presi mai nulla. Ironia della sorte, la mia missione di “madre surrogata”, mi consentiva di elaborare degnamente il mio vissuto di abbandono, e forse per questo, tutto il mio essere, sembrava protetto dal rischio di ammalarsi, o più semplicemente avevo culo!

Claudio mi passò a prendere al volo con ancora Rettore che urlava “Donatella non c'è “ dalle casse della radio, e a “donatelle spiegate”..volammo dalla mari.

Ci aprì in lacrime, e confusamente diceva qualcosa. Mi precipitai in cucina (perchè l'emergenza non mi ha mai paralizzato, fortuitamente per me)e trovai il piccolo garlick accucciato sulle zampine in una posa innaturale, la sua enorme testina di cucciolo non si soteneva sul collo, e respirava affannosamente.

Claudio invece, in queste situazioni diventava un one men show! Lo incaricai di recuperare il numero di un pronto soccorso veterinario aperto 24 h, e di telefonare immantinente. “pronto, buongiorno senta, ho un cucciolo di due mesi che non sta in piedi”- “Si, che lo so che è piccolo, ..come dice?..no non vorrà mica che lo metta nel girello??? Intendo dire che sembra Rettore impiccata sul bidet....ah lo porto subito!!! Sa che ha una bella voce?

“click”.

“ma sei cretina?” lo rimprovero io! “....E, se l'aspetto è come la voce, dobbiamo correre, mi ha detto che tra mezz'ora finisce il turno”- “accendi la macchina belina”, lo incalzai!!!!!!!

Mettemmo garlick in una copertina, la mari in un sacco nero..ehm nel suo cappotto, e ci avviammo!

Due gay e una donna al bivio, in una lotta contro il tempo, sfrecciavano nella notte genovese, con il fazzoletto bianco fuori dal finestrino. In realtà di bianco non avevamo nulla, e il suggerimento di sventolare il micetto, fu drasticamente respinto, la mari aveva le mutande nere col buco, io non le avevo. Sventolammo una salvietta umidificata, che tenevamo per il sesso in macchina!

La sala d'aspetto era desolata ma per fortuna vuota, e nella piazza Palermo, lasciammo la macchina su un aiuola. La mari, fu trascinata al grido di ammazza la vecchia, verso la clinica, dove un dottore mozzafiato ci accolse in sala visite. La tentazione di spogliarci, l'abbiamo avuta tutti e tre, ma non c'era il tempo per giocare, e il fco dottore aveva già il termometro in mano.

“Non preoccuparti piccino, fa sempre male la prima volta, ma poi ti ci abitui” diceva Claudio, ormai trasfigurato in sexy infermiera, lanciando un messaggio ben poco subliminale al medico, il quale, dopo aver osservato la temperatura ruppe il silenzio ed emise la sentenza.

“Gli faremo una iniezione di antibiotico a largo spettro, ma non vi garantisco che ce la faccia. Diciamo che se supera la notte ha buone probabilità, tenetelo al caldo nel frattempo.”

“grazie dottore, so come sdebitarmi, dissi, ma sarà meglio che la paghi, quant'è?

Tornammo più mogi di quando eravamo partiti, erano circa le due del mattino, e l'adrenalina era ormai presente solo nella canzone che la Giuni Russo, cantava alla radio....noi sfiniti e angosciati.

Claudio ci accompagnò a casa Maggi, e data l'ora, decisi di fermarmi lì a dormire. La casa era silenziosa, i ragazzi a dormire, l'ingegnere in trasferta.

“Mari gli facciamo una cuccia?” chiesi, “Senti, mettiamolo nel letto.”mi rispose fiaccata.

Io non riuscivo a togliere gli occhi dal micino, così pensai che se nel letto eravamo in due, lo avremo scaldato di più. Tra le mie esperienze estreme avrei annoverato anche quella di dormire col gatto agonizzante(che data l'iniezione, somigliava a un dromedario coi baffi)e una balena neanche tanto azzurra!

Nello sfondo, una donna biologica di imprecisata forma, un omosessuale (che si consta esserlo, in quanto sdraiato sul bordo opposto del letto), e una piccola gobba di coperta tra loro. Rumore di chiavi, luce, viso conosciuto...cazzo Enrico!

Il bell'Enrico, tornava dalla notte brava e siccome la camera della mari era di fronte all'ingresso, e la porta aperta, appena alzò gli occhi mi vide nel letto con sua madre. “posso spiegarti ….”- feci con la lingua felpata dal disagio, “ C'è il gatto....era tardi,...a dormire....tuo padre” aggiunse la mari.

“contenti voi” chiuse Enrico entrando nella sua stanza.

Morfeo si impossessò di noi verso le tre, lasciando Eros chiuso nell'armadio. Alle prime luci dell'alba, dopo aver chiesto alla mari se, durante la notte, le avessi toccato il culo, e ricevendo una risposta negativa, con l'aggiunta di un purtroppo di troppo, notai che la gobbetta nel letto si muoveva! Saliva dai piedi verso il bordo del letto, e dal lenzuolo, spuntò un capoccino peloso con gli occhi spalancati ,-“miao!”

Urlammo di gioia, io virilmente, e la mari gutturalmente e ci abbracciammo......proprio mentre l'Ingegnere girava le chiavi nella toppa della serratura.

To be continued




mercoledì 8 settembre 2010

"la fata dentina" Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 11


In quei giorni, l'ego del mio fidanzato, lo portava a contemplare nuove possibilità, come ad esempio, quella di frequentare una prestigiosa scuola per truccatori a Milano. “diventerò la Gil Cagnè-tta, di manesseno” esclamava trionfante, agitando in mano la brochure dei corsi.

Io lo guardavo ammirato perché l'amore si sa, rincoglionisce! Lui non chiedeva l'opinione dei suoi, più semplicemente, gli comunicava le sue decisioni!

Già, Milano. Per noi gay genovesi, quella città era come l'America, un luogo dove tutto è possibile, lì pulsava la moda, la vita notturna era rutilante e varia, ed essere gay....un valore aggiunto!

Le migrazioni di “principesse “ liguri, erano già cominciate diversi anni prima.

Per esempio ricordo quand'ero adolescente il caso dell'Alessandro M. Il mio radar gay, aveva cominciato a suonare dalla prima volta che lo vidi al capolinea dell'autobus!

Ma la conferma me la diede una ragazza, che filava mio fratello. Lei era decisamente brutta, ma con me era gentilissima, e quando scendevo in piazzetta a giocare, la chiamavo da sotto il suo balcone e lei usciva a fare due chiacchiere con me. In cambio di una foto di mio fratello, mi regalò una bambola di pezza, che avevo visto in camera sua. Era figlia unica e nel quartiere la sua famiglia era considerata sopra le righe. Suo padre era un omone altissimo, e poteva fare paura, ma era buonissimo e schivo in realtà, e la irsuta peluria bianca, di cui era ricoperto davanti e dietro in egual maniera, lo rendeva simile ad un orso polare. La signora Amelia, invece, molto più brillante del marito, e con un tono di voce impressionante, portava sempre un rossetto rosso su bellissimi denti bianchi, e si depilava il mento sul balcone con la lametta. Loro mi volevano bene, e a me piacevano un sacco. Nonostante la differenza di età, tra me e la figlia, noi riuscivamo a comunicare perfettamente.

Comunque, lei mi parlava spesso del suo amico Alessandro, che era andato a lavorare a Milano, nella moda, e di quanto, una volta finito il corso di figurino che frequentava, le sarebbe piaciuto fare altrettanto. Avere un amico a Milano, era troppo chic, e lei ne andava fiera.

Così, grazie alla mia “spia”, riuscivo a sapere quando lui arrivava, e ad essere guarda caso, proprio vicino al portone di casa sua! Gli appostamenti erano un arte in cui ero abile da ragazzo, lo scambio di sguardi mi elettrizzava, ed era una carica sufficiente per sopportare il resto delle mie giornate noiose. “un giorno lo conoscerò” mi dicevo, per me lui, era come il divo di Hollywood, per una ragazzina. Ormai, avevo già i denti definitivi, ma rivolsi un pensiero alla fata dentina, ed espressi comunque un desiderio.

Mia madre, aveva capito qualcosa, e cercava di tamponare con divieti inutili, le mie attività. Credo di aver lasciato la scuola, qualche anno dopo, perché quel genere di studi, credevo mi allontanasse dal mio obbiettivo! Quello di imparare un mestiere, che mi permettesse di raggiungere quella Terra Promessa di nome Milano....ungiorno!

Io feci due anni di superiori, poi mi ritirai, e lavorai un po' dappertutto, ma non mi piaceva fare quei lavori, così per fare contenti i miei mi iscrissi al corso regionale pincopallo, dove conobbi l'Armanda e la Cinzia, lo superai col massimo dei voti, inutilmente, ma finalmente ebbi l'occasione che cercavo! Trovai un lavoro per caso, in uno squallido ufficio, come impiegato amministrativo, e così convinsi mia madre a comprarmi il motorino, approfittando dei soldini guadagnati, e della sua stanchezza. Eravamo sfiniti entrambi, dall'incompatibilità delle nostre nature, e quella volta vinsi io! Mio padre, ansioso com'era, e data la mia distrazione patologica, non senza ragione, si dichiarò contrario all'acquisto, ma io mi ero lavorato la mamma a dovere, niente stranezze, niente gaiezze, un lavoro vero di cui fingevo entusiasmo, furono sufficienti a farle credere che mi fossi “raddrizzato”, e a sganciare la ricompensa. Allora si andava senza obbligo del casco sui cinquantini, e io col mio “ciao Piaggio”, attraversavo la città per andare a lavorare.

La via Sampiardarena era trafficatissima, e pericolosa poiché piena di traverse da cui sbucavano automobili all'improvviso. Alle due del pomeriggio di un giorno qualsiasi, una di queste mi centrò in pieno scaraventandomi da qualche parte...in condizioni disperate. Rumori di ambulanza e un vociare agitato intorno a me ...poi più nulla!

Mia madre, si trovava a fare la spesa, quando si vide venire incontro la nostra vicina. “ Buongiorno signora Traverso!” - la salutò contenta, non notando che la signora era viola in faccia, continuò, “guardi che bel portapane che ho comprato”.- ancora silenzio e rossore. La nostra vicina non era quel tipo di donna che parla molto, ma tacere del tutto non poteva essere normale,” venga, maria, si sieda un attimo” disse finalmente. Fu solo piegandosi per sedersi, che mia madre notò che la signora Traverso non aveva ai piedi le scarpe, ma le ciabatte! “cos'è successo?” disse gelata mia madre, cominciando ad intuire, “Niente, fabrizio è caduto col motorino, ma niente di grave..” mentì la signora, “magari però l'accompagno dal lui!”Non tornarono a casa, e raggiungendo l'ospedale e il reparto di rianimazione, mia madre non trovò più il suo portapane tanto bello.

Mi scoccia ammetterlo, ma io non provai nessuna delle sensazioni meravigliose che alcuni, usciti dal coma, descrivono, nessun tunnel n, nessuna luce, nessun volo extracorporeo, ma per certo non ricordo di aver provato dolore.

81 3591, 868331, e una fila di altri numeri mi uscivano dalla gola, senza un motivo apparente, quando dopo due giorni circa tornai ad essere cosciente.

Non vi annoio con la lista dei danni, ma girandomi verso le sbarre metalliche del letto, vidi la mia faccia, e siccome la lingua mi stava dicendo che c'era qualcosa di strano, aprii le labbra per vedermi i denti, o meglio quel che ne restava, e piansi.

Mio padre mi fu vicino per una notte intera, (forse per far riposare sua moglie, o forse perchè a lei non andava di farlo), non c'era rabbia nei suoi meravigliosi occhi verde bottiglia, questo lo so per certo, e amorevolmente, con tocco garbato mi sistemava il cuscino, perché mi faceva male il collo.

“mi dispiace”, credo di aver detto fischiando a causa dei denti rotti.

Mia madre non me la ricordo, ma quella non sarebbe stata l'unica volta in cui la sua presenza in ospedale, risultava inutile per me, se non gravosa. La sua freddezza, già nota, divenne gelo autentico misto a disprezzo, il tocco delle sue mani, trasmetteva fastidio e non sarebbe mai più cambiato! Forse, era arrabbiata con se stessa per avermi preso il motorino, ma di fatto, era me che non tollerava più, io dal canto mio, mi ero abituato a non averla mai avuta.

Per fortuna c'era il tecnico di radiologia!

Io ero il più giovane del reparto, e venivo coccolato da tutti, in particolare da Antonio, il tecnico per l'appunto. Mi portava ogni giorno, un regalo diverso, un giorno un sasso colorato, un altro le bacchette cinesi, e mi raccontava dei suoi viaggi in Oriente! Gli antidolorifici, mi rendevano torpido ma ero felice quando, aprendo gli occhi, lo trovavo lì. Avrà avuto almeno il doppio dei miei vent'anni, i capelli biondicci e la pelle rovinata dal sole, mani grandi e delicate e due occhi azzurri limpidissimi. Mi andava il cuore a mille, ma speravo non si vedesse. Di lui, non seppi più nulla una volta dimesso con le cicatrici e i denti nuovi. Magari era un angelo gay! I suoi regali sparirono con il suo ricordo, probabilmente per mano della mia genitrice.

Io in ospedale c'ero già stato ad otto anni, per allungare il mio tendine d'Achille. Al Gaslini di Genova, l'ospedale dei bambini. Mia madre a quell'epoca era in camera con me, e dei simpatici scarafaggi, che la rendevano cattiva con le infermiere! Nel reparto i bambini c'erano, ma io con la mia gambetta corta ero uno spettacolo in confronto, un bimbo con le dita annodate, un paio di idrocefali, sette nani, mi convinsero a sentirmi biancaneve, con tanto di matrigna! Incredibile come molti anni più tardi, qualcuno mi trovasse attraente vero? Ma la mia fatina è stata generosa con me! Per una gambina sifula, in cambio mi donò la gaiezza e un paio di genitori, e per i miei dentini, mi regalò di diventare parrucchiere. Mestiere perfetto per i miei intenti non credete anche voi? Forse però, a pensarci bene, non era bella come la immaginavo!

To be continued


martedì 7 settembre 2010

"metti una sera che,,," Ge-Mi storia banale di un gay speciale cap 10



Erano tutti usciti, e io e la mari ci godevamo l'eco delle fusa dei suoi gatti altrettanto contenti di non doversi rifugiare in qualche pertugio, per sfuggire al consueto traffico umano. Caffè, sigaretta in pace assoluta, e parlando sottovoce pensavamo al menù.

Non era mai un problema il cibo a casa Maggi, perché le manine sapienti della padrona di casa si tuffavano abili in volute di farina, che diventavano torte salate, focacce o farinate in un batter d'occhio. Forse cucinare non era per lei una passione, ma una logica conseguenza dell'amore. Chi ti ama ti nutre, senza eccezioni, materialmente e moralmente, e lei, anche se stanca morta, non ti negava mai il suo amore! Inoltre lo faceva con grazia, con ironia, con nessuna preoccupazione per la quantità dei pellegrini accorsi al profumo della tavola. Un amore fragrante di maggiorana, e fresco come un sorriso.

Enrico il bello, tornava da fuori, e salutò sua madre con un flebile “ciao, mà”! Era poco loquace, ma un vero rubacuori, solo che quel pomeriggio sembrava corrucciato.

“che ha?” - chiesi, “Mah, c'è una della scuola, che gli si è appiccicata, e non chiedermi perché, non riesce a farsi mollare, lo sentivo raccontarlo a suo fratello”, rispose la mari, aggiungendo “tra l'altro è strano perché di solito è piuttosto brusco se non gli và! Certi vaffa, al telefono li sento fino in cucina!”.

“Enrico, quella maglia sarebbe da lavare se ti decidessi a toglierla!”- “Non rompere” la risposta.

“Allora mari, claudio viene per le otto, dopo il negozio, sono curioso di sapere che ne pensi” dissi stupidamente preoccupato che potesse non piacergli “Dimmi una cosa, tu sei felice?” - “non saprei, ma sto bene con lui”. Le domande sulla felicità mi hanno sempre confuso, non ero abituato a chiedermelo, né sapevo fino ad allora cosa fosse per me.

“ci sarà anche mia madre, Roberto la porta qui tra poco”. Mi prese un colpo! Va bene i figli, il marito già mi pareva un miracolo, ma pure la nonna! Sarebbe stata sufficientemente forte di cuore?

La Tilde era un donnino, magro, che la vita, insieme ad una bella artrosi,e una discreta collezione di corna, avevano lievemente piegato. Sposata al sciù Mennella detto Beccia,(sinonimo dialettale di dongiovanni), ad una riunione di condominio, qualcuno lo propose come consigliere, ma avevano un vicino che faceva Besca di cognome, e per contrastare l'entusiasmo degli astanti, e defilarsi dalla carica, il papà della Mari aveva esordito così ”Ma femmu consigliere lì u sciù Beccia!”,(ma perché non facciamo consigliere il signor besca) e la Tilde, che era timida come un riccio, gli sussurrò “Besca, si chiama Besca!” aggiungendo con un sottile risentimento per le scappatelle del marito “U sciù Beccia tei ti”(il dongiovanni sei tu!). Quando la mari partì per Londra, non fu l'unica a far la valigia, suo padre, aveva avuto la brillante idea di fare lo stesso, lasciando la povera Tilde sola con i suoi pensieri.

La cena si fece, e fu come la vita, mai come te l'aspetti! Cladio era caduto nel suo profumo preferito, rendendo la pasta al forno, una pasta N°5, la passione ci travolse in cucina, ignari del passaggio della Tilde che disse alla figlia “Mia mari, nu saivo che anche i bulicci se bagian in ta bucca”(guarda maria, non immaginavo che anche gli omosessuali, si baciassero sulla bocca), Manuel consigliò ad Enrico di telefonare alla ragazza appiccicosa, e con una scusa propinarle lo show famigliare, assicurandogli l'effetto desiderato, la Betta, era “antropologicamente” euforica, e ridacchiava in continuazione, il padrone di casa parlava ma il suono delle parole ricordava pitupitumpa, e lei, la mari, guardava il mio futuro fidanzato con tenerezza e approvazione. “Non ti raggiungerà mai mentalmente, ma il suo cuore è sincero, come il suo eccessivo uso di orpelli, sarete baraccone e felici insieme”!

Ebbi la benedizione che cercavo, e io e claudio quella sera ci fidanzammo “dal basso”.

Che relazione c'è, tra il sesso fra due persone e il loro legame? Un denominatore comune nei gay, è la forte carica possessiva dei rapporti di coppia. Non so se questo, dipenda dall'infiltrazione di elementi narcisistici in un rapporto tra “stessi”, o se le pressioni esterne, esigono una maggiore coesione. In ogni caso la fisicità nelle nostre coppie è vissuta generalmente, come conferma del sentimento, e la si vive con grande intensità. Io, di intenso, avevo solo l'imbarazzo di un corpo sgraziato e di un educazione pudica e repressiva, quindi credo che il mio fidanzato abbia fatto l'amore da solo per un bel pezzo. Ma nonostante questo, la sua pervicacia nel continuare a desiderarmi, mi spinse ad osservarmi con i suoi occhi(i miei li tenevo chiusi) mentre mi restava accanto nel mio labirinto. Il senso di appartenenza trovò terreno fertile per crescere e questo rimase per me indelebile. Il senso dell'unicità di ciò che accadeva tra noi, era ciò che lo rendeva importante.

Non era di certo la mia prima volta, ma come ebbi modo di capire poi, nell'arco di una vita intera, ci sono molte “prime volte”!

Tornando a casa, passai dal mare, e lanciai un sasso, affidandogli le mie emozioni, mentre le barche ormeggiate di Boccadasse, si scontravano spinte dalle onde, come comari che si sgomitano, per l'ultimo pettegolezzo!

To be continued.